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La parete gialla
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Qualche tempo fa mi è stato fatto un dono prezioso: un vecchio foglio protocollo, un po' ingiallito, con l'intestazione dello Stabilimento Penale dell'Isola di Santo Stefano, datato 2 marzo 1888, che riportava la supplica di un ergastolano, certo Buzzi Raffaele, indirizzata al sindaco della sua città natale, Comacchio, perchÊ intercedesse in suo favore presso Sua Maestà Umberto I, il Re d'Italia. A me è parso giusto scrivere questa storia, del resto del tutto inventata, in memoria di un uomo infelice, uno dei tanti, che ha trascorso la maggior parte della sua esistenza fra le mura di un carcere, con davanti agli occhi una parete gialla come unico orizzonte. (L'autore)
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Information
Subtopic
StorytellingLA PARETE GIALLA
La violenta luce del sole, ormai prossimo al tramonto, entrava fra le sbarre della cella andando a riscaldare le gambe dellâanziano galeotto. Lâuomo se ne stava seduto al piccolo tavolo dâangolo, intento a scrivere. Avvertendo il gradevole tepore, sollevò lo sguardo dal foglio che teneva davanti a sĂŠ e guardò la parete che gli stava di fronte.
Finalmente pareva rilassato. Si stava avvicinando la fine della sua fatica: la supplica poteva dirsi quasi ultimata. PiĂš di un mese gli era costata quellâimpresa, mica poco⌠Ma in fondo, che cosa contava il tempo per lui: niente, assolutamente niente.
Prima di rileggerla, Raffaele guardò fuori. Non câera molto da vedere per la veritĂ , soltanto la parete gialla e scrostata posta a protezione del ballatoio circolare che correva davanti al semicerchio delle celle, visibile attraverso le sbarre della porta. Uno schermo amorfo, immutabile negli anni, che lui del resto aveva imparato a conoscere a memoria, in ogni sua geografia che lâaria salmastra vi aveva col tempo disegnato, in ogni suo piĂš piccolo dettaglio. Ogni crepa gli era familiare, ogni macchia dâumiditĂ , ogni scrostatura.
Su quel muro lui aveva imparato a proiettare i suoi piĂš reconditi pensieri, le sensazioni che avvertiva, le immagini che gli venivano da dentro e che con prepotenza si facevano strada fino ad affiorare agli occhi della mente. Erano anni che si confrontava con quella parete gialla, ventuno per lâesattezza, tanto che ormai era riuscito ad attraversarla, ad andare oltre. Era quella la sua vera evasione, la sua fuga! Per fortuna câera riuscito, altrimenti a questâora per lui sarebbero stati guai seri.
Lâanziano detenuto sollevò lo sguardo e fissò il muro oltre le sbarre. Quellâora gli piaceva, gli dava un senso di pace, di grande serenitĂ . Quasi di gioia. Lâaria giĂ intiepidiva, facendo presagire lâimminenza della fine dellâinverno. Unâaltra primavera stava per sopraggiungere, con le sue innumerevoli sfumature di luci, di colori, di odori del tutto speciali che venivano dal mare lĂŹ poco lontano, invisibile dalla cella dove si trovava, ma pur sempre presente nellâaria che respirava. Lui ormai le aveva imparate a conoscere assai bene quelle sensazioni, che del resto solo su quel piccolo grumo di roccia sperduto in mezzo al mare era possibile avvertire.
Per qualche tempo ancora rimase a fissare la parete che gli stava davanti, mentre i pensieri, comâera sua abitudine, avevano preso a vagare senza una meta, perdendosi lontano. Poi lâuomo tornò a concentrarsi sul foglio di carta che teneva davanti a sĂŠ.
Lo fissò a lungo, mentre ora una vaga sensazione dâinquietudine sâinsinuava nel suo animo e gli incupiva il volto, senza che lui potesse farci niente. Sarebbe finalmente servita a qualcosa, quella supplica?⌠Era la tredicesima che scriveva. Dovâerano andate a finire le altre dodici?⌠Cosa gli aveva procurato alla fine dei conti tutto quel suo darsi da fare, quel continuo affannarsi?⌠Che vantaggi ne aveva ricavato?
âFatti coraggio, Raffaele. Vedrai che questa volta ti daranno ascolto. Ti devono ascoltare, devono starti a sentireâ. La mano di Beppe, il vecchio compagno di cella, sâera posata con delicatezza sulla sua spalla.
Da qualche tempo lâuomo, disteso sulla seconda branda, quella piĂš in alto, teneva dâocchio Raffaele intento a ultimare la supplica. Lâaveva visto interrompere il lavoro, ormai avviato verso la conclusione, e lasciare che lo sguardo si perdesse lontano, allâapparenza soddisfatto dellâopera compiuta. Pure lui a quel punto sâera compiaciuto, come se il lavoro, almeno in parte, fosse anche opera sua.
Poi aveva colto sul viso dellâamico, che lui del resto aveva imparato a conoscere come le sue tasche, un attimo di ripensamento, dâincertezza, mentre una nuova ombra dâinquietudine era affiorata suo malgrado. E subito sâera allarmato.
Sapeva bene che Raffaele non avrebbe potuto sopportare unâaltra delusione, dopo le tante a cui era andato incontro! Di questo Beppe ne era consapevole. Unâulteriore sconfitta, ancora una porta sbattuta sul muso, e il suo amico avrebbe potuto cedere di schianto. Per ventâanni e piĂš quellâuomo aveva vissuto la sua vita di recluso, di ergastolano, nella convinzione che un giorno o lâaltro ce lâavrebbe fatta a uscire da quella strana cella semicircolare, da quella specie di guscio dâuovo in cui era rinchiuso, per tornare a impossessarsi della propria libertĂ , della propria esistenza.
âMe la farai leggere, quando lâavrai finita?â. Beppe ora fissava lâamico negli occhi. âSono certo che questa è la volta buona, vedrai!â.
A sua volta Raffaele guardò il compagno di cella e gli sorrise. Nel suo animo provò una profonda gratitudine, mista ad affetto, per quellâuomo mite che una sorte benigna gli aveva assegnato come compagno di cella per tutti quegli anni. Con lui aveva convissuto giorno dopo giorno, notte dopo notte, come con una sposa devota, per niente invadente, che in mille occasioni aveva saputo essergli dâaiuto, tendergli una mano. In quel momento sentĂŹ di volere bene a quellâuomo, un bene sincero, profondo, quasi fisico.
âGrazie, Beppe. Speriamo bene⌠Certo che te la farò leggere: tu naturalmente sarai il primoâ.
I due uomini rimasero a lungo in silenzio, a fissare entrambi il muro giallo di fronte alla cella, che la forte luce del tramonto andava a ricoprire di mille scaglie dâoro. La mano di Beppe, ora in piedi alle spalle dellâamico che se ne restava seduto al tavolo, davanti al foglio di carta pieno zeppo di parole scritte con cura, in bella calligrafia, andò a posarsi sul capo di Raffaele in una specie di fugace carezza. E quel semplice gesto di premura ancora una volta valse a rasserenare lâanziano ergastolano.
* * *
Nel tepore decisamente primaverile della bella giornata di fine febbraio, era piacevole passeggiare in âpiazza grandeâ. Lâimmenso cortile semicircolare antistante il bizzarro complesso penitenziario di Santo Stefano, come al solito era gremito di âospitiâ nella consueta ora dâaria mattutina. Raffaele, comâera sua abitudine, non pareva prestare molta attenzione alla folla di derelitti che gli si muoveva accanto, come se in quellâenorme spazio ci fosse solamente lui. A passo lento, le mani incrociate dietro la schiena come un vecchio professore di liceo, lâuomo procedeva guardando in su, in direzione dellâaccozzaglia di nuvole bianche che in un cielo azzurro come non mai andavano a rincorrersi come cavalle impazzite.
In quel mondo di disperati e dâattaccabrighe, dove quasi senza rendersene conto aveva speso buona parte della sua esistenza, Raffaele ben presto aveva imparato a estraniarsi, aveva preso a vivere una vita tutta sua, in compagnia soltanto di sĂŠ stesso, come se lui fosse lâunico ospite di quellâalbergo fuori dal mondo. E al di lĂ dâogni aspettativa era pure riuscito nellâintento, il che era a dir poco sorprendente in un mondo come quello.
Gli altri detenuti, dopo qualche scontro dei primi tempi, affrontati da Raffaele con lucida determinazione, senza peraltro mai ricorrere alla violenza, lâavevano lasciato perdere, come se neppure valesse la pena di prendersela con un tipo simile, che alla forza fisica sapeva opporre una disarmante ragionevolezza, del resto quasi sempre contagiosa. Anche le guardie lo lasciavano fare: anzi a volte pareva quasi che nei suoi confronti avessero preso a nutrire una specie di rispetto, se non proprio di simpatia.
Pure in quella passeggiata mattutina del vecchio ergastolano si poteva a tratti cogliere un vago senso di considerazione da parte di chi gli stava attorno, compagni di sventura o guardie che fossero. Un cenno di saluto, una mano che gli sfiorava la spalla, a volte addirittura un sorriso abbozzato, cose da non crederci neppure in un ambiente come quello. Ma tantâè, questa era lâatmosfera che il vecchio aveva saputo creare attorno a sĂŠ, in tanti anni di permanenza in quellâinferno, dove non sempre era possibile conservare una parvenza dâumana convivenza.
Tale in effetti era il penitenziario dellâIsola di Santo Stefano, a due passi da Ventotene, nellâarcipelago delle Pontine, costruito in modo a dir poco sorprendente. Senza dubbio era stato concepito da ingegni perversi che, in nome dâuna lungimirante modernitĂ , avevano ideato lâistituto di pena alla stregua dâun grottesco teatro semicircolare, dove da qualsiasi punto si guardasse, ciascuno degli ospiti poteva essere tenuto dâocchio dai guardiani in ogni istante del giorno e della notte. Le stesse porte delle celle erano alquanto singolari: difese da robuste sbarre, erano allâapparenza aperte verso il mondo esterno, protette nellâinverno da una controporta in vetro.
Questa era la sgradevole sensazione che Raffaele non poteva fare a meno dâavvertire ogni qualvolta dalla âpiazza grandeâ osservava lâemiciclo delle celle, disposte su tre piani, che lo contornava sovrastandolo. In quei momenti ancora di piĂš provava lâangosciante sensazione di trovarsi al fondo di un pozzo senza fine, dal quale a qualsiasi costo, in un modo o nellâaltro, bisognava uscire.
âAllora Buzzi, lâhai scritta la tua supplica, o non ancora?â. La voce dellâappuntato Carmine Pezzotta raggiunse inaspettata Raffaele, distogliendolo dal suo ozioso passeggiare.
Erano in molti a sapere della supplica. Del resto quella non era la prima volta, che sâaccingeva a scriverne una. GiĂ dodici ne aveva fatte pervenire al Direttore dello Stabilimento, da quando aveva imparato a leggere e a scrivere, vale a dire da una decina dâanni a questa parte. E tutte per un motivo o per lâaltro non avevano portato da nessuna parte.
Ma questa era diversa, questa era stata pensata a lungo, come si conviene, sfruttando tutte le esperienze negative che lâavevano preceduta. Anche don Mario, il cappellano del carcere, che ogni settimana arrivava puntuale da Ventotene per confessare e dire messa, anche lui lâaveva consigliato su come impostarla, per evitare che facesse la fine delle altre. Erano in molti che aspettavano la supplica, e chissĂ perchĂŠ piĂš dâuno in un certo senso ci faceva affidamento. Questa volta Raffaele non poteva sbagliare, erano in tanti a pensarla in questo modo.
âLâho quasi terminata, signor appuntato. Ancora qualche giorno per le opportune correzioni e per metterla in bella, poi vi chiederò di propormi per un incontro con il signor Direttore, al quale intendo consegnarla di persona. Solo nelle sue mani questa volta voglio affidarla. La darò a lui soltantoâ.
* * *
Sâavvertiva con chiarezza la presenza del mare, quella sera, anche se non era dato di vederlo. Un odore forte di alghe e di spuma impregnava lâaria, fino a prendere alla gola e a far girare la testa. Sâudivano vicine le grida rauche dei gabbiani e il frangersi dellâonda contro le scogliere di Punta Falcone e della Madonnina.
Con lo sguardo fisso sul muro antistante la cella, Raffaele se ne stava accucciato ai piedi della branda, guardando lontano. Seduto al tavolo, Beppe era impegnato con le carte nel suo consueto eterno solitario, nellâattesa che arrivasse il carrello con la cena. Non voleva disturbare lâamico con inutili chiacchiere: fra loro del resto ormai da tempo non câera granchĂŠ da raccontarsi. Quando Beppe lo vedeva cosĂŹ assorto e silenzioso, sapeva che Raffaele stava compiendo uno dei suoi viaggi, in un mondo tutto suo, nel quale non era concesso seguirlo.
In effetti il vecchio ergastolano era lontano, tanto lontano come da tempo non si spingeva piĂš. Sulla parete gialla, che davanti a lui stava a limitare lo spazio fisico del suo angusto mondo di ergastolano, le immagini avevano cessato dâaggrovigliarsi e avevano preso a procedere con ordine, scorrendo sempre piĂš nitide e distinte, con la stessa immediatezza con cui tanti anni prima gli sâerano impresse negli occhi e nella mente. Ventuno anni, per la precisione, erano trascorsi da quei momenti, eppure ancora adesso ogni dettaglio era ben vivo e nitido, come allora. Ogni luce, ogni suono, ogni odore era rimasto tale e quale. Pareva che tutto quel tempo fosse trascorso invano, come se si fosse fermato in quel preciso istante.
* * *
Avevano atteso a lungo sul molo, che tutti gli altri passeggeri sâimbarcassero. Se ne stavano ammucchiati sulla banchina, loro ergastolani, una ventina in tutto, sfiniti per il lungo viaggio in treno e storditi dallâaria e dalla tanta gente a cui non erano piĂš abituati. Mentre, distesi sul cemento ancora caldo del porto, riprendevano fiato, una folla curiosa e impietosita gli passava accanto. Erano soprattutto le donne e i bambini che mostravano compassione, cosĂŹ almeno pareva a Raffaele. O forse era soltanto una morbosa curiositĂ per le catene che si trascinavano dietro, a indurre tutta quella gente a rallentare il passo e a osservarli come se si fosse trattato dâuna specie sconosciuta dâanimali.
âTu lo sai, dove ci troviamo?â aveva domandato in un sussurro Raffaele al suo vicino, un uomo attempato e grintoso, che nei tre giorni di carro bestiame che li avevano portati da Bologna a lĂŹ non aveva detto una sola parola. Lâuomo lâaveva guardato sorpreso, prima di rispondere.
âNon sai nemmeno leggere!âŚâ aveva ringhiato alla fine, indicando con un cenno del capo il grande cartello posto al termine del molo. âSiamo a Formia, non vedi. In attesa dâimbarcarci per Ventotene e Santo Stefano, la nostra nuova casaâ aveva concluso lâuomo con un ghigno beffardo, tornando a estraniarsi nel suo mondo. Lo sguardo del detenuto aveva ripreso a vagare lontano.
âFate silenzio voi due, per la miseria, se non volete assaggiare questo!âŚâ era subito intervenuta una delle guardie, avvicinandosi minacciosa ai due con il grosso manganello sollevato.
Raffaele comunque ne sapeva come prima. Lui in vita sua non sâera mai mosso da Comacchio, un paese fuori dal mondo, sperduto in mezzo alla laguna, dovâera nato e dovâera vissuto fino a un anno prima, quando tutta quella brutta storia era cominciata. Al di lĂ delle sue valli e della sua cittĂ natale lui non conosceva altri luoghi, non era mai stato da nessuna parte. Aveva compiuto venticinque anni, e non sâera mai mosso dal paese. Neppure per il servizio militare, al quale era risultato inidoneo per una qualche ragione a lui del tutto sconosciuta.
Era stato soltanto dopo il fattaccio con la Teresa Simoni che era iniziata la sarabanda degli spostamenti, da una prigione allâaltra, da un tribunale allâaltro, dapprima a Ferrara, poi a Bologna, e ora pure in questa cittĂ sul mare dal nome a lui sconosciuto, anche se delicato come un fiore: Formia!⌠Raffaele sâera guardato attorno. La sua giovanile curiositĂ non aveva tardato a prendere il sopravvento sulla stanchezza e sul disagio che le lunghe ore dâattesa, dopo il viaggio interminabile, gli avevano procurato. La fame e la sete si facevano sentire con ferocia, ma in quella bella giornata dâottobre parevano passare in sottâordine.
Le operazioni dâimbarco procedevano a rilento; molti dei normali viaggiatori ancora sâaccalcavano ai piedi della scaletta, sgomitando e spingendosi lâun lâaltro per salire a bordo. Sâavvertiva una certa elettricitĂ nellâaria, qualcuno alzava la voce, in certi momenti câera da temere che si potesse passare alle vie di fatto. Ma tutta quella baraonda lasciava indifferente Raffaele, il quale, assieme agli altri detenuti in attesa dâessere imbarcati, se ne stava seduto per terra, le ginocchia ben strette contro il petto, ad assaporare fino in fondo la bella giornata autunnale. In alto gabbiani dâargento volteggiavano senza un battito dâali, adagiati sul vento. Nellâaria câerano odori forti di pesce, di reti e di cordami, di vele e di canapa, che inducevano nellâanimo del giovane pescatore continui fremiti di piacere. Quel mondo e quegli odori erano stati suoi fino a un anno prima. In un certo senso gli erano appartenuti. Ora li assaporava, quasi li gustava, facendo uno sforzo su sĂŠ stesso per non porsi la domanda che nel suo animo incalzava. Li avrebbe mai piĂš ritrovati?âŚ
Alla fine avevano fatto salire a bordo i detenuti e le guardie che li accompagnavano. Sistemati a poppa, separati dal resto dei viaggiatori da un boccaporto chiuso sul quale sedevano i guardiani, i galeotti guardavano lontano, ciascuno inseguendo i propri mesti pensieri. Solo Raffaele non riusciva a sentirsi triste. Quella giornata dâottobre era troppo bella per non gustarla fino in fondo, dopo tanti mesi trascorsi al chiuso, da un carcere allâaltro, da una caserma allâaltra.
Poco dopo la nave era salpata e ben presto aveva preso il largo. Lâaria pungente, decisamente fredda, accarezzava il volto di Raffaele quasi fosse una mano a lui familiare. In quei momenti neppure gli sfiorava la mente il pensiero che quella forse era lâultima volta che navigava. Teneva gli occhi chiusi e lasciava che il mare lo portasse. Anche quando aveva fatto buio non sâera lasciato sopraffare dallo sconforto: sopra la sua testa una miriade di stelle grosse come mele rilucenti gli davano conforto e lo rasserenavano.
Allâalba sâera svegliato intirizzito, dopo un sonno agitato che lâaveva preso suo malgrado. Davanti a loro giĂ si scorgeva, azzurrina nella lontananza, il profilo di unâisola. A Ventotene erano giunti che il sole era giĂ alto. Nel piccolo porto, dove la nave era andata ad attraccare, la confusione era indescrivibile. Del resto lâarrivo del traghetto proveniente dalla terraferma doveva essere lâavvenimento piĂš importante della settimana, a cui pareva che lâintera popolazione dellâisola volesse in qualche modo prendere parte. Grida, saluti, abbracci di parenti ritrovati, urla di scaricatori indaffarati e di marinai impazienti di poter fare ritorno alle proprie case, sâaccavallavano provenendo da ogni parte.
Raffaele continuava a osservare quelle scene con interesse, senza mai stancarsi, quasi con piacere. Anche quelle gli facevano scoprire poco per volta piccoli aspetti di un mondo che fino a quel momento per lui era rimasto del tutto sconosciuto. Prima di farli scendere dalla nave, ai detenuti era stato finalmente distribuito qualcosa da mangiare: era dal mattino precedente che quei disgraziati non toccavano cibo. Sulla nave ogni tanto avevano ricevuto qualche mestolo dâacqua, nientâaltro.
Appena messo piede sulla banchina, i galeotti erano stati sospinti in tutta fretta verso lâestremitĂ del porto, dove un pontile era riservato allâattracco delle barche del Penitenziario. Pareva quasi che la gente del posto avesse fretta di spedirli a destinazione. Un cartello sbiadito riportava a grosse lettere la scritta âStabilimento Penale di Santo Stefanoâ e piĂš sotto, in piccolo: âattracco riservato-vietato accostareâ. I detenuti erano stati fatti salire su una barchetta a motore che a malapena li conteneva tutti quanti, guardie comprese, la quale subito dopo sâera staccata dal molo e aveva preso a costeggiare lâisola.
Avevano impiegato poco meno di mezzâora per raggiungere capo Eolo e doppiarlo. Non appena la barca sâera ritrovata dallâaltra parte dellâisola, Santo Stefano era ap...
Table of contents
- Copertina
- LA PARETE GIALLA
- Indice
- Intro
- Introduzione
- LA PARETE GIALLA
- Ringraziamenti
