La realtà gioca sul filo del sospetto. I fatti, la cronaca, gli ambienti, i paesaggi stessi in Sciascia sono sospesi nel di dentro di una attesa che coinvolge quotidianità e mistero. Nella vita c’è sempre il mistero, così come nella storia. Alcuni fatti che Sciascia storicizza vivono nel mistero-enigma perché non si sa mai la verità o perché la verità è sempre altra cosa rispetto a ciò che si possa pensare.
Sciascia racconta non solo il suo tempo. I personaggi che si muovono nelle pagine diventano protagonisti e testimoni di se stessi e di un’epoca di cui ne raccolgono le testimonianze.
Nei suoi lavori, la Sicilia è sempre presente. In questo caso non vi compare una Sicilia dalle immagini romantiche o una Sicilia romanzata. La Sicilia è sì un emblema che rincorre il sentimento, ma è anche soprattutto la coscienza dello scrittore. Ecco, dunque, la coscienza pensante. La Sicilia come meridionalità e mediterraneità, ma anche come appartenenza ad una terra, a un valore, ad una ereditarietà. La Sicilia come destino. Su questo tracciato prevale il documento. Un documento freddo, bloccato sulla cronaca, lontano dal cuore dello scrittore. I personaggi rivitalizzano la cronaca stessa rendendola partecipata e partecipativa. Il racconto si muove all’interno della cronaca.
Nel 1950 pubblica Favole della dittatura. Un libro incerto, privo di slancio e fragile. Così la sua raccolta di poesie di due anni dopo dal titolo Sicilia, il suo cuore. La Sicilia è al centro di queste prime avventure letterarie. Nel 1956 pubblica Le parrocchie di Regalpetra. Un libro nel quale l’inchiesta si apre a ventaglio su una scrittura viva e intensa. Con questo libro Sciascia sottolinea già la sua avventura di scrittore e fa una ipoteca su ciò che scriverà in futuro.
Nel 1958 escono i racconti dal titolo Gli zii di Sicilia nei quali si respira un’atmosfera da cronaca. È uno spaccato storico ben preciso. Garibaldi, la Spagna, il Fascismo, il 1943 e la morte di Stalin. Attraverso questi passaggi, Sciascia disegna un quadro nel quale le tinte e i chiaroscuri sembrano avere una impostazione ideologica, ma alla fine ci si accorge che ciò che resta è soltanto una angoscia di fondo. È così in quasi tutti i suoi libri. In Sciascia c’è una ironia-allegoria e la realtà che si raccoglie intorno al personaggio o al racconto stesso. Accanto all’ironia si affianca la denuncia. In una intervista apparsa sul supplemento di “ La Repubblica” nell’ottobre del 1989, alla domanda: “Ad attrarla maggiormente è la soluzione dell’enigma o il mantenimento del mistero?”, Sciascia rispondeva: “Il mantenimento del mistero: che non ha mai soluzione anche quando sembra trovarla. Il “giallo” presuppone l’esistenza di Dio. E l’esistenza di Dio… ma fermiamoci qui”. Il titolo dell’intervista: “Il mistero, questo nostro pane quotidiano”. Firmata da Benedetta Craveri.
I suoi libri si muovono intorno a questo mistero che non chiede di essere ascoltato dalla ragione perché resta sempre avvolto nella dimensione del sospetto e dell’attesa. I fatti si raccontano, vengono raccontati, possono restare tali ma subentra, quasi sempre, un’altra entità: l’impossibilità di afferrare il sogno. Si pensi a Candido o a Il cavaliere e la morte.
Nel 1961 pubblica Il giorno della civetta. Un racconto che lo fa conoscere al grande pubblico. È una storia di mafia. C’è un delitto iniziale, che richiama altre simili situazioni di sangue e di omertà, e c’è l’inchiesta affidata a un capitano del nord. Si creano diversi e complicati intrecci e alla fine non si approda a nulla. La mafia supera ogni sbarramento. Come sempre c’è di mezzo la politica. L’atmosfera che si viene a creare è di attesa. Un racconto attraversato anche dal sentimento.
Il Consiglio d’Egitto è del 1963. Un romanzo storico il cui l’ambiente riflette la Palermo del vicereame di Caracciolo. Il pessimismo di Sciascia affiora con intelligenza e sobrietà. I fatti hanno una loro drammatizzazione e si consumano all’interno di un incrocio che vede protagonista la pietà. Sullo stesso tracciato si incontrano libri come L’onorevole e Morte dell’inquisitore del 1964, Recitazione della controversia liparitana dedicata ad A.D. del 1970. In quest’ultimo scritto (si tratta di un dramma) c’è una metafora graffiante. La rievocazione di un episodio avvenuto tra Stato e Chiesa nel 1700, ma la metafora o l’allegoria ci riporta alla Praga devastata e occupata dai carri armati sovietici durante la primavera del 1968. È una allusione interessante con la quale Sciascia mette in discussione il marxismo condannandolo e mostrando il vero volto del comunismo (questo dramma è un esempio ma non unico).
In direzione di un altro versante vanno i libri A ciascuno il suo del 1966, Il contesto del 1971, I pugnalatori del 1976. Il giallo di Sciascia è intraprendente. È un giallo che riserva, fino all’ultimo momento, nuove sorprese e sconvolgimenti. Cattura per la tensione che si viene a creare nelle pagine e per la sintesi. Sciascia è uno scrittore che non annoia perché i suoi libri rappresentano una sintesi completa, alla quale nulla sfugge.
Tra gli scrittori che hanno stimolato Sciascia vanno ricordati Stendhal e Pirandello. L’interesse verso quest’ultimo è duplice. Da una parte la sicilianità e dall’altra l’ironia che si lega allo sdoppiamento del personaggio, alla recita e alla vita. Nel 1961 Sciascia pubblica un omaggio a Pirandello dal titolo Pirandello e la Sicilia. La figura di Pirandello è presente in alcuni contesti narrativi e quando il personaggio si muove tra finzione e realtà. Ma l’inchiesta continua con gli Atti relativi alla morte di Raymond Rousse del 1971, Todo modo del 1974 e La scomparsa di Majorana del 1975.
Si passa dal suicidio al delitto e da questo alla scomparsa, non chiarita, del giovane scienziato. È presente un tracciato sul quale si muovono numerose pedine. Ed è sempre l’inchiesta o l’indagine a fare da sfondo e attraverso l’inchiesta si ricavano le chiavi di lettura.
Nel 1977 pubblica Candido. Un libro che ha spessore sia letterario che umano. C’è lo sfaldamento di alcuni valori e il senso della solitudine che trionfa al di là della questione ideologica che è quasi sempre presente. Ma in Candido c’è anche una pagina ricca di sentimento. Nel 1978 esce L’affaire Moro. La tragica vicenda, che si consuma dal 16 marzo al 9 maggio del 1978, è rivissuta da Sciascia attraverso le lettere di Moro e mediante la ricostruzione di alcune pieghe degli avvenimenti. Nel 1979 esce Nero su nero, nel 1983 Cruciverba, nel 1985 Occhio di capra, nel 1985 Cronachette, nel 1986 La strega e il capitano, nel 1986 1912 + 1, nel 1987 Porte aperte, nel 1988 Il cavaliere e la morte, nel 1989 Alfabeto pirandelliano. Sempre nel 1989 vedono la luce Una storia semplice, Fatti diversi di storia letteraria e civile e A futura memoria.
L’ultimo decennio è stato intenso. Dal giallo al racconto ironico, dal racconto al saggio. Nel 1989 pubblica due raccolte di saggi che contengono scritti letterari e considerazioni varie. Dall’ultimo decennio emerge una diversità di vedute sui problemi della vita e sul paese. Il suo cammino si è orientato su due sponde: il mistero e la ragione. Sciascia ci ha spiegato come in lui mistero e ragione possano convivere. Tuttavia vi è un discorso ancora aperto sul quale impostare una discussione. Il pessimismo di Sciascia, in fondo, è ottimismo, poiché è sempre contraddistinto dalla speranza.
Nell’intervista citata dichiara: “E quale miglior prova di ottimismo di quella che continuo a dare scrivendo su quella che Machiavelli chiamava la verità effettuale delle cose e riscuotendo per questo le più violente reazioni degli stupidi – per non dir peggio? Il vero pessimismo sarebbe quello di non scrivere più, di lasciar libero corso alla menzogna. Se non lo faccio, vuol dire, in definitiva, che sono inguaribilmente ottimista”.
Una confessione che rende Sciascia, con quella sua coscienza critica, sempre presente sui fatti della vita e della politica, nonostante le sue posizioni. Ma l’uomo è al di là di tutto, con la sua coscienza e con il suo cuore.
La sicilianità è un dato caratterizzante che domina in Leonardo Sciascia. Un sentimento presente, con la sua peculiare forza e tensione, fin dai primi scritti. Basterebbe osservare non solo gli ambienti (il paese con i suoi interni, i suoi vicoli, le sue strade) ma, soprattutto, i personaggi.
A volte Sciascia descrive con meticolosità i suoi personaggi raffigurandoli con un tocco ben preciso. Si pensi alla vedova Nicolosi ne Il giorno della civetta. Così la descrive: “Era bellina, la vedova: castana di capelli e nerissimi gli occhi, il volto delicato e sereno ma nelle labbra il vagare di un sorriso malizioso. Non era timida. Parlava un dialetto comprensibile…”.
Il giorno della civetta non è soltanto un racconto di mafia o di intrecci tra mafia e politica. È anche un racconto in cui i personaggi si mostrano e narrano un’avventura. Ci sono disegni caratteriali. Una storia che non si muove per ambienti, ma proprio grazie ai personaggi che Sciascia riesce a costruire. Inizia con un omicidio. Ci sono i personaggi dell’autobus. I carabinieri. C’è il capitano Bellodi. Ci sono i fratelli Colasberna. C’è don Mariano. E c’è anche un personaggio, forse considerato minore, che si agita nelle prime pagine. È il panellaro. Il quadro contiene altri nomi e ruoli, ma è proprio grazie ai personaggi che l’intreccio si forma.
Un altro personaggio che si muove nel primo contesto è il “confidente”. In Sciascia si vengono a creare dei movimenti. I suoi personaggi sono sempre in movimento e sembrano agitarsi all’interno di uno scenario che si mostra in tutta la sua naturalezza. Non c’è niente di forzato. I personaggi e gli ambienti sono momenti caratteriali. Alcune osservazioni e metodologie, che Sciascia usa per definire un personaggio e ideologizzarlo, non possono essere condivisi, ma va condiviso il tentativo di ironizzare.
Già dalle prime battute il quadro sembra abbozzato: “L’autobus stava per partire, rombava sordo con improvvisi raschi e singulti. La piazza era silenziosa nel grigio dell’alba, sfilacce di nebbia ai campanili della Matrice: solo il rombo dell’autobus e la voce del venditore di panelle, panelle calde panelle, implorante ed ironica”.
Così il primo spaccato ha una sua intelaiatura. In questo spaccato c’è la Sicilia dai colori vivaci e dell’omertà, c’è la Sicilia in cui la morte è nulla in confronto alla vergogna. C’è la Sicilia del silenzio e della fantasia: “La Sicilia è tutta una fantastica dimensione: e come ci si può star dentro senza fantasia?”. C’è la Sicilia meno conosciuta ma forse più vera: “Il capitano cominciò a parlare della Sicilia, più bella là dove è più aspra, più nuda. E dei siciliani che sono intelligenti: un archeologo gli aveva raccontano con quale abilità e alacrità e delicatezza i contadini sanno lavorare negli scavi, meglio degli operai specializzati del nord. E non è vero che i siciliani sono pigri, e non è vero che non hanno iniziativa”. C’è la Sicilia dei paesi. E i paesi sono pietà e dolore, ricordo e fantasia: “È il mio paese: ma a volte, sa come succede, uno manca per un paio d’anni; e i ragazzi sono giovani, e i vecchi sono più vecchi… E non parliamo delle donne: le lasci che giuocano per le strade con le noccioline, torni dopo un paio d’anni e le trovi con i bambini attaccati alla veste, e magari sformate nel corpo…”. C’è la Sicilia che resta legata all’infanzia: “Ne sono contento… E non è poi difficile ricordare certe cose, certe persone: specialmente se sono legate a un tempo felice della nostra vita: l’infanzia”.
Un racconto in cui non c’è soltanto una storia di personaggi in costante conflitto, come finora si è voluto vedere, e giocati tra un religioso servizio alla mafia e in contrapposizione alla legge. Ma di quale legge dovrebbe trattarsi? La Sicilia va letta anche attraverso altre pagine e altre leggi. La Sicilia dei colori, della famiglia e dell’orgoglio: “Dentro quell’istituto che è la famiglia, il siciliano valica il confine della propria naturale e tragica solitudine e si adatta, in una sofisticata contrattualità di rapporti, alla convivenza. Sarebbe troppo chiedergli di valicare il confine tra la famiglia e lo Stato. Magari si infiammerà dell’idea dello Stato o salirà a dirigerne il governo: ma la forma precisa e definitiva del suo diritto e del suo dovere sarà la famiglia, che consente più breve il passo verso la vittoriosa solitudine”.
Tutte queste annotazioni caratteriali fanno emergere una Sicilia diversa. C’è la Sicilia di don Mariano con il suo volto, con i suoi retroscena, con il suo dolore e la sua paura. C’è anche una Sicilia che va amata per i suoi sentimenti, i suoi affetti, la sua storia. Non è giusto che si individui in Sciascia soltanto la prima Sicilia, quella dal volto amaro. Le ultime parole che chiudono il racconto segnano l’inizio della speranza o di un’illusione, ma non emerge quel buio che più volte ha fatto di Sciascia uno scrittore pessimista. Si parla di Bellodi. Ecco: “Rincasò verso mezzanotte, attraversando tutta la città a piedi. Parma era incantata di neve, silenziosa, deserta. ‘In Sicilia le nevicate sono rare’ pensò: e che forse il carattere delle civiltà era dato dalla neve o dal sole, secondo che neve o sole prevalessero. Si sentiva un po’ confuso. Ma prima di arrivare a casa sapeva, lucidamente, di amare la Sicilia: e che ci sarebbe tornato”.
Con ciò non si vuole negare l’aspetto sociale che il racconto rivela ma, soprattutto a distanza di anni, sarebbe opportuno svolgere una verifica anche verso altre motivazioni. E di motivazioni, in “ Il giorno della civetta”, ne abbondano. Emerge l’aspetto ideologico.
Qui bisognerebbe meditare un po’. Non si comprende come mai i personaggi positivi siano comunisti, o che militano nella sinistra, e i mafiosi debbano appartenere necessariamente ad altre parrocchie. È un dato che si ripete anche negli altri racconti. Un aspetto piuttosto forzato. Questo tendere a salvare i personaggi positivi, contrassegnandoli con un marchio, è del tutto gratuito. L’aspetto positivo di questa tendenza è il tentativo di ironizzare, altrimenti una tale inquadratura resterebbe riduttiva a tutto danno del racconto stesso. Ma Sciascia, da intellettuale intelligente, ha sperimentato con mano certe situazioni e il suo travaglio ideologico, nonché il suo impegno sul piano politico, lo hanno portato a fare scelte precise, contrapponendolo a ciò in cui aveva creduto. Nei confronti di Sciascia ci fu una vera e propria campagna denigratoria. Gli fu dato del “disfattista” solo perché diceva ciò che realmente pensava.
Con il PCI i rapporti furono contraddittori e conflittuali. Alle prime avvisaglie si allontanò dal partito e da quella politica. Con Berlinguer ebbe addirittura una dura polemica che finì in querele. Sia dalle colonne dell’”Unità” che da “La Repubblica” vennero lanciati insulti nei confronti di Sciascia, soprattutto dopo la pubblicazione di L’affare Moro. Con Il giorno della civetta siamo nel 1961. Passeranno pochi anni e Sciascia disegnerà altri spaccati con un’altra consapevolezza e nuovi aspetti.
Candido resta un libro della consapevolezza sul quale si dovrà meditare, in quanto la tavola dei significati e delle offerte è abbastanza eterogenea. Ma è in Il giorno della civetta che i personaggi si mostrano ben definiti e vivono di una loro storia e di un loro ruolo, grazie anche ad una metafora che resterà intatta nei lavori successivi.
Di Sciascia non tutto assurge a letteratura. Il suo insistere sulla tastiera della pagina cronaca, ha creato molte volte dei capitoli privi di slancio. Sciascia stesso preferisce raccontare la quotidianità che, però, nega l’ironia. C’è ironia quando cessa la descrizione, la forzatura del reale. C’è ironia-metafora quando Sciascia dimentica il peso delle ideologie. D’altronde la sua è stata un’indicazione minimalista. Da questo punto di vista andrebbe riesaminato il suo lavoro letterario nel quale, tuttavia, non vi si rinviene quella grande ironia che ha contraddistinto Brancati. Un altro tipo di scrittore con altri modelli e riferimenti. La donna in Brancati è passione. In Sciascia è presente in forme diverse. Forse è più aggressiva, ma non è passione.
Il giorno della civetta resta un racconto del quotidiano. Bisognerebbe andare al di dà della schematizzazione in cui Sciascia si è andato a ficcare. Oltre la sclerotizzazione ideologica, alcune pagine sarebbero da rivedere. I racconti di Sciascia sono senza dubbio dei buoni racconti. Ma non vanno oltre. Ci sono i personaggi. Ci sono sintomi caratteriali. Ma per tentare di capire occorrerebbe anteporre a Sciascia il già citato Brancati. In Brancati la cronaca è sempre superamento. La attraversa per recuperare l’ironia e il senso che questa ironia ha nel corpo e nel cuore dei personaggi.
Sciascia non supera la cronaca. È lo scrittore che fa cronaca perché nella cronaca realizza il suo modello di scrittura. Per rivisitarlo si sono cercate le pagine meno consumate, che hanno una attinenza maggiore con il respiro ironico e con la metafora. Se si considera Sciascia soltanto come lo scrittore che ha denunciato la connivenza tra mafia e politica, la funzione letteraria cessa e resta il cronista che non ha nulla a che vedere con l’ironia della pagina e con la letteratura destinata a durare.
A questo punto andrebbe fatto un certo tipo di discorso.
Si preferisce lo Sciascia cronista, o si dovrà fare in modo di recuperare e rileggere quelle pagine che contengono un respiro diverso? Di certo si tratta di una operazione difficile e complessa, ma forse con il tempo, e con una rivisitazione generale della letteratura contemporanea, parecchi aspetti verranno chiariti.
In Il giorno della civetta si legge: “La verità è nel fondo di un pozzo: lei guarda in un pozzo e vede il sole o la luna; ma se si butta giù non c’è più sole né luna, c’è la verità”.
Questa intelligente e schietta osservazione ci introduce A ciascuno il suo. Ancora una volta un racconto di paese. Il paese è al centro della storia. Qui, più che in ogni altro racconto, il paese è protagonista, con una coscienza e un cuore. Ha personaggi in costante movimento nei quali si agita il binomio “vita-morte”. Tra vita e morte si consumano le diatribe, gli inganni, le finzioni di un paese che alla fine racconta la sua verità.
Il farmacista del paese riceve una lettera in cui lo si minaccia di morte. La minaccia troverà la sua drammatica attuazione nel corso di una battuta di caccia, dove morirà anche l’amico dottore che era insieme a lui. Inizia un’inchiesta che non approda a nulla. Un professore di Lettere intraprende per conto suo un’indagine. Giunto al bandolo della matassa viene rapito e si può immaginare la sua fine. L’intreccio è tra il giallo e il passionale. C’è di mezzo l’amore, ma anche la mafia e la politica.
I personaggi femminili in A ciascuno il suo ricoprono uno specifico ruolo. Così come in Il giorno della civetta e come si vedrà in Candido.
In Il giorno della civetta la vedova Nicolosi costituisce una chiave interpretativa da riconsiderare, sia come personaggio tout cour, che come personaggio che rivela una profonda sicilianità. In A ciascuno il suo i personaggi femminili simboleggiano l’anima del racconto stesso. Si pensi alla mamma del professore di Lettere, alla moglie del farmacista e alla moglie del dottore, vero e proprio fulcro intorno al quale gli avvenimenti giungono al tragico epilogo. Si pensi ancora alla ragazza che si reca in farmacia e viene sospettata di intrattenere una relazione con il farmacista. Si pensi al dialogo tra il professore di Lettere e il padre del dottore ucciso insieme al farmacista.
Riferendosi alla nuora, il padre del dottore dice: “… mia nuora è molto bella, no?” – “ O forse molto donna, di quelle che quando io ero giovane si dicevano da letto – con distacco da intenditore, quasi non parlasse della moglie di suo figlio, ora morto, e muovendo le mani a disegnare il corpo disteso. – Credo che questa espressione non si usi più, la donna è caduta dal mistero dell’alcova e da quello dell’anima. E sa c...