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Thomas More (o Tommaso Moro) scrisse l' Utopia nel 1516 circa. Nell'opera, articolata in due libri, è descritta una immaginaria e favolosa isola/regno abitata da una società ideale e perfetta. More derivò il titolo dal greco antico, con un gioco di parole fra ou-topos ( non-luogo ) ed eu-topos ( luogo felice ): Utopia sarebbe dunque una sorta di "luogo felice inesistente". In questa edizione il testo (la traduzione italiana) è stato prudentemente attualizzato, senza alterarne la stesura originale.

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LIBRO SECONDO

UTOPIA DI THOMAS MORE

L’isola degli Utopi, larghissima nel suo mezzo, si stende duecentomila passi, e per lungo tratto non si stringe molto, ma ver la fine d’ambedue i capi si va assottigliando : i quali, piegati in cerchio di cinquecentomila passi, fanno l’isola in forma della nuova luna. Questi suoi corni, dal mare combattuti, sono distanti uno dall’altro circa undici miglia, ed il mare, tra essi dai venti difeso, fa come un piacevole lago e comodo porto; di onde l’isola per suo bisogno manda le navi agli altri paesi: la bocca da una parte con guadi e secche, dall’altra con aspri sassi mette spavento a chi pensasse d’entrarvi come nemico. Quasi nel mezzo di questo spazio è un’alta rupe, quale perciò non è pericolosa, sopra di cui in una torre da loro fabbricata gli Utopiensi tengono il presidio : molte altre rupi vi sono nascoste e perigliose. Essi solamente hanno cognizione dei canali: indi avviene di raro che alcun esterno, che non sia da uno di Utopia guidato, vi possa entrare; quandoché essi a fatica v’entrano senza pericolo, non si reggendo a certi segni posti nel lido, i quali, essendo mossi dai luoghi soliti, guiderebbero ogni grande armata nimica in precipizio. Dall’altra parte è un porto assai frequentato, e dove si scende, fortificato dalla natura e con arte in tal guisa, che pochi uomini lo possono difendere da copioso esercito.
Ma come si narra, ed anco la qualità del luogo ne dà indizio, quella terra anticamente non era dal mare circondata. Utopo, che le diede il nome, perché prima si nomava Abraxa, e ridusse coloro che l’abitavano da una vita rozza e villesca a questa foggia di vivere umano e civile, nel quale vincono quasi tutte le generazioni degli uomini; preso in un tratto il luogo, tagliò quindicimila passi di terreno, col quale era la Utopia continuata a terra ferma, e la fece isola. Ed avendo astretto a tale opera non solamente quelli dell’isola, ma i soldati suoi ancora, con tanto numero di uomini, in brevissimo tempo fornì tale impresa, lasciando stupiti i vicini popoli, i quali di questo prima ridevano. Sono nell’isola cinquantaquattro città grandi e magnifiche di medesima favella, istituti e leggi, e quasi all’istesso modo situate, quanto il luogo ha permesso. Le più vicine sono scostate una dall’altra miglia ventiquattro: ma nessuna è tanto lontana dall’altra, che non vi possa andare un pedone in un giorno. Tre vecchi cittadini e prudenti di ciascuna città ogni anno concorrono in Amauroto 14, la quale per esser nel mezzo dell’isola, e a tutti comoda, è tenuta la principale, ed ivi trattano delle comuni bisogne dell’isola.
Ogni città non ha meno di ventimila passi di terreno d’ogni intorno: ed alcune più, come sono più scostate una dall’altra. Nessuna brama di ampliare i suoi confini, riputandosi gli abitanti piuttosto lavoratori dei campi che tengono, che padroni. Hanno per le ville acconciamente le case, di ogni strumento campestre fornite: in queste vanno ad abitare i cittadini a vicenda. Nessuna famiglia rusticana ha meno di quaranta persone, oltre due villani. Ad essa è preposto un padre ed una madre di famiglia per età e costumi ragguardevoli, e ad ogni trenta famiglie si dà un capo. Tornano nella città ogni anno venti di ciascuna famiglia, i quali sono stati in villa due anni. In luogo di questi vengono altri venti dalla città, perché siano nelle opere villesche ammaestrati da quelli, che per esservi stati un anno, sono di tali opere più esperti; e l’anno vegnente ammaestrino gli altri, a fine che non si trovino tutti del lavorare i campi ignoranti, e nel raccogliere la vettovaglia non commettano errore. Benché questa foggia di rinnovare gli agricoltori sia solenne, acciocché nessuno sia astretto di continuare la vita rusticana più lungamente; nondimeno molti dilettandosi dell’agricoltura, impetrano di starvi più anni.
Gli agricoltori coltivano il terreno, nutriscono gli animali, apparecchiano le legne, e le portano alla città per terra o per mare, come viene loro più in acconcio, fanno nascere con mirabile artificio un’infinità di polli, senza che covino le galline, ma con un caldo proporzionato, e come madri gli accompagnano e governano. Nutriscono pochi cavalli, e feroci, dei quali si servono solamente per le imprese che si fanno a cavallo; perché ogni fatica di coltivare e condurre le cose loro fanno con opera dei buoi, i quali benché siano più lenti che i cavalli, tuttavia sono alla fatica più pazienti, e meno soggetti alle infermità: oltre che riescono di minor spesa, e quando più non valgono alla fatica, si possono mangiare. Usano di seminare solamente il frumento, bevono vino di uva, di pomi o di pera, ovvero l’acqua pura, che talvolta cuociono con miele o liquirizia, della quale hanno copia. E quantunque sappiano quanta vettovaglia si consuma nelle città e nel contado, nondimeno seminano di più, per darne ai vicini. Ogni strumento richiesto all’agricoltura si piglia nella città dai magistrati, senza costo alcuno: e molti là concorrono ogni mese alle feste solenni. Quando è tempo di tagliar il frumento, i preposti dei lavoratori avvisano i magistrati quanto numero di cittadini si debba mandare, e concorrendovi tutti a tempo, in un giorno sereno quasi tagliano tutto il frumento.

DELLE CITTÀ E SPECIALMENTE DI AMAUROTO
Chi ha veduto una di quelle città, le ha vedute tutte; tanto sono una all’altra simili, ove la natura del luogo lo consente. Ne dipingerò dunque una; e benché non importi descrivere più questa che quella, nondimeno ragionerò di Amauroto come più degna. La quale, per avervi il senato, è da tutte le altre onorata; ed io ho di quella maggior cognizione, perché vi sono stato circa anni cinque. Amauroto è situata in una costa di monte, ed è quasi quadrata, perché la sua larghezza comincia poco di sotto dalla cima del colle, e per duemila passi si stende al fiume Anidro 15, lungo la ripa del quale alquanto più si stende. Anidro sorge da piccola fonte ottanta miglia sopra Amauroto; ma dal concorso d’altri fiumi accresciuto passa avanti Amauroto largo cinquecento passi, ed indi poi slargandosi a seicento, mette nell’oceano. In questo spazio di alquante miglia, tra il mare e la città, l’acqua va e torna con molta fretta ogni sei ore. Il mare, quando v’entra, occupa il letto del fiume per trenta miglia, e caccia indietro le acque di quello: e alle fiate le corrompe col salso.
Ma tornando poi addietro, il fiume a l’usato corre con dolci acque irriganti la città: ed un ponte non di travi o legnami, ma di pietra egregiamente lavorata, serve per passarlo a quella parte, che è più dal mare lontana, acciocché le navi possano trascorrere innanzi a quel luogo della città senza pericolo. Hanno ancora un altro fiume, non già grande ma tranquillo e piacevole: il quale sorgendo del monte, ove la città è fabbricata, passa per mezzo di quella, e mette nell’Anidro. Gli Amaurotani hanno tolto dentro nella città la fonte di questo fiume, che non era molto lontana, e fortificatola, acciocché non potessero i nemici divertire l’acqua o corromperla. Indi con cannoni di pietra cotta derivano l’acqua alle più basse parti: ed ove per il luogo non si può condurla, fanno cisterne, nelle quali si raccoglie la pioggia, e ne pigliano i popoli il medesimo comodo. Il muro largo ed alto cinge la città con torri e rivellini: la fossa secca, ma larga e profonda, e con spine e siepi, da tre bande circuisce le mura; e dalla quarta il fiume serve per fossa.
Le piazze sono fatte acconciamente e per condurvi le cose necessarie, e perché siano sicure dai venti: gli edifici non vili e tirati al dritto, quanto è lungo ogni borgo, con le case a rimpetto una dell’altra: le fronti dei borghi hanno tra loro una via larga venti piedi. Dietro le case, quanto è largo il borgo, è l’orto largo e rinchiuso dalle muraglie di dietro dei borghi: ogni casa ha la porta di dietro e davanti, la quale si apre agevolmente in due parti, e si chiude da sé stessa: ognuno vi può entrare. Tanto hanno ogni lor cosa comune, che ancora mutano le case ogni dieci anni. Fanno gran stima degli orti, nei quali piantano viti, frutti, erbe e fiori con grande ordine e vaghezza. Gareggiano i borghi uno con l’altro di aver orti più belli: né hanno cosa, della quale piglino più diletto e comodo, che di questi; dei quali pare che avesse più cura il loro autore, che di qualunque altra cosa. Perché dicono Utopo da principio aver descritto questa forma della città, lasciando poi la cura di ornarla ai discendenti.
Nelle loro storie da quel tempo, che fu presa l’isola, che comprende anni mille settecento e sessanta, le quali conservano molto diligentemente, leggesi, che le case erano basse come tuguri, fatte di ogni sorta di legnami, che potevano avere : le pareti lutate, e la coperta di strami levata nel mezzo. Ma ora le case hanno tre palchi, i muri di selce o mattoni con calce incrostati, e ripieni di rottami. I tetti piani e rassodati in guisa, che non portano pericolo del fuoco, sono coperti di piombo per tollerar le piogge. Le finestre di vetro, che hanno bellissimo, li difendono dai venti; usano ancora a questo tele sottili unte d’olio lucidissimo o di ambra; e indi hanno più chiara luce, e sono dal vento meglio difesi.

DEI MAGISTRATI
Ogni trenta famiglie si eleggono ogni anno un magistrato, detto da loro anticamente Sifogranto, ed ora Filarco. Quello, che è preposto a dieci Sifogranti con le loro famiglie, si nomava Traniboro, ed ora Protofilarco. I Filarchi, che sono duecento, giurano di eleggere principe quello, che giudicheranno di comune utilità, e così danno voti segreti per uno dei quattro, che sono proposti dal popolo e si pigliano dalle quattro parti della città, uno di ciascuna. Questo magistrato dura in vita, purché non venga in sospetto di voler tiranneggiare. I Tranibori si eleggono ogni anno, ma non li mutano senza causa. Tutti gli altri magistrati sono annuali. I Tranibori ogni terzo dì, e talvolta più spesso, vengono a consiglio col principe circa le cose della repubblica, e se v’è pure qualche controversia la quietano. Chiamano ogni dì in senato due Sifogranti per ordine: ed hanno per legge che nessuno statuto sia di valore, del quale non sia prima stato trattato tre dì nel consiglio.
Gli è pena la testa a trattare di cose pubbliche fuori del senato, acciocché non potesse il principe ovvero i Tranibori ordire una congiura, ed opprimere il popolo con tirannia, e mutare lo stato della repubblica. Perciò ogni cosa importante va al consiglio dei Sifogranti, i quali ragionatone con le loro famiglie, ne consigliano tra loro, e del loro parere avvisano il senato. Talvolta nel consiglio trattasi di tutta l’isola. Usano i magistrati di non ragionare sopra cosa alcuna quel giorno, che essa viene proposta, ma la differiscono nel seguente : a fine che pensandovi sopra, deliberino quello che sia alla repubblica profittevole, e non si abbiano a pentire della loro risoluzione, come poco considerata.

DEGLI ARTEFICI
L’agricoltura è comune arte a maschi e femmine, e nessuno è di quella inesperto. Tutti dalla fanciullezza l’imparano; parte in scuola, ove se ne danno i precetti; parte nei campi alla città più vicini, ove sono condotti quasi a giuocare, acciocché non solamente vedano l’arte, ma piglino occasione di esercitare il corpo. Oltre l’agricoltura, a tutti, come dicemmo, comune, ciascuno impara un’arte, o di muratore, o di magnano, o di legnaiolo, o a lavorare di lana o di lino, perché non è appo loro altro artificio, nel quale si occupino molte persone. Le vesti sono di una forma, eccetto che variano quanto basta a discernere il sesso, ed i maritati dai non maritati. Questa usano per ogni età; ed è vaga da vedere, e comoda all’estate ed al verno.
Ogni famiglia fa le sue vesti, ed ognuno impara alcuna di quelle arti; non solo i maschi, ma le femmine ancora, le quali perché sono men robuste, si danno alla lana e al lino, lasciando ai maschi le arti faticose. La maggior parte impara l’arte del padre: tuttavia se alcuno ad altra arte s’inchina, egli impara l’arte della famiglia, nella quale viene adottato; il che si fa per opera del magistrato insieme col padre di quella. Se uno, imparata un’arte, brama d’impararne un’altra, parimente se gli concede: e poi esercita qual più gli aggrada, se la città non ha più bisogno di una che dell’altra. L’officio dei Sifogranti è specialmente di provvedere, che nessuno stia ozioso, ma eserciti con sollecitudine l’arte sua; non però dalla mattina per tempo sino alla sera, che è miseria estrema, e si usa in ogni paese, eccetto che appo gli Utopi. I quali di ventiquattr’ore tra il dì e la notte sei ne assegnano al lavoro; tre avanti desinare, dopo il quale riposano due ore, ed indi tre altre, appresso alle quali cenano. Annoverando la prima ora dopo il desinare, verso l’ottava vanno a dormire, e dormono otto ore. Il tempo, che avanza tra le opere e il desinare, ognuno lo dispensa a suo modo, pure in opere virtuose: e molti si occupano in lettere.
Si legge ogni dì innanzi giorno, e vi vanno specialmente coloro, che sono eletti allo studio. Ma vi concorrono assai altri maschi e femmine, come è il desio loro. Se alcuno, a cui non aggrada lo studio, vuole in questo tempo esercitarsi nell’arte sua, nessuno lo vieta; anzi viene lodato, come persona utile alla repubblica. Dopo cena stanno a diporto un’ora, la state nei giardini, e l’inverno nelle sale, ove mangiano. Ivi cantano ovvero ragionano. Non sanno giuochi di fortuna e perniciosi. Ma usano due giuochi, non dissimili a quello degli scacchi: uno è il contrasto dei danari, nel quale un numero vince l’altro numero: nell’altro le virtù combattono coi vizi.
In questo giuoco accortamente si può vedere la discordia tra essi vizi, e la loro concordia contra le virtù; quali vizi a quali virtù si oppongano; con quali forze combattano apertamente; con quali macchine da traverso resistono; con quali aiuti le virtù vincano le forze dei vizi; con quali arti ribattano ogni loro sforzo, e con quali modi una parte resti vittoriosa. Ma perché non pigliate quivi errore, bisogna considerarvi attentamente. Potreste pensare che essi lavorando solamente sei ore, patissero disagio delle cose necessarie, il che non avviene; anzi lavorando appena quel tempo, guadagnano quanto fa loro bisogno ad ogni comodo, ed anche di più: e questo potrete comprendere, considerando quante persone appo le altre nazioni stiano oziose. Primieramente quasi tutte le femmine, che sono la metà del popolo: ed ove le femmine si affaticano, ivi gli uomini si danno al riposo. Quanta turba di preti e religiosi? I ricchi e nobili con le copiose famiglie dei servi, spadaccini e parassiti.
Aggiungi i furfanti che si fingono infermi, per dappocaggine, e troverai che piccolo numero apparecchia quello, che da tutti gli uomini si consuma. Considera in questi quante arti non necessarie si fanno per servire alla vita lussuriosa, dalle quali si piglia gran guadagno. Se i pochi, che lavorano, fossero divisi nelle poche arti al vivere umano più comode, la vettovaglia sarebbe a sì vie prezzo, che gli uomini avanzerebbero assai oltre il lor vivere. Se consideri quei che esercitano arti inutili, e che stanno oziosi, vivendo delle altrui fatiche, comprenderai quanto poco tempo basterebbe per guadagnare quanto fosse opportuno non solo al vivere, ma eziandio alle voluttà con avvantaggio ancora, il che si vede manifestamente nell’Utopia. In tutta la capitale e nel contado non sono cinquecento tra uomini e donne, che stiano in ozio, e siano gagliardi. I Sifogranti istessi, benché siano per leleggi dal lavoro esenti, tuttavia affaticano, per invitare col loro esempio gli altri a far lo stesso.
Sono pure esenti coloro, i quali commendati dai sacerdoti al popolo, vengono per segreta ballottazione dei Sifogranti applicati agli studi. Quelli che in essi non riescono, sono rimandati ad imparare alcun’arte; ma avvien sovente all’incontro, che qualche meccanico, a quelle ore che non lavora, fa tanto profitto in lettere, che viene levato dall’arte e posto nell’ordine dei letterati. Di quest’ordine dei letterati si eleggono i sacerdoti, i Tranibori ed anco il principe, nomato anticamente Barzane, ed ora Ademo. L’altra moltitudine, non oziosa, né occupata in esercizi inutili, fa in poche ore grandi opere; tanto più ch’essa ha d’uopo in molte arti necessarie di minor fatica che le altre genti. Perché altrove il figliuolo, non curando di mantenere quello che ha fabbricato suo padre, lascia venire gli edifici a tale, che il suo erede è astretto a rifare con gran spesa quello, che si poteva prima con poco ristorare. E alcuni sontuosi, non contentandosi della casa fabbricata da un altro, ne edificano una nuova, e lasciano andare quella in rovina.
Ma nella repubblica Utopiense, così bene ordinata, di raro si edifica di nuovo, anzi si prevede ad ogni mancamento, che possa avvenir nelle case, prima che avvenga. Così durano lungamente gli edifici con poca fatica; per cui non hanno i muratori molte volte che fare, se non squadrano legnami e lavorano le pietre, per aver la materia ad ordine di fabbricare quando fa mestieri. Vedi quanto poca fatica usano nell’apprestarsi il vestire. Quando sono al lavoro, usano vesti di cuoio o di pelle, e queste durano anni sette; quando vanno in pubblico, si mettono sopravvesti, che coprono quelle sì rozze, e le usano tutte di un colore nativo nell’isola. Così i panni di lana meno costano appo loro, che presso le altre nazioni. Il lino poi, che meno vale, è più in uso; e si considera in esso solamente la candidezza, come nella lana la mondizia; né si apprezza più il filo, perché sia più sottile. Così ognuno si contenta di una veste quasi per due anni, quandoché altrove non hanno abbastanza gli uomini di quattro, di cinque, e neanche di dieci di seta e di lana.
Ma gli Utopiensi, avendo abito che li difende dal freddo, non sono astretti desiderarne più; quando che ivi nessuno è dell’altro più ornato. Pertanto esercitandosi in vili arti, avviene che in poche ore guadagnano assai; e quanto avanza loro dal vivere dispensano a ristorare le opere pubbliche. E q...

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