15. Maggio 1966 â Treviso
Non aveva alcuna fretta dâarrivare al negozio. Del resto, come al solito, Giovanna era in anticipo. Sâappoggiò al muro della chiesa e chiuse gli occhi, lasciando che il sole della bella mattinata di maggio le accarezzasse il viso. Voleva godersi fino allâultimo istante il tepore di quella prima giornata veramente primaverile. Fino al giorno avanti infatti era stato tutto un susseguirsi di temporali e di repentini cambiamenti del tempo, che non avevano fatto di certo avvertire lâavanzare della stagione. Ma adesso pareva che le cose avessero preso una piega ben diversa.
âCiao, Giovanna. Oggi non vai al lavoro? Hai deciso di prendere la tintarella?â. La voce a lei cara di Corrado a un tratto la distolse dal suo momento magico. BenchĂŠ il ragazzo le piacesse un mondo, in quel momento lâavrebbe strozzato.
âSono in anticipo, perciò me la sto prendendo comoda. Hai qualcosa in contrario?â gli rispose la giovane piuttosto seccata, tornando a chiudere gli occhi.
âNon te la prendere, dai. Però se continui a camminare a occhi chiusi va a finire che ti ritrovi allâospedale. Vieni piuttosto, che ti offro un caffèâ.
Giovanna accettò di buon grado. Sapeva bene che a Treviso non era come al suo paese. Ad Agordo se una ragazza si fosse fatta vedere al bar di primo mattino avrebbe dato il via a un sacco di chiacchiere. In cittĂ invece era diverso, nessuno a certe cose ci faceva caso. E poi a lei quello che si diceva sul suo conto non le importava un fico secco. Lâaveva sempre pensata cosĂŹ, fin da quando era una ragazzina e aveva iniziato a uscire con le amiche. Sua madre del resto le aveva insegnato a rendere conto di sĂŠ soltanto a sĂŠ stessa, e cosĂŹ sâera sempre comportata.
Erano numerosi gli avventori, per lo piĂš gente che faceva colazione prima di recarsi al lavoro. Era una consuetudine quella che da qualche tempo a questa parte in cittĂ stava prendendo piede, non come faceva lei, che ancora si preparava la colazione a casa con una tazzona di caffelatte e pane, come le aveva insegnato sua madre. Anche da quel punto di vista le differenze con Agordo erano evidenti. Al suo paese a quellâora nel locale ci sarebbero stati i soliti avventori, quelli abituali, coloro che non avevano niente da fare e che tra un calicino di bianco e lâaltro sâindustriavano a far venire mezzogiorno.
Il barista salutò con cordialità i due giovani, continuando ad armeggiare attorno alla macchina sbuffante del caffè espresso, senza troppo distrarsi dal lavoro.
âDue macchiati, Antonio, per favoreâ ordinò Corrado, mentre prendeva il giornale per sfogliare rapidamente le ultime novitĂ della cronaca locale.
âHai letto? Domenica ci sarĂ la Festa del patrono a San Crispino. Vuoi venire con me e mia sorella? Potremmo restare fuori a mangiare. Cosa ne dici?â.
âCi debbo pensare. Lâidea non mi dispiace affatto, comunque te lo farò sapereâ.
âVa bene, appena hai deciso fammi uno squillo, cosĂŹ mi posso regolareâ.
Bevuto il caffè, i due giovani salutarono e uscirono. Adesso per entrambi era venuto il momento di recarsi al lavoro, lei nellâelegante negozio di tessuti dove faceva la commessa, e lui nello studio del geometra Parisi, due piani piĂš sopra dello stesso palazzo, dove il giovane diplomato svolgeva il tirocinio.
La piccola borgata pareva straripare di gente. La festa di San Crispino del resto era molto frequentata, sia da giovani che da quelli dâuna certa etĂ . In quellâoccasione ci si dava convegno nel piccolo paese, a pochi chilometri dalla cittĂ , in primo luogo per partecipare alla funzione religiosa che immancabilmente si concludeva con la processione al Santuario, posto subito fuori dellâabitato, su di unâaltura. E poi per fare una scorpacciata di ottima salsiccia. Per la festa del Santo infatti era tradizione che le donne del luogo cucinassero polenta e luganega per tutti gli intervenuti. I grandi paioli fumanti li si potevano incontrare a ogni angolo di strada, ed era lĂŹ, attorno a banchetti improvvisati, che, al termine della processione, si dava appuntamento la gente venuta da fuori, dalla cittĂ e dai paesi dei dintorni, per gustare quella che era considerata una specialitĂ locale.
Giovanna e Corrado avevano partecipato alla processione, e ora, in fila con gli altri, erano in attesa che venisse il loro turno per essere serviti. Silvana, la sorella di Corrado, con la quale erano venuti stipati nella vecchia âTopolinoâ del giovane, li aveva lasciati quasi subito per aggregarsi ad alcune amiche incontrate sul posto. Con quelle sarebbe ritornata, loro facessero pure senza preoccuparsi per lei. LĂŹ per lĂŹ Giovanna non aveva potuto fare a meno di pensare che quel diversivo fosse stato programmato, per fare in modo che loro due restassero da soli. Comunque fossero andate le cose, quellâimprevisto non le era dispiaciuto affatto. Perciò sâera guardata bene dal sollevare obiezioni.
Mangiarono polenta e luganeghe, bevvero alcuni bicchieri di merlot, poi i due giovani sâavviarono per una breve passeggiata fuori del paese, ripercorrendo lo stradello in salita, adesso quasi del tutto deserto, che portava al Santuario, lo stesso che in processione avevano percorso al mattino.
Arrivati sul sagrato, Giovanna andò a sedersi sul muretto, sotto il quale sâapriva lâampia vallata. Corrado la raggiunse e le si sedette accanto. Non câera anima viva nei dintorni. Si sentiva il suono di unâorchestrina venire di lontano.
âSenti? Sono arrivati i suonatori, Adesso si balla fino a notte avanzata. Vuoi che scendiamo?â propose Corrado.
âPerchĂŠ? Si sta cosĂŹ bene quassĂš, Senti che pace. Non câè nessuna frettaâ.
Il giovane le sâavvicinò e le prese una mano fra le sue. Lei non si tirò indietro. CosĂŹ quando lui si sporse per baciarla, lei lo lasciò fare. In fondo era quello che aspettava.
16. Aprile 1968 â Treviso
Pareva proprio che il bambino non volesse venire. Non câera verso che Giovanna restasse incinta. Sâerano sposati, lei e Corrado, il novembre successivo la famosa festa di San Crispino, quella che per loro aveva rappresentato lâoccasione galeotta della vita, eppure, dopo piĂš di un anno dal matrimonio, ancora non era successo niente.
Ogni mese era una sofferenza. Per giorni la tensione in casa la si poteva palpare, nellâattesa che succedesse qualche cosa. Ma poi subentrava lo sconforto. Ogni mese era la stessa storia, una vera sofferenza. FinchĂŠ Corrado, stanco di quel clima impossibile, e soprattutto non piĂš disposto a tollerare lâansia della moglie e i sensi di colpa inesistenti che andava creandosi, non sâarrabbiò di brutto.
âAdesso basta! Adesso per favore la pianti! Non possiamo vivere in questâinferno, nellâattesa di qualcosa che non vuole venire. Se resterai incinta tanto meglio, altrimenti pazienza. Ci siamo capiti?â.
Il tono con cui Corrado sâera rivolto alla moglie quella sera non ammetteva repliche. Giovanna dovette riconoscere che il marito aveva ragione, e da quel momento in poi il clima in casa si fece piĂš respirabile. Anche la suocera fece chiaramente intendere dâessere dâaccordo col ragazzo. Aveva fatto bene a prendere di petto la questione.
Dopo la tragica scomparsa di Toni, una volta superata la fase delle indagini che inevitabilmente le avevano sconvolto lâesistenza, senza peraltro portare da nessuna parte, Margherita sâera imposta di non mollare. Ce lâaveva messa tutta per far fronte alla situazione in cui sâera trovata, in particolare per tenere in piedi la baracca. In effetti era riuscita nellâintento: in fabbrica ogni cosa procedeva come prima, la Cordevole Corami pareva non aver risentito piĂš di tanto della scomparsa del suo titolare.
Anche le banche, che in un primo momento sâerano fatte guardinghe, giĂ pronte a richiedere il rientro dei prestiti a suo tempo fatti, in breve avevano dovuto riconoscere che la donna ci sapeva fare, e che stava sostituendo egregiamente il marito scomparso. Margherita, benchĂŠ sola, mostrava di cavarsela benissimo, e lâazienda ben presto aveva ripreso a prosperare.
Quando Giovanna aveva deciso dâuscire di casa e andarsene ad abitare in cittĂ , Margherita ne aveva sofferto non poco. Per lei era stato un boccone amaro da mandare giĂš. Dâaccordo, le restava Matteo da crescere, il che non era poco, considerate le intemperanze che il ragazzo mostrava, con la sua mania di fare politica. Come il padre, diceva lui.
Ma Giovanna, il frutto del suo primo amore, la figlia prediletta, se ne andava a vivere lontano, e questo fatto aveva creato in Margherita un grande vuoto dentro. Se ne andava lontano, la sua Giovanna, come a suo tempo aveva fatto lei. Questo del resto era un pensiero ricorrente, che veniva ad attenuare, almeno in parte, il magone che si portava dentro.
Ma nel caso suo quella decisione era stata costretta a prenderla, date le circostanze. Erano tempi quelli in cui una ragazza madre in un ambiente piccolo come Alleghe, il suo paese fra i monti, non aveva scampo. Per Giovanna invece il discorso era diverso: nel suo caso nessuno si sarebbe mai sognato dâallontanarla da casa. Era stata una scelta che la ragazza aveva fatto di propria volontĂ , senza essere in alcun modo costretta da qualcuno, o da qualcosa.
Per fortuna Treviso, la cittĂ scelta da Giovanna dove andare ad abitare, non era in capo al mondo. In unâoretta ci sâarrivava comodamente. Adesso poi, da quando Margherita aveva cambiato auto, acquistando una comoda Giulietta che le consentiva di spostarsi da una localitĂ allâaltra con rapiditĂ , come del resto il suo lavoro richiedeva, una scusa per fare una capatina a casa della figlia la trovava assai spesso.
Se ne guardava bene comunque dallâessere invadente. I due giovani sposi dovevano essere lasciati in pace, ad affrontare da soli i loro problemi. Sapeva bene come Giovanna soffrisse per il fatto che il figlio tanto desiderato si faceva aspettare. Sua figlia ne aveva fatto quasi una malattia, ragione per cui voleva starle accanto il piĂš possibile, nonostante la distanza che le separava.
E bene aveva fatto suo genero a fare quella specie di scenata, lâunica del resto da quando erano sposati, che pareva avere dato qualche frutto. Giovanna mostrava dâaver capito che avanti di quel passo avrebbe finito col mettere in crisi il suo rapporto con Corrado.
âSĂŹ, hai ragione. Bisogna che mi dia una calmata. Però se entro lâanno non succede niente, andremo entrambi a farci vedere da qualche specialista. Sei dâaccordo?â. Corrado aveva acconsentito.
Niente lezioni, quella mattina! Il Collettivo si doveva riunire per discutere di cose importanti. Matteo sâaggirava per i corridoi affollati della scuola âokkupataâ, sbracciandosi e urlando nel megafono per stimolare i compagni a partecipare numerosi. Ma con quelle teste di cavolo câera ben poco da sperare! Erano stati tutti contenti quando loro avevano proclamato un giorno di lotta, perchĂŠ cosĂŹ voleva dire saltare le lezioni. Ma quanto a partecipazione, erano ben pochi coloro che mostravano un qualche interesse. Accanto a lui Diego e Sandro si davano da fare per distribuire i volantini ciclostilati nella notte, ma erano sempre troppo pochi quelli che lo leggevano con un qualche interesse.
Alle nove e mezzo finalmente si potĂŠ dare il via allâassemblea. Nella vasta aula di disegno delle scuole superiori di Agordo saranno stati non piĂš dâuna cinquantina, i ragazzi presenti, per la maggior parte quelli delle prime classi che avevano aderito piĂš per curiositĂ che per altro.
Matteo prese la parola per primo, per illustrare i punti allâordine del giorno e per presentare il compagno Carlo, quello venuto appositamente da Padova âper sensibilizzare la provinciaâ, come ebbe a esordire, venendo subito sonoramente fischiato dagli astanti. Una frase cosĂŹ infelice se la poteva anche risparmiare, pensò fra sĂŠ Matteo, mentre cercava di ristabilire lâordine.
Si sarebbe dovuto parlare del programma scolastico, della mensa, e naturalmente del âsei politicoâ da estorcere ai professori per tutti gli studenti. Ma giĂ dopo neppure una mezzâora lâassemblea aveva perduto ogni parvenza di democratico confronto, trasformandosi in una specie di rissa collettiva, al momento per lo meno soltanto verbale.
Quelli di terza erano andati giĂš pesante, accusando loro del Collettivo di fare il gioco di qualche oscura forza reazionaria. A Sandro erano saltati i nervi. Invece di rispondere per le rime, era passato subito agli insulti. Poi sâera abbottonato lâeskimo e se nâera andato, lasciando i compagni a cavarsela da soli.
Fatto sta che dopo un paio dâore erano ancora lĂ a insultarsi a vicenda e a sbraitare, senza che per nessuno degli argomenti allâordine del giorno si fosse arrivati a una qualche conclusione. Lâassemblea in breve sâera come sgonfiata da sola, giacchĂŠ poco per volta ciascuno sâera preso su e se nâera andato per i fatti suoi, tanto che alla fine Matteo e i suoi compagni sâerano ritrovati soli nella grande aula per il resto vuota.
Seduti sulle scale ora deserte, fra mucchi di cartacce e cicche di sigarette gettate a terra, Matteo e i suoi compagni si sentivano frustrati, mentre senza convinzione mangiucchiavano qualche spicchio dâuna pizza fredda e dura. Lâatmosfera che li circondava era desolante. Lâ okkupazione, che avrebbe dovuto essere il segno tangibile del loro impegno politico, il fiore allâocchiello della loro attivitĂ rivoluzionaria, in realtĂ sâera conclusa in un penoso fallimento. Nessuno, o quasi, li aveva seguiti. Bisognava prendere atto che ad Agordo il movimento era inconsistente.
Matteo, che i compagni consideravano il loro capo, si sentiva direttamente responsabile di quanto era accaduto. La ferita gli bruciava, anche perchĂŠ la gestione fallimentare dellâintera operazione sâera svolta sotto gli occhi di Carlo, lâuomo mandato appositamente dai collettivi di Padova per rendersi conto di quale fosse la situazione in provincia.
Quando lâassemblea sâera conclusa, o per meglio dire quando sâera miseramente sgonfiata perchĂŠ tutti se nâerano andati per i fatti loro, Carlo non aveva fatto commenti. Ma prima dâandarsene, sâera rivolto a Matteo e con un tono freddo della voce gli aveva dato un consiglio, che in un certo senso aveva lâaria di un ordine.
âSarĂ bene, compagno, che quanto prima tu venga per qualche giorno in cittĂ . Hai bisogno di stare un poâ con noi, per farti le ossa. Lâindirizzo lo conosci. Quando avrai deciso, mettiti in contatto con chi sai tuâ. Poi, senza altre parole se nâera andato per fare ritorno in cittĂ .
E per andare a riferire a chi di dovere della loro inconsistenza rivoluzionaria. Era questo il motivo per cui ancora adesso Matteo si sentiva il fuoco dentro, che non la smetteva di bruciare.
Fosse stato per la salutare sgridata di Corrado, o perchÊ le cose cosÏ dovevano andare, fatto sÏ è che di lÏ a un paio di mesi Giovanna si ritrovò incinta. Quando quella sera riferÏ la tanto sospirata notizia al marito, entrambi si misero a piangere come due fontane. Soltanto adesso la loro vita di giovani sposi pareva prendere la direzione giusta. Giovanna finalmente si sentiva realizzata.
17. Aprile 68 â Buffalo (New York)
Davanti la vecchia chiesa cattolica di SantâAntonio fin dalle prime ore del mattino era andato formandosi un assembramento di persone, che poco per volta sâera trasformato in una vera e propria folla la quale ben presto aveva iniziato a manifestare il proprio dissenso. Naturalmente era con la guerra del Vietnam che la gente ce lâaveva, o per meglio dire con il presidente Johnson e con il suo staff di guerrafondai che parevano ostinarsi a commettere un errore dopo lâaltro.
Adesso però sembrava che le cose avessero preso una piega ben diversa. Il Presidente finalmente sâera deciso a dare il benservito a quel buono a nulla del generale Westmoreland, che in tanti anni di guerra non aveva saputo fare altro che buscarle di santa ragione, nonostante la disponibilitĂ sempre crescente di uomini e di mezzi che il Paese gli aveva fornito. Ma quel che piĂš contava, era che da qualche tempo a questa parte finalmente sâera iniziato a parlare di pace.
Pareva proprio che questa fosse la volta buona. Lo stesso Presidente aveva riconosciuto le sue non poche responsabilitĂ , e in una recente comparsa televisiva aveva dichiarato di non volersi ricandidare alle prossime elezioni di novembre.
Questo era il momento per la gente benpensante di far sentire la propria voce, alta e chiara come non mai. Bisognava farla finita una volta per tutte con quellâassurda avventura militare che non faceva altro che inviare giovani americani a farsi accoppare lontano da casa, per andare a ficcare il naso negli affari di un popolo che giĂ aveva fatto le sue scelte.
Da anni manifestazioni come quella si ripetevano con puntualitĂ in tutti gli States, prendendo corpo allâimprovviso, spesso senza che dietro si potesse scorgere una qualche mente organizzatrice. Negli ultimi tempi sâerano fatte assai frequenti, come se la gente avesse capito che ormai era venuto il momento di farsi sentire, di dire sul serio.
La folla che quella mattina tacitamente sâera data appuntamento davanti alla Cattedrale era costituita per lo piĂš di giovani, studenti delle superiori per la maggior parte, ma anche operai dei cantieri navali e impiegati. Ben presto avevano costituito una specie di lungo corteo e sâerano incamminati verso il palazzo della Contea.
Freddy Costanza naturalmente era fra i primi, come al solito del resto, alla testa del gruppo degli studenti. I suoi compagni ormai lo consideravano un leader. Nonostante la giovane etĂ , giĂ da alcuni anni era fra i primi quando câera da manifestare il proprio dissenso. Contro la guerra del Vietnam in primo luogo, comâera naturale, ma anche contro qualsiasi altra cosa.
Il dissenso per il giovane era una regola di vita, un modo di essere. Soltanto con lo zio John pareva trovare una via dâaccordo. Con tutti gli altri, in particolare con sua madre Mary Belle, qualsiasi cosa dicessero era un motivo per avviare uno scontro. Un ragazzo difficile insomma, da non sapere come prendere.
Lâunica era la dolce Jenny, che riusciva a parlargli e a farsi ascoltare. Jenny era una biondina dallâaria trasognata, che andava in giro con lunghe vesti a fiori che arrivavano a lambirle i piedi, spesso scalzi, e con un cappello di paglia a larghe tese come un contadino del Kentucky, che fumava erba quasi fosse una cura contro la tosse, una specie di ricostituente. Quella mattina i due giovani marciavano lâuno accanto allâaltra, lanciando slogan collaudati e tenendosi per mano.
Davanti al palazzo della Contea trovarono ad attenderli un nutrito stuolo di poliziotti, in pieno assetto antisom...