Archimede
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Il primo scienziato

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Il primo scienziato

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Ad Archimede (287-212 a.C.), matematico e fisico di origine greca, sono dovute le più varie scoperte: dalla misura del diametro apparente del sole all'invenzione degli specchi ustori, dalle teorie sul cerchio a quelle sulla leva, ecc. Celeberrimo è il principio di Archimede: «Un corpo immerso in un fluido subisce una spinta dal basso verso l'alto pari al peso del volume di fluido spostato». In questa edizione il testo, pur prudentemente revisionato, è stato rispettosamente lasciato nella stesura originale.

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Information

DISCORSO INTORNO AD ARCHIMEDE

DELL’ABATE DOMENICO SCINÀ

La fama di Archimede suona così chiara presso di tutti, che scriverne l’elogio si potrebbe forse reputare un’opera inutile e superflua. I matematici d’ogni età pieni di venerazione han ricordato il nome di lui, e lui hanno mostrato come uno di que’ pochi, che vaghi del sapere e speculando nelle scienze sono là giunti dove può umano intelletto. Se da geometri ci rivolgiamo agli storici, e in generale a tutti gli eruditi, troviamo, che alla venerazione di quelli si è aggiunta l’ammirazione di questi. Hanno essi tra le invenzioni di Archimede quelle riferito, che colpiscono i sensi, quali son le meccaniche, e queste lodando e talvolta esagerando gli han decretato il primo posto d’onore tra gli scienziati. La voce pubblica in fine magnificando, come suole, il giudizio de’ sapienti si è sparsa per tutta la terra, ed Archimede va ognora gridando qual genio soprumano e divino. Chi potrà dopo ciò lui inalzar colle lodi, se il solo suo nome risveglia la pubblica venerazione e tien luogo di qualsivoglia elogio? Ogni lode sarebbe inferiore alla sua fama, e invece d’accrescere sminuir ne potrebbe la gloria.
La Sicilia ciò non ostante non può in silenzio restare sui pregi e sulle virtù di un grand’uomo, che sarà, siccome è stato, il suo ornamento ed onore finché saranno le scienze tra gli uomini. Soleva ella ne’ dì felici medaglie coniare e pubblici giuochi istituire per onorar la memoria de’ suoi, che colle loro invenzioni e nelle scienze e nelle arti a fama eterna l’alzarono. Cadde poi dalla sua grandezza cadendo sotto i Romani, e tra le altre afflizioni ebbe allora a soffrire, che fosse venuto uno straniero a svellere i bronchi e le spine, che il sepolcro ingombravano del nostro Archimede 1 . Ma se la Sicilia non è oggi quale era una volta ne’ bei giorni del suo splendore, non trovasi certo in quel miserabile stato, in cui preda de’ Proconsoli e de’ Questori oppressa giaceva dalla potenza di Roma. Conosce ella al presente quanto lustro le rechi il nome di Archimede, e non sa né può tollerare, che co’ debiti onori celebrata non sia di quando in quando la memoria di lui.
Niuno adunque, che giusto estimator sia delle cose, potrà come inutile o inavveduto riputare un discorso, che in segno di riverenza e di omaggio ricorderà Archimede , e le sue famose scoperte. Mostrerà tal discorso più la nostra gratitudine che la sua grandezza, richiamerà alla mente più la nostra che la sua gloria, tornerà in somma più a nostro vantaggio che ad onore di lui; poiché alla vista di sì nobil modello è da sperare, che resteranno i nostri sospinti vie più allo studio delle cose geometriche, studio che può innalzar la Sicilia ad un rango d’onore tra le colte e polite nazioni.
Siracusa città ricca e potente, sia che fosse stata libera o pure oppressa da’ tiranni, di studi e d’ingegni fu sempre fioritissima. Avendo essa accolto la dottrina prima di Pitagora e poi di Platone accolse del pari le pure matematiche, che da quelle due scuole ebbero in Grecia accrescimento e splendore. La corte in fatti de’ suoi tiranni si vide più d’una volta piena di geometri, che figure sulla polve tracciavano, e verità dimostravano di geometria 2. E se le matematiche, vinta la Grecia, irono poi a stabilirsi in Egitto seguendo le insegne del vincitore e quasi tornando al loro suolo natìo; Siracusa, che aveva emulato la Grecia negli ottimi studi, non lasciò di concorrere nella coltura delle severe scienze colla città de’ Tolomei: produsse il grande Archimede, che doveva la palma rapire negli onori matematici alla stessa Alessandria.
Nacque egli nell’anno secondo della olimpiade 123 3; e, poiché i sommi uomini giungono a dar lustro al diadema ancora de’ Re, non è da tacere, che, al dir di Plutarco, in parentela era stretto col secondo Gerone 4. Erano, egli è vero, al nascer d’ Archimede turbate le cose pubbliche in Siracusa; ma queste furon presto ordinate da Gerone, che richiamò nel suo regno, e finché visse ritenne la pace, l’opulenza, e la felicità. Però Archimede crescendo di età trovò nella patria pronti gli avviamenti alle scienze, che sempre più prosperavano per lo continuo commercio, che Siracusa faceva così colla Grecia che coll’Egitto.
Lo studio allora in onore, e cui si volgevano sopra ogni altro gl’ingegni, era tutto innocente, e quello dell’esatte discipline, che avevano e stanza e scuola nella città di Alessandria. Tutti correvano a questo ginnasio, in cui Euclide aveva insegnato la geometria, e i Tolomei avevano onorato, e onoravano le scienze e gli scienziati. Archimede adunque disposto come era a tale sorta di studi fu sollecito di occuparsene, obbedendo in parte alla sua naturale inclinazione, e alla moda in parte de’ tempi, che suole ancor essa esercitare il suo impero sui nostri gusti e sulle nostre occupazioni.
Ignorasi, se Archimede ammaestrato prima in Siracusa abbia poi fornito i suoi studi in Alessandria; ma egli è certo, che lesse i geometri, che erano stati prima di lui, e ne ammirò il metodo e la sodezza. I greci geometri guidati da pochi e semplici principi camminavano sempre sotto un cielo privo affatto di nubi, a passi tanto più sodi quanto più stretti, parlando senza equivoci, e ragionando senza cavilli. Vide ei questo metodo e l’abbellì conservando alla greca geometria i naturali suoi pregi, e d’altre bellezze adornandola, che ancora fioriscono, né per giro di secoli o novità di scoperte appassiranno giammai.
Continuo nel meditare singolar diletto prendeva il nostro geometra non che delle pure, ma delle miste discipline, che molta utilità promettono alla vita civile. Ebbe degli amici, tra’ quali quelli, che più da noi si conoscono, furon geometri. Pianse egli di fatto la perdita di Conone, e, morto questo, a Dositeo scriveva e svelava il primo a costui le sue ingegnose scoperte. Amò egli la gloria, come fanno le nobili anime, e questa riponeva nel sostenere il travaglio di nuove e più difficili speculazioni. Né fu di quei sapienti, che fuggono il consorzio de’ grandi alcuna volta per semplicità e rozzezza, spesso per ostentazione ed orgoglio: si avvicinava egli a Gerone, e intratteneva questo principe, si dica ad onor d’ambedue, della costruzione di nuove macchine o dell’inventiva di ardui problemi di meccanica. Non sdegnò l’amicizia di Gelone giovine allora ed erede del trono, cui dichiarava i suoi novelli pensieri sopra l’aritmetica 5. Visse in somma caro a tutti, presso tutti in onore, sempre speculando e sempre inventando a pro delle scienze, in favor della patria, ad utile della società.
Queste e così poche son le notizie a noi pervenute della vita di Archimede; e ben ci dovremmo dolere di essersi perduto ciò, che Eraclide scrisse di lui, se non ci fosse gran parte restata delle sue opere. In queste la storia si trova della sua vita, perché quella si legge de’ suoi pensamenti, e scritte si osservano le sue illustri azioni, perché notate si ammirano le sue belle scoperte. In questi libri l’andamento si scopre del suo spirito per stabilire la sublime geometria, i suoi sforzi generosi si scorgono per vincere le difficoltà, che di passo in passo incontrava, chiara si vede l’immagine della sua mente, tutto in somma si conosce Archimede. Per lo che studiati i suoi libri, non recherà più meraviglia, se egli superiore agli altri geometri per la forza del pensiero, per l’acume dell’inventare, e per la grandezza dell’immaginazione abbia ciascun di loro oltrepassato così per la copia e varietà, come per l’importanza e utilità delle invenzioni.
I primi geometri soprapponendo colla mente una figura ad un’altra dimostrarono l’eguaglianza delle figure rettilinee, e la greca fondarono allora nascente geometria; ma non potendo soprapporre una retta ad una curva non poterono misurare le grandezze curvilinee, o sia non seppero né poterono quadrare. La difficoltà arrestò i loro passi, ma non vinse i loro ingegni, e facendo altri nuovi tentativi il metodo dell’iscrizione inventarono.
Iscrivendo in una curva da prima un quadrato, e poi di mano in mano triangoli, giunsero ad un poligono, la cui superficie, se non era eguale a quella della curva, da questa almeno si differiva pochissimo. Questo metodo fu espresso da Euclide sotto una forma generale 6, e poteva certamente guidare i geometri verso la meta da lor sospirata. Altro non era da farsi, che spingere più e più, ed anche più oltre, l’iscrizione, affinché la differenza tra la curva e ’l poligono iscritto si fosse in modo tale estremata, che come nulla si avesse potuto reputare. Il contorno del poligono si sarebbe allora confuso colla curva, e la superficie di questa a quella del primo sarebbe venuta certamente eguale. Ma come la geometria era in quei tempi molto rigida e severa; così i geometri mancavano d’ardimento. Niuno avrebbe osato affermare due quantità, la cui differenza era minima, insensibile, e pressoché nulla, potersi tenere per eguali; poiché una differenza, quanto che piccola, fra due quantità, era allora riputata sempre finita, e come tale di qualche valore. La geometria ritenne, egli è vero, in sì fatto modo la sua evidenza, ma fu impedita di più oltre avanzarsi dal suo rigore medesimo: la quadratura in fatti del cerchio fu sino ad Archimede, come era stata per lo innanzi, il tormento de’ più nobili ingegni, e lo scoglio de’ più valorosi geometri.
Altro vantaggio non si ritrasse allor dall’iscrivere, che quello di coglier la proporzione, in cui si tengono tra loro alcune curve o altri corpi rotondi: poiché usando i geometri dell’iscrizione giunsero a determinar la ragione, che hanno i circoli tra loro, o pur le sfere, e quella che prismi lega e piramidi, o pure coni e cilindri della medesima base ed altezza. Ma queste scoperte medesime, di cui prima fu lieta la geometria, le annunziarono ben presto la sua povertà, perché collo aiuto di queste furono i geometri quasi sopra un’altezza condotti, donde per la prima volta poterono scorgere i campi vastissimi delle grandezze curvilinee; si accesero quindi di nobil vaghezza, e alla misura di sì fatti spazi sollecitamente si volsero; ma incerti e timidi e ritenuti dal rigor matematico non sapevano più oltre procedere, quando Archimede franco di animo e pieno di senno si mise loro innanzi, e ne imprese la stentata ricerca.
Guardò egli da prima le fatiche di quelli, che erano stati innanzi a lui, e vide ad un tratto e di che i loro metodi mancavano, e sino a qual termine coll’aiuto di questi avrebbero essi potuto giungere, e non erano giunti giammai. Pieno quinci di valore ritrasse i geometri dalla quadratura del cerchio, cui si stavano intenti ed affollati, ed indicando loro un cammino men aspro li condusse a quadrar la parabola. In questa curva non iscrive il nostro geometra che soli triangoli; ma nell’iscrivere presto s’avvede il primo triangolo a’ secondi, questi a quelli che seguono, e gli altri appresso essere tutti legati sì stretto, che nella medesima ragione decrescano formando una progression geometrica. Non prima egli, che aveva gran polso, di ciò s’accorse, che di tal progressione si mette a ricercare la somma; giacché, questa conosciuta, l’area si conosce della parabola, che da que’ triangoli si esprime, e tutta in quella progressione si racchiude e comprende. Ma ricerca era questa e nuova e difficile, in cui niun geometra poteva a lui porger conforto, perché niuno si era ancora avvenuto in tali serie, dalle quali, come è noto, il quadrar delle curve in gran parte dipende. Ciò non ostante scorre egli il primo que’ nuovi campi d’invenzione, e raunando poche e già note verità trae da queste, e pronto raccoglie la somma d’una progressione, che nella ragion geometrica decresce. Trova, che, quale si fosse il numero dei termini, sempre la sua somma risulta eguale ad una funzione costante del primo, che viene ad essere quattro terzi del triangolo iscritto, la cui base ed altezza è a quella eguale dello spazio parabolico: per lo che in questo triangolo il primo legge, e il primo agli altri manifesta l’esatta misura della superficie della parabola. Molti, par ch’egli dica a Dositeo, molti in tempi diversi han tentato di misurare or questa curva ed ora quell’altra, ma i loro sforzi, per quanto mi sappia, sono in vano tornati. Le lunule d’Ippocrate, di cui si mena gran vanto, non sono in realtà, che giuoco e trastullo di speculazion geometrica. Io vi presento uno spazio tra una retta racchiuso e la parabola, e questo vo sicuro misurando con principi non già dubbi, ma certi, non già miei, ma vostri; poiché iscrivendo han già mostrato i geometri i rapporti, con cui si attengono i circoli o le sfere tra loro, o pur la piramide al prisma, e il cono al cilindro, e iscrivendo sono io giunto a misurar la parabola 7. Così egli diceva, e i geometri della sua età videro per la prima volta misurato esattame...

Table of contents

  1. Copertina
  2. ARCHIMEDE
  3. Indice
  4. Intro
  5. DISCORSO INTORNO AD ARCHIMEDE
  6. Note
  7. Ringraziamenti