Raymond Radiguet
Il diavolo in corpo
Maree
KKIEN Publishing International
www.kkienpublishing.it
Prima edizione digitale: 2018
Edizione originale: Le diable au corps, 1921
Traduzione di Alessia Roquette
In copertina: Radiguet ritratto da Modigliani
ISBN 9788833260396
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Sarò biasimato, lo so. Ma che farci? E’ forse colpa mia se ho compiuto dodici anni pochi mesi prima della dichiarazione di guerra? Certo, i turbamenti che mi vennero da quello straordinario periodo furono di un tipo che mai si prova a quell’età; ma poiché non esiste cosa tanto forte da invecchiarci malgrado le apparenze, è da bambino che mi sarei comportato in un’avventura in cui anche un uomo si sarebbe sentito a disagio. Non sono l’unico. E i miei compagni serberanno dell’epoca un ricordo che non è quello dei loro maggiori. Chi me ne vuole fin d’ora si figuri ciò che la guerra fu per tanti ragazzi giovani: quattro anni di vacanza.
Abitavamo a F., sulla Marna.
I miei genitori condannavano alquanto la promiscuità. La sensualità, che nata con noi si manifesta ancora cieca, invece di perderci ci guadagnò.
Non sono mai stato un sognatore. Quel che agli altri, più creduli, sembra un sogno, a me sembrava reale quanto il formaggio al gatto, anche se sottovetro. Pure, la campana esiste.
Rotta la quale ne approfitta il gatto, anche se a romperla sono stati i padroni tagliuzzandosi le mani.
Fino ai dodici anni, non ricordo amoretti, tranne quello per una ragazzina che si chiamava Carmen, alla quale, da un moccioso delle elementari, feci recapitare una lettera in cui le dichiaravo il mio amore.
Forte di quell’amore, sollecitavo un appuntamento.
La lettera era stata consegnata la mattina prima che iniziassero le lezioni. Avevo scelto l’unica bimbetta che mi rassomigliasse, perché era pulita, e andava a scuola accompagnata da una sorellina, come me dal fratellino. Per chiudere la bocca a questi due testimoni, immaginai di sposarli in qualche modo. Alla mia lettera quindi, ne aggiunsi un’altra da parte di mio fratello, che non sapeva scrivere, per la signorina Fauvette. Spiegai a mio fratello la mediazione, e la fortuna d’esserci imbattuti proprio in due sorelle delle nostre rispettive età e dotate di nomi così eccezionali. Ebbi la tristezza di vedere che non mi ero ingannato sulle buone doti di Carmen, quando, dopo aver fatto colazione con i miei genitori che mi viziavano e non mi sgridavano mai, tornai in classe.
I compagni avevano appena preso posto nei banchi - e io, nella mia qualità di primo, accoccolato in fondo all’aula stavo prendendo in un armadio i libri per la lettura ad alta voce - quand’ecco che arriva il direttore. Gli alunni scattarono. Aveva una lettera in mano. Mi si piegarono le ginocchia, i volumi caddero, e li raccolsi, mentre il direttore s’intratteneva con l’insegnante. Già, quelli delle prime file si voltavano a guardarmi, laggiù, rosso scarlatto, perché udivano sussurrare il mio nome. Finalmente il direttore mi chiama e, per punirmi sottilmente, senza destare, così credeva, idee malevole negli altri alunni, si congratula con me che ho scritto una lettera di dodici righe senza un solo errore. Mi domanda s’è tutta farina del mio sacco, poi mi prega di seguirlo nel suo ufficio. Non ci andammo affatto. Mi redarguì in cortile, sotto il diluvio. Quel che turbò fortemente le mie nozioni di morale fu il fatto che considerasse della stessa identica gravità l’aver compromesso la ragazza (i cui genitori avevano riferito la mia dichiarazione) e l’aver sottratto un foglio di carta da lettere. Mi minacciò di spedire a casa quel foglio. Lo supplicai di non farlo. Acconsentì, ma disse che conservava la lettera e che, al primo accenno di recidiva, non avrebbe più potuto nascondere la mia cattiva condotta.
Questo miscuglio di sfacciataggine e timidezza fuorviava i miei genitori, ingannandoli, proprio come a scuola la mia facilità, autentica pigrizia, mi dava la aria di un buon alunno.
Tornai in classe. Il professore, ironico, mi chiamò dongiovanni. Ne fui estremamente lusingato, soprattutto in quanto citava il titolo di un’opera che io conoscevo e i miei compagni no. Il suo « Salve, Don Giovanni! » e il mio sorriso d’intesa trasformarono la classe nei miei riguardi. Forse, avevano già saputo che avevo incaricato uno dei piccoli di portare una lettera a una « ragazza », come dicono gli scolari nel loro duro linguaggio. Quel bambino si chiamava Messager; non lo avevo eletto per via del cognome, ma, comunque, quel nome mi aveva ispirato fiducia.
All’una, avevo supplicato il direttore di non dirlo a mio padre; alle quattro, bruciavo dalla voglia di raccontargli tutto. Non ne ero affatto obbligato. Avrei messo la confessione sul conto della sincerità. Sapendo che mio padre non si sarebbe arrabbiato, ero, in fin dei conti, felice e beato che venisse a conoscere la mia prodezza.
Confessai dunque, aggiungendo con orgoglio che il direttore mi aveva promesso discrezione assoluta (proprio come a un grande). Mio padre voleva sapere se per caso non avessi inventato di sana pianta quel romanzo d’amore. E andò dal direttore. Nel cono della visita, parlò incidentalmente di quella che riteneva una farsa. « Cosa? » disse il direttore sorpreso e molto seccato: « è venuto a raccontarglielo? Mi aveva scongiurato di tacere, dicendo che lei lo avrebbe ucciso ».
La menzogna del direttore lo scusava; contribuì ulteriormente alla mia ubriacatura d’uomo. Ci guadagnavo seduta stante la stima dei miei compagni e gli ammiccamenti del professore. Il direttore nascondeva il suo rancore. Il poveretto ignorava quello che già sapevo: mio padre, colpito dal suo comportamento, aveva deciso di lasciarmi finire l’anno scolastico, e poi ritirarmi. S’era allora all’inizio di giugno. Mia madre, non volendo che la cosa potesse influire sui premi e le medaglie d’onore, si riservava di dire il tutto dopo la distribuzione. Giunto che fu quel giorno, grazie a un’ingiustizia del direttore che temeva confusamente le conseguenze della sua bugia, unico della mia classe, ricevetti la medaglia d’oro che spettava di diritto al premio d’eccellenza. Pessimo calcolo: la scuola vi perse i due migliori allievi, il padre del primo premio infatti ritirò suo figlio. Allievi come noi facevano da specchietto per le allodole.
Mia madre mi trovava troppo giovane per andare all’Henri-IV. Il che, nella sua testa, significava: per prendere il treno. Rimasi quindi a casa due anni e studiai da solo.
Mi ripromettevo gioie sconfinate, poiché, riuscendo a fare in quattro ore tutto il lavoro che i miei ex condiscepoli non fornivano in due giorni, ero libero per la metà del giorno e più. Passeggiavo da solo sulle rive della Marna ch’era il nostro fiume al punto che le mie sorelle, parlando della Senna, dicevano « una Marna ». Andavo anche nella barca di mio padre, anche se me lo aveva proibito; ma non remavo, e senza confessarmi che la paura non era quella di disubbidirgli, ma paura e basta. Sdraiato in barca, leggevo. Fra il 1913 e il 1914, vi passarono duecento libri. E non quelli che chiamano libri cattivi, no di certo, ma anzi, i migliori, se non per lo spirito almeno per il merito. Così, molto più tardi, nel tempo in cui l’adolescenza disprezza i libri della Biblioteca rosa, io presi gusto al loro fascino infantile, mentre in quell’epoca non li avrei voluti leggere per tutto l’oro del mondo.
Lo svantaggio di tali ricreazioni alternate con lo studio era di trasformarmi tutto l’anno in una pseudo vacanza. Per cui, il mio studio giornaliero era ben poco, sì, ma poiché, studiando meno tempo degli altri, studiavo di più durante le loro vacanze, quel poco era per me il tappo di sughero che un gatto si porta legato alla coda per tutta la vita, quando invece preferirebbe senz’altro un mese di pentola.
Si avvicinavano le vere vacanze, ma ci badavo quasi niente dato che per me era sempre la stessa canzone. Il gatto continuava a fissare il formaggio sotto la campana. Ma venne la guerra. E ruppe il vetro. I padroni ebbero altre gatte da pelare e il loro gatto si rallegrò.
A dire il vero, in Francia si rallegravano tutti. I bambini, con i loro libri premio sottobraccio, si affollavano ai tabelloni. I cattivi alunni approfittavano dello smarrimento delle famiglie.
Andavamo ogni giorno, dopopranzo, alla stazione di J. distante due chilometri, per veder passare i treni militari. Ci portavamo dietro delle campanule e le lanciavamo ai soldati. Certe signore in camice versavano vino rosso nelle borracce rovesciandolo a litri sul marciapiede coperto di fiori. Tutto l’insieme m’ha lasciato un ricordo come di fuochi d’artificio. E mai tanto vino perduto, tanti fiori morti. Avevamo messo bandiere a tutte le finestre.
Ma presto smettemmo di andare a J. I miei fratelli e le mie sorelle cominciavano a non poter soffrire la guerra: la trovavano troppo lunga. Gli toglieva la spiaggia. Abituati ad alzarsi tardi, dovevano comprare i giornali alle sei. Misera distrazione! Ma il venti agosto, i giovani mostri riprendono a sperare. Invece di lasciare la tavola cui indugiano gli adulti, rimangono ad ascoltare mio padre che parla di partenza. Non ci saranno più mezzi di trasporto, è certo. Un lungo viaggio da fare in bicicletta. I fratelli prendono in giro la sorella piccola. Le ruote della sua bicicletta hanno un diametro di soli quaranta centimetri: « Ti lasceremo sola per strada ». Mia sorella scoppia in singhiozzi. Ma quanto entusiasmo per lustrare i veicoli! Niente più pigrizia. Propongono di riparare la mia. Si alzano all’alba per sapere le notizie. Mentre tutti si meravigliano, scopro finalmente il movente di tutto quel patriottismo: viaggiare in bicicletta! fino al mare! e un mare più lontano, più bello del solito. Avrebbero bruciato Parigi pur di partire prima. Quel che terrorizzava l’Europa era diventata la loro unica speranza.
È poi tanto diverso dal nostro, l’egoismo dei bambini? D’estate, in campagna, malediciamo la pioggia che cade, e i contadini la invocano.
È raro, l’avvento di un cataclisma senza segni premonitori. L’attentato austriaco e la tempesta del processo Caillaux spargevano un’atmosfera irrespirabile, propizia alla stravaganza. Così, il mio vero ricordo di guerra precede la guerra.
Eccolo.
Ci burlavamo, i miei fratelli e io, d’uno dei nostri vicini, un ometto grottesco, nano con barba bianca e cappuccio, un consigliere municipale, tale Maréchaud. Lo chiamavano tutti compare Maréchaud. Benché si abitasse porta a porta, ci proibivamo di salutarlo, cosa che l’imbilava al punto che un giorno, non potendone più, ci avvicinò per via dicendo: « Cos’è! non si saluta un consigliere municipale, adesso? ». Scappammo. Dopo la quale impertinenza, furono aperte le ostilità. Ma che poteva fare un consigliere municipale a dei ragazzi? Tornando da scuola, e andandoci, i miei fratelli tiravano il suo campanello, con tanto più ardire in quanto il cane, che doveva avere la mia età, non era certo temibile.
Il giorno prima del 14 luglio 1914, mentre andavo incontro ai miei fratelli, quale non fu la mia sorpresa nel vedere un assembramento davanti al cancello dei Maréchaud? Qualche tiglio spelacchiato mal nascondeva la villa in fondo al giardino. Dalle due del pomeriggio, la loro servetta, impazzita, sera...