La questione italiana e i repubblicani
eBook - ePub

La questione italiana e i repubblicani

  1. English
  2. ePUB (mobile friendly)
  3. Available on iOS & Android
eBook - ePub

La questione italiana e i repubblicani

About this book

Obiettivo della Giovine Italia era una repubblica unitaria "di liberi ed eguali", consapevoli di appartenere alla stessa nazione; mezzi per raggiungere questo fine, una educazione che predicasse l'insurrezione e un'insurrezione dalla quale risultasse un principio di educazione nazionale.
"La questione italiana e i repubblicani" costituisce il testo chiave della filosofia politica mazziniana e un autentico pilastro per comprendere il processo di costituzione dello stato unitario.

Frequently asked questions

Yes, you can cancel anytime from the Subscription tab in your account settings on the Perlego website. Your subscription will stay active until the end of your current billing period. Learn how to cancel your subscription.
No, books cannot be downloaded as external files, such as PDFs, for use outside of Perlego. However, you can download books within the Perlego app for offline reading on mobile or tablet. Learn more here.
Perlego offers two plans: Essential and Complete
  • Essential is ideal for learners and professionals who enjoy exploring a wide range of subjects. Access the Essential Library with 800,000+ trusted titles and best-sellers across business, personal growth, and the humanities. Includes unlimited reading time and Standard Read Aloud voice.
  • Complete: Perfect for advanced learners and researchers needing full, unrestricted access. Unlock 1.4M+ books across hundreds of subjects, including academic and specialized titles. The Complete Plan also includes advanced features like Premium Read Aloud and Research Assistant.
Both plans are available with monthly, semester, or annual billing cycles.
We are an online textbook subscription service, where you can get access to an entire online library for less than the price of a single book per month. With over 1 million books across 1000+ topics, we’ve got you covered! Learn more here.
Look out for the read-aloud symbol on your next book to see if you can listen to it. The read-aloud tool reads text aloud for you, highlighting the text as it is being read. You can pause it, speed it up and slow it down. Learn more here.
Yes! You can use the Perlego app on both iOS or Android devices to read anytime, anywhere — even offline. Perfect for commutes or when you’re on the go.
Please note we cannot support devices running on iOS 13 and Android 7 or earlier. Learn more about using the app.
Yes, you can access La questione italiana e i repubblicani by Giuseppe Mazzini in PDF and/or ePUB format, as well as other popular books in Política y relaciones internacionales & Historia del siglo XIX. We have over one million books available in our catalogue for you to explore.
I.
La questione italiana fu falsata in Italia e fuori da quando il conte Cavour la ridusse, davanti ai rappresentanti i governi stranieri, nei termini: O riforma o rivoluzione. Quanto d’allora in poi s’attraversò al libero, logico, razionale sviluppo del nostro moto, scese dalla formola malaugurata: quel tanto che sulla direzione dell’intento s’è conquistato, è dovuto ai buoni istinti del nostro popolo.
L’Italia non s’agita da mezzo secolo per ottenere riforme. Se una certa somma di miglioramenti amministrativi, giudiziari, civili, potesse acquetarlo, essa l’avrebbe già conquistata. L’Italia vuol essere. Essa tende a costituirsi in Nazione, Una e libera da ogni tirannide straniera o domestica, religiosa o politica. Riformerà poi sè stessa da sè, interrogando la propria tradizione, i propri bisogni, le proprie tendenze. La questione italiana è, prima d’ogni altra cosa, questione di Nazionalità. Ora la questione di Nazionalità non può sciogliersi se non rovesciando, da un lato, il papa e i re che la smembrano, lacerando, dall’altro, i trattati del 1815, disfacendo l’impero d’Austria e rimutando la Carta d’Europa.
La questione Italiana è dunque questione di Rivoluzione. E bisogna trattarla siccome tale.
Se la politica del conte Cavour fosse stata, non politica sarda, ma — comunque monarchica — veramente Italiana, egli avrebbe detto ai diplomatici stranieri: «Signori, non v’illudete; la rivoluzione Italiana è un fatto oggimai inevitabile. Sta in voi far sì ch’essa prorompa più o meno violenta, più o meno funesta a tutti i governi d’Europa. Ostinandovi a perpetuare per l’Italia un sistema del quale non è esempio in Europa — abbandonandola alla tirannide dell’intervento straniero — contendendole ogni espressione di vita propria. — voi la costringete ad allearsi con quanti malcontenti ha l’Europa, a cercare nel sommovimento universale una più spedita probabilità di salute. Noi, uomini d’ordine e di monarchia, non provocheremo la rivoluzione che antivediamo; ma siamo noi pure Italiani, e per l’amore che portiamo alla Patria, comune come per la necessità di salvare la monarchia, noi dovremo, quando s’inizii, secondarla e tentar di dirigerla. Voi potete tentar d’isolarla. Il filo elettrico che la lega all’Europa è l’intervento. Sopprimetelo. Fate che s’adempiano le solenni promesse di dieci anni addietro e cessi l’occupazione francese in Roma. Imponete all’Austria di non oltrepassare, checchè avvenga, nel rimanente d’Italia, i confini lombardo-veneti. Restituite l’Italia al Diritto delle Nazioni: lasciatela a fronte non d’una Europa collegata a’ suoi danni, ma soltanto de’ suoi padroni. E dove no, pesino su voi le conseguenze dell’antica ingiustizia. Non avrete pace mai dall’Italia. Avrete in essa un incitamento perenne all’insurrezione d’Europa e un perenne pretesto ai disegni ambiziosi di chi promettendole aiuto, vorrà farne campo di guerra ad una o ad altra potenza.»
Linguaggio siffatto avrebbe provveduto all’onore e alla salute d’Italia e ad un tempo agli interessi della monarchia piemontese. La monarchia avrebbe raccolto intorno a sè i voti e le speranze, non della poco energica turba dei creduli e della turba dannosa dei faccendieri, ma del popolo vero, volente, onnipotente, d’Italia. Gli uomini di pressochè tutti i partiti d’Europa avrebbero senz’altro appoggiato una dottrina di non-intervento che ha il doppio merito agli occhi loro di congiungere giustizia e poca probabilità di contese armate. I sospetti covati dai governi d’Inghilterra, di Prussia e Germania contro l’influenza usurpatrice di Luigi Napoleone, avrebbero accolto quel linguaggio e promosso una politica deliberatamente avversa ad ogni ingerenza bonapartista nelle cose nostre. Il piccolo Piemonte avrebbe potuto esser l’anima d’una coalizione più o meno caldamente sostenitrice del grido che già dirigeva le agitazioni popolari: l’Italia per gl’Italiani.
E allora, bastava al Piemonte, lasciato con una Italia fremente a fronte dell’Austria, far correre una voce alle popolazioni vogliose: aiutatevi, v’aiuterò: gli bastava ordinarsi quietamente, senza inutili minaccie, alla riscossa: e intanto, affratellandosi segretamente cogli uomini della Rivoluzione e riconcedendo alle più che modeste esigenze degli uomini liberi il programma, accettato, poi tradito con sua e nostra rovina da Carlo Alberto nel 1848, della Sovranità del paese, confondere in uno tutte le frazioni del Partito Nazionale, creare la fiducia, confortar gli animi al fare. Il paese avrebbe fatto. Il paese avrebbe colto alla sprovveduta e sperperato coll’insurrezione il nemico. Rifatto il 1848, non rimaneva al Piemonte che sottentrare, con migliori uomini e migliori disegni di guerra, all’iniziativa popolare e compirne i trionfi. L’Austria non era, prima delle minacce mosse da Parigi e Torino, più forte in Italia, che non fosse undici anni addietro, quando l’insurrezione distrusse in cinque giorni la potenza austriaca da Milano a Venezia. E non vive un sol uomo di guerra tra noi, il quale non abbia scritto o detto che la vittoria fu nel 1848 un mero problema di Direzione. L’ultima vittoria, in ogni guerra di Nazione, spetta all’elemento regolarmente ordinato; ma la prima — ed è quella che racchiude in germe tutte le vittorie future — spetta all’insurrezione, all’iniziativa del popolo. L’insurrezione assale il nemico non preparato, con modi e su punti non preveduti: ne smembra le forze e le separa dalla loro base d’operazione: infonde in essa quel terrore d’altrui e quello sconforto di sè che sono in ogni guerra, i più potenti ausiliari contro un esercito; e fa d’un paese intero riserva inesauribile alle forze ordinate.
Il conte Cavour sapea quanto noi queste cose; ma egli abborriva la rivoluzione; abborriva l’idea d’una iniziativa di popolo e la coscienza di forza che ne deriva; abborriva ogni concessione, anche menoma, a chi non si dichiarasse anzi tratto fautore cieco della monarchia piemontese. Uomo d’arti tattiche e non di principii, e capace di giovare ai propri disegni ingannando, ei non credeva nell’altrui lealtà. D’indole ambiziosa e dispotica, ei non potea tollerare ch’altri entrasse con animo libero a parte de’ suoi disegni. Pertinace più che ardito, incapace, per mancanza d’alto core, d’alta mente e di fede, di salire a vasti concetti, s’era aggiogato a un interesse, l’interesse dinastico di Casa Savoia. Spodestare il Papa, tentare Unità di Nazione, non entrava nella sua mente, parlarne a chi gli s’aggirava1 intorno gli pareva artificio buono a conquistare l’altrui servile credulità, e ne usava. Ma il suo vero disegno non oltrepassò mai i termini del programma fallito nel 1848, il Regno del Nord. L’Italia era per lui mezzo non fine: l’agitazione di tutto quanto il paese, un’arme buona a dargli potenza per raggiungere quel misero intento, da spezzarsi poiché lo avesse raggiunto.
Con questi propositi era immorale, ma logica la via ch’ei tenne. Il Piemonte non poteva allora nè potrà mai da per sè conquistare intero il Lombardo-Veneto. Bisognava dunque cercare un alleato. Fermo in non volere l’alleanza del popolo, ei dovea cercarlo dove fossero interessi tali da rendere l’alleanza possibile e dove l’alleanza ottenuta una volta, fosse arme potente ad un tempo contro l’Austria e contro la Rivoluzione. Quindi l’alleanza col Bonaparte: alleanza che ha costato già vergogna e delusione e costerà nuovo sangue all’Italia. Intanto, e quando quell’alleanza fatale non era ancora fatto compito, ma solamente pericolo da scongiurarsi per ogni via, l’attitudine della monarchia piemontese e il linguaggio tenuto da Cavour nelle Conferenze facevano tumultuar di speranze la povera Italia, malata di dolori insopportabili, d’ignoranza forzata, di materialismo tradizionale e d’ire impotenti, perchè non santificate da fede nella propria missione e nelle proprie forze. Gl’Italiani non s’avvedevano che la formola o riforme, o rivoluzione rivelava un antagonismo radicale fra le intenzioni governative e il sommo intento del moto, e poneva la rivoluzione come segno non di speranza, ma di terrore: non s’avvedevano che la parola riforme accennava fin d’allora alla federazione dei principi e rinnegava l’Unità popolare: non s’avvedevano che quella formola parlava ai governi d’Europa quali essi fossero, sagrificava il Diritto Italiano e la nostra spontaneità, e cacciava l’Italia in sembianza di mendica ad aspettare i suoi fati dal beneplacito dello straniero. Travedevano nell’insidioso dilemma una disfida ai padroni d’Italia e ingigantivano, travolti dal desiderio, quelle parole sino alle dimensioni d’una promessa. Sentivano le riforme impossibili e ne deducevano che il Piemonte regio, dichiarando inevitabile senza quelle la rivoluzione, intendeva assumersi di capitanarla. Nè forse avrebbero così deliberatamente dimenticato la storia antica e recente dei governi monarchici; ma tra il governo sardo e sè stessi vedevano una moltitudine d’uomini, taluni venerandi davvero per un passato di sagrifici e d’opere generose, tutti ardenti vociferatori di patria, che stava mallevadrice per le intenzioni del governo emancipatore. Era sorta, traendo gli auspicii da alcune parole di un esule meritamente caro all’Italia, Daniele Manin, una Società che assumeva il titolo di Nazionale, composta in parte, come tutte le Società che si formano su terre oppresse, d’uomini buoni, ma fatta dai capi stromento della propaganda più funesta e immorale che mai si fosse. Aiutata moralmente dal prestigio della sede in Torino, aiutata più praticamente nella trasmissione delle sue stampe dalle agenzie politiche e consolari del Piemonte, abusò a illudere, ad affascinare le menti, della parola segreta e pubblica, come mal può idearsi. I suoi faccendieri promettevano su tutti i punti d’Italia, unità di patria, indipendenza da tutti stranieri, libertà: affermavano tali essere le intenzioni di Cavour e quelle del re: si rivelerebbero a tempo. A chi chiedeva qual fosse l’opinione dei vecchi amici d’Italia, di noi, rispondevano esser noi perfettamente intesi e concordi con essi: il dì dopo, ci calunniavano nei loro gazzettini, e il dì dopo sussurravano ai poveri illusi, nelle città venete segnatamente, che l’oltraggio era artificio, richiesto dai sospetti dei governi stranieri a mascherare l’accordo. A chi temeva non bastassero le forze all’impresa dicevano: abbiamo la Francia con noi; a chi si mostrava diffidente degli aiuti d’un despota dicevano; siate forti; concentratevi tutti intorno al trono del re galantuomo e potremo probabilmente fare da noi. E magnificavano al solito depositi d’armi che non esistevano, somm...

Table of contents

  1. I.
  2. II.
  3. III