Confessioni di uno scettico
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Confessioni di uno scettico

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«...io mi ribello a questa legislazione falsa d'intelletti plumbei che non vedono di là d'una spanna, e che per paura delle idee s'affogano nei fatti, riuscendo a non intendere i fatti ed a non ritrovarne le idee.» (G. Trezza - Saggi postumi 1885) Gaetano Trezza (Verona, 13 novembre 1828 – Firenze, 28 ottobre 1892) è stato uno scrittore e filologo italiano.
Sacerdote dal 1850 e professore di latino e greco nel Ginnasio di Verona, durante l'estate del 1856 fu destituito dalle autorità austro-ungariche per le sue idee liberali e incarcerato. Venne poi trasferito al Liceo ginnasio di Cremona, dove continuò la sua propaganda anti-austriaca ed ebbe per discepolo Napoleone Caix. Nel 1862 passò al Liceo di Modena. Lasciato il sacerdozio si rifugiò a Torino; nel 1868, soprattutto grazie al sostegno di Pasquale Villari, fu chiamato sulla cattedra di letteratura latina nell'Istituto di Studi superiori di Firenze, come successore di Vannucci e Bonghi. Professò l'ideologia positivista in sintonia con il pensiero di Roberto Ardigò, propugnò il darwinismo e le teorie dell'evoluzione; le sue ricerche si orientarono verso la storia del materialismo antico e la sua negazione in San Paolo.

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Information

Publisher
Passerino
Year
2019
eBook ISBN
9788834111772

1

2 Novembre 18....

Tu mi domandi la via della vita per camminare più pronta nella vigilia dei sensi. Oh! sai tu che la rivelazione del vero ucciderà le speranze fantastiche nelle quali s’adagia mollemente la tua anima stanca? sai tu che gli Dei si ecclisseranno tutti su quella via dolorosa, e che rimarrai soletta cercandoti intorno come chi cerca un paradiso perduto? sai tu quante fraudi, quanti dolori, quante demenze v’ha seminato la natura per trastullarsi nella sua settimana terrestre?

O anima superba, tu vuoi la pace dal vero, e ti ribelli se la ragione te lo dà fra le lagrime? le vie della natura son scettiche; guai a chi vi si mette per entro senza conoscerle! vuoi tu meco interrogare la sfinge che ti si pianta dinnanzi? vuoi tu profondarti negli abissi dell’essere e inebbriarti di spavento sacro nelle visioni terribili dell’infinito? sei ben presta a disfrondare dalla vita ogni speranza adultera d’oltretomba? immolarti con pieno olocausto alle leggi serene dell’universo senza ridomandare a nessun Dio il prezzo codardo del tuo sagrificio? se sei presta a tanto, vieni, ch’io t’insegnerò la via della vita.

Ti narrerò lo strazio dell’anima mia, le lagrime versate in silenzio, le ribellioni amare, le gioie tragiche, la vittoria disperata. Io ti disnuderò la coscienza come se fossi un Dio che la interroghi. Sento in me un’acre necessità di rivelarmi, perchè ciò che porto dentro a me stesso non è mio ma di tutti coloro che si conquistarono l’ideale attraverso le ombre della carne. Oh! fu ben triste il mattino della mia giovinezza, che per gli altri si apre così riposato così bello! L’estasi virginale d’un sogno pien di mistero, di voluttà, di lagrime, m’affascinò per un istante e poi disparve per sempre. La rimembranza lontana di quel sogno benedetto mi distilla ancora una dolcezza malinconica somigliante all’addio d’un amico. Prima di rifabbricarmi il mio mondo quante ruine attraversai di me stesso! quanti gioghi spezzai con furor procelloso di libertà! I miei fiori d’Adone, i fior del desiderio, gli ho gettati via con uno sdegno sciagurato, e m’esaltai nella mia solitudine infausta come S. Paolo nel terzo cielo.

Il due novembre intenerisce i pietosi sulle tombe dei morti; vuoi tu chinarti un poco a contemplare la mia tomba di vivo? quanti si traggono con sè il cadavere della memoria e non hanno il coraggio di confessarlo. Vieni, te lo confesserò io per tutti. Addio.

2

4 novembre 18....



Tu lo vedi: nella storia contemporanea c’è uno strazio tragico di due parti che si ribellano l’una contro dell’altra, e ciascheduno di noi ne porta i segni dolenti. Io m’interrogo spesso e mi pare che nella mia coscienza siasi già piantato un cono adamantino che la divise in due mondi avversi. Donde ciò?

V’ha in noi un mondo fuori della ragione che ci entrò per le vene in un’ora ebbra d’assurdi. Ci siam posti il giogo sul collo da tanti secoli, e l’abbiamo sostenuto coll’entusiasmo feroce dell’adorante; qual maraviglia se la libertà dell’intelletto redento non si conquista se non disfacendo una parte di noi stessi? qual maraviglia se lo spirito umano sa troppo di schiavo? Il medio evo ci ha tutti, più o meno, consunti; l’eredità sana dello spirito antico deviò le sue correnti fecondatrici degli organi, la ragione si oscurò davanti alla tetraggine della fede, il sentimento irruppe con le sue febbri ascetiche a devastare l’educazione scientifica omai cominciata, e l’uomo si credè redento nella grazia mentre s’era disfatto nella natura.

Oh! la nostra parte migliore è veramente disfatta dentro di noi! Ci siamo composti colle proprie mani un gineceo per isdraiarvisi come in un letto inerte; e pur oggi rechiamo gli occhi abbacinati e maceri da quel letargo dal quale ci hanno scossi tre secoli di scoperte. Noi ci moviamo brancolanti fra la nuova luce perchè ci resta ancora impressa intorno le ciglia contristate la caligine antica. Da ciò l’irrequietezza dolorosa d’un rinascimento incerto; da ciò le velleità che non si maturano mai nell’adulta virtù dell’intelletto conscio di sè; da ciò l’ecclissi superstite che si distende per tutte le vie della coscienza, e l’occulta fraude che ci avviluppa consumandoci nell’ impotenza eterna d’Amleto.

Fa d’uopo di risanarci da quella peste ascetica che ci corrose il nerbo della ragione comunicandoci quel delirio dell’oltretomba che ci stimola ancora il desiderio; fa d’uopo di aprire le stalle d’Augia putrefatte nel mondo moderno e lasciare che vi ricircoli la luce possente del vero; fa d’uopo di richiamare lo spirito dall’esiglio della materia rimaritandolo con la vita che sgorga perennemente dalle sacre mamelle della natura; non per inebriarsene in un’estasi inerte, come Faust, ma per riprodurne in noi stessi le parti più alte. Fa d’uopo di concordarci alle cose, rifecondarsene, ricrearle in quell’ideale ch’è la cosa più vera dell’universo, e che sornuoterà sola al naufragio dei mondi, infuturando nell’eternità coloro che lo riflettono in un’ora del tempo. La nostra salute è qui tutta.

Ma quanti credi tu che la conoscano? quanti che la riproducano? quanti che la trasmettano dopo di loro? Ah! il regno di Dio non è che di pochi, perchè soltanto i pochi se lo conquistano col miglior sangue dell’anima! I più s’abbandonano al torrente della demenza e spariscono dalla vita senza comprenderne il senso divino. Addio.

3

6 novembre 18....



«Auch ich war in Arkadien geboren;» potrei dire con Schiller; anch’io respirai nell’Arcadia della fede ed attossicai gli anni vergini della mia vita colle fraudi ascetiche del sentimento. Anzi, te lo confesso, la fede m’entrò con tanto impeto, vi si profondò con tanta tenacità d’entusiasmo che m’esaltai sopra me stesso. Era un’insania che mi si colorava colle sembianze del vero. Io la portai lungamente dentro di me; e quando alla fine la strappai dalla coscienza, a guisa di chi strappa la maschera dal volto dopo una notte fantastica d’orgia, l’anima mia, come fosse divelta dall’intimo suo, mi diè sangue per ogni vena, e lo strazio atroce sopravisse alla vittoria stessa della ragione.

Ti narrerò in un’altra lettera la tragedia che sostenni, le lagrime che versai, il dolore disperato d’un abbandono ch’io credeva impossibile. Ma, ripensando a quel mio passato ascetico, non ti nascondo che ora ne provo una quasi rabbia di pentimento. Ora non comprendo più quella battaglia che mi pare uno scherno della ragione; quelle lagrime mi paiono vili, e quella disperazione una stizza di fanciullo inesperto delle grandi vie che la scienza dischiude agl’intelletti maturati nel vero.

Perchè dunque la cappa di piombo della religione ci siede sul collo, e ci vieta di alzare fieramente la testa ed interrogare le cose come sono? perchè la servitù detestata del dogma ci logorò le potenze più fresche degli organi, fiaccandole per tanti secoli sotto la sferza papale? perchè quella codardìa d’intelletto che non osa affrontare i divini pericoli del vero scientifico? perchè l’inerzia disonesta che ci fa chiudere gli occhi alla nostra salute e ci fa così sbigottiti delle nostre stesse conquiste? perchè bestemmiamo la verità chiamandola triste, allettiamo speranze nell’oltretomba, e ci ribelliamo al fato reputandolo un giogo che ci schiaccia non una legge divina da riprodurre in noi stessi?

È un dramma pien di dolore ch’io ti narrerò come s’è prodotto dentro di me in quegli anni terribili e sacri nei quali mi si dischiudeva la ragione dall’orizzonte della fede. Addio.

4

7 Novembre 18....



I figliuoli della grazia si ribellarono alla ed ora portano il danno d’una ristolta ed infausta. La Grazia di Dio è traforata nella coscienza dell’uomo e ha convertito in un limosinante del regno cieli; ella seminò le ruine per tutte le della vita, anzi della vita non fece che in un mondo non; ella ci ha resi impotenti e, quel ch’è trasformò l’impotenza in un abito umana segnandola come schiava e destinata ai supplizi ineffabili della geenna eterna. Un tal servaggio di spirito chiamò redenzione; e quando ci vide attraversare le forche caudine d’un dogma fabbricato da lei, s’applaudì come d’una grande salute partecipata dal cielo e dalla terra.

Ahimè! quanto diversa da quella Charite olimpica che uscì fresca di pudor virginale dalla schiuma del mare, ondeggiata mollemente dai zefiri sulla sua conca odorosa, che lampeggiava d’un riso sereno sugli esseri inebbriati alla voluttà de’ suoi sguardi, e mentre guidava le feste di Orcomeno dai veli decenti trasparivano le membra ambrosie atteggiate alla danza! La santa Venere con forma e con nome di Grazia era in quel tempo la Dea della vita, i cuori si esaltavano nell’ebbrezza del suo culto, ed anche la religione era gioia di spiriti sani.

Il medio evo capovolse quel mondo sì bello, e contristò di pianto ascetico la natura che avea generato le forme olimpiche della beltà. D’allora la grazia divenne ministra di predestinazioni tragiche, e nascondendosi per entro alle pieghe d’un volere impervio ai dubitanti della terra, si pianta come un giogo in mezzo della vita, ne spezza le potenze che contrastano a lei, e crea un cimitero di schiavi là dove potrebb’essere un paradiso di liberi. Che redenzione infausta fu quella! che libertà sciagurata ci recò l’apocalissi del regno di Dio la quale annunziava cieli nuovi e terra nuova! che frutto ne venne dall’avere abbandonato le vie della natura per traviarsi miseramente nelle vie della grazia! quanti secoli perduti per sempre alla ragione umana! quante battaglie stolte in cui si versò il miglior sangue dell’anima per conquistarsi un regno de’ cieli impossibile!

Ah! se penso al danno immenso del quale rechiamo le cicatrici ancora vive dentro di noi, alla salute del mondo moderno contristata dalla morbosità medievale, a quel gruppo di demenze accampate nel cervello a guisa di specie stabili della fede, all’arduità dell’educazione scientifica che ci spoppi dai miti filosofici e ci disuggelli l’epoptea redentrice del vero; se penso a quella, direi quasi, ostinazione superba di fatuità impenitente che ci aggioga, più o men, tutti ad un dogma condannato per sempre, allora m’assale un tedio ribelle dell’intelletto che dubita di sè stesso e si crede trastullo di qualche nemesi sconosciuta che lo defraudi, e mi domando con l’amarezza che vien dalla morte se il sogno non è meglio del vero, e se la natura creando i suoi folli non abbia loro concesso le scorribande fantastiche nella breve settimana dei sensi.

Ahime! da quanti secoli ci passa innanzi il torrente della demenza, e con che tumultuare osceno si devolve per le vie della vita! quanta parte del genere umano vi si ruina per entro e vi naufraga! che fanno i pochi magnanimi i quali siedono sulle cime del tempio epicureo? contemplano da lungi il torrente sorridendo sui naufraghi. Addio.

5

8 novembre 18....



Eppure, non so tacertelo, la demenza della fede mi fu ben dolce sul mattino della mia vita, allorquando la fantasia si dischiude commossa ai primi tepori del sentimento ancor vergine. Forse tu non sai come si apprende e si profonda nello spirito giovinetto il desiderio delle cose divine, e per che modo la natura gli si porga circonfusa in un mistero che si perde nell’infinito; ei vi si compiace, vi si esalta, vi si spaura, vi s’intenerisce, vi s’abbandona senza saperne il perchè. Le parole della fede gli sembrano arrivare da un cielo arcano, le riceve senza ostacolo, gli destano ebbrezze ineffabilmente nuove, gli rimangono impresse con tanta vivacità che gli pare di non potersene distaccare senza distaccarsi dal più intimo di sè stesso. Che vuoi? le imparò dal labbro di sua madre; la preghiera semplice e casta di Di...

Table of contents

  1. Copertina
  2. Confessioni di uno scettico
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  4. Al lettore
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