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Dante
About this book
Una splendida biografia del "sommo poeta" pubblicata nel '21 in occasione del sesto centenario della morte. Rosa Errera nacque a Venezia il 13 luglio 1864. Fu insegnante di lettere nelle scuole medie inferiori sempre a Firenze tra il 1884 e il 1889. Portò poi a termine gli studi a Roma e nel 1892, vincitrice di un concorso, fu assegnata alla scuola normale “Gaetana Agnesi” a Milano.
Da quel momento la sua attività di scrittrice diventa abbondante, nell’ambito della letteratura giovanile ma anche con testi didattici e pedagogici.A partire dal 1938 fu vittima delle leggi razziali a causa delle sue origni ebraiche; venne vietata la vendita, ed anche la consultazione in biblioteca, dei suoi libri.
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Information
eBook ISBN
9788834160107LA COMMEDIA
Dalla Vita Nuova alla Commedia.
Dante aveva chiuso la Vita Nuova accennando a una mirabile visione, dopo la quale risolvette di non dir più di Beatrice se non quando potesse dirne più degnamente. «Sì che, se piacere sarà di colui a cui tutte le cose vivono, che la mia vita duri per alquanti anni, spero di dicer di lei quello che mai non fu detto d’alcuna».
La vita di Dante durò appunto il numero d’anni necessario a questa celebrazione unica della sua donna.
Ma che cosa gli era apparso nella mirabile visione che l’aveva indotto all’alto proponimento?
Fu forse quella visione la stessa che poi egli descrisse nella Commedia trasportandola dal 1292 circa, in cui l’ebbe, al 1300? Fu, ampliata o modificata, quella cui par che accenni nella canzone alle donne che hanno intelletto d’amore, dicendo che un giorno si vanterà coi dannati d’aver visto in terra colei che i beati desideravan seco nel cielo? O fu il momento saliente del Poema, allorchè la sua donna gli appare gloriosa,
Nel trono che i suoi merti le sortiro?
Il Poeta gittò fra le due opere quelle parole finali del suo libretto, come un aereo ponte che le congiunge idealmente; ma non si curò di saldarlo altrimenti alla realtà con dati storici positivi. Egli stesso non avrebbe forse potuto rintracciare con precisione il primo determinarsi della ispirazione, quando nel gran disegno erano ancora recessi pieni d’ombra sui quali spaziava incerta la fantasia; e mentre sulla materia che s’andava plasmando, i casi della vita versavano ogni giorno nuova materia incandescente: errori e dolori, turbamenti e amarezze, slanci eroici verso il bene individuale e il bene di tutti: pensieri e sentimenti che del giovine sospiroso nella camera delle lagrime per il negato saluto fecero il poeta del mondo.
Congiunti idealmente, son pur tanto distanti, la Vita Nuova e il Poema!
La forma della visione, dal vestire le prime «gracili» allegorie passa ad abbracciare una delle più grandiose concezioni della mente umana. Dalla stessa Musa che pareva cantare su poche delicate corde, esce la solenne polifonia della Divina Commedia. Il gentile artefice di sonetti e di canzoni, che nel libello faceva umilmente succedere caso a caso secondo l’ordine nel tempo, con un «avvenne poi», «un giorno avvenne», «appresso questa visione», «appresso la nuova trasfigurazione», «avvenne poi che», imponeva nel Poema al proprio genio leggi nuove e complesse e varie, e spaziava liberamente nella storia, dal tempo delle favole antiche a quello della sua vita.
Nell’opera giovanile un’ingenua compiacenza guidava l’autore a citare i suoi maestri e a riunire tutti i loro nomi in un capitolo. Ma il Poema sarà pervaso tutto da una sapienza attinta alla più ricca coltura che concedesse il Medio evo, pagana e cristiana, biblica e popolare, realistica e mistica, in latino e nei volgari romanzi, originale e di compilazione. E la padronanza d’un più ricco linguaggio permetterà al Poeta di dire con sicurezza ogni cosa. Cielo e terra concorreranno, lo dirà egli stesso, a formare la sua opera ed egli ne sarà per più anni macro; e vi metterà ogni aspetto della sua anima.
La forza dei grandi sentimenti non dà solo l’ispirazione poetica, ma il coraggio d’osare i gran disegni e di sostenere per essi fami e veglie. L’anima piena è quella che trabocca nei rivi della poesia. Dante credeva ed amava; Beatrice gli regnava in cuore con la puntura della rimembranza, aspettando l’adempimento della promessa. In mezzo ai traviamenti dell’uomo sopravviveva acceso quel lume interno; perchè l’ansia di bene dello spirito vigila anche quando non vince. Tutto il Poema è un canto d’aspirazione al divino. E una delle creazioni più intensamente umane che Dante presenti alla nostra commossa ammirazione è appunto la donna pura, dimenticata ed offesa, che, guidata da Amore, va piangendo a supplicare, non un angelo o un santo, ma l’antico poeta pagano che Dante amava, perchè salvi col suo parlare onesto l’uomo sensibile al fascino della bella parola, e in quel momento sensibile forse soltanto a quello.
La Beatrice della Vita Nuova è nella Commedia assunta ad altissimo simbolo. Ma nell’una e nell’altra opera essa è per noi quella che fu nell’anima del suo Poeta. Noi conosciamo la Beatrice foggiata dal cuore e dalla mente di Dante. È Dante che la manda a cercar di Virgilio. Essa è creatura poetica sua. Essa diventa la motrice del Poema perchè così vuole il suo Poeta. Ma le ragioni del Poema son tante e il Poema sarebbe stato, in altra forma e per altre vie poetiche, anche senza Beatrice. Incontrata da Dante sulla soglia della vita, ella ebbe la fortuna d’aver su lui un’efficacia benefica e di ricevere per il beneficio un premio immortale.
Beatrice è motrice del Poema come della Vita Nuova. Ma il vero protagonista di quell’opera come di questa è Dante: Dante, che opera e parla, interroga e risponde, si sdegna e si placa, rampogna e ammira, condanna e salva, si pente e si purifica, prega e si esalta, riempie il mondo dei morti dei propri gusti, delle proprie persuasioni, della propria irrompente natura.
Per questo la Commedia, a differenza dell’Iliade e dell’Eneide, in cui il protagonista è altro personaggio dall’autore, è tanto ricca d’elementi lirici; mentre per l’andamento narrativo e per la grandezza dei fatti che vi si espongono, e per la pittura dei costumi che vi si fa, avrebbe fondamento epico; per lo svolgimento della passione e per la rapidità e efficacia della sceneggiatura volta a volta tragica e comica, partecipa della drammatica; e per l’altissimo fine, la severità morale, la frequenza della satira, è opera insegnativa.
Come tutte le creazioni del genio, la Commedia ha un’impronta sua, che non la lascia inquadrare nei soliti schemi tradizionali, trovati dai rètori esaminando le manifestazioni dell’ingegno presso i classici, e poi mantenute per comodo di classificazione e di denominazione. La materia poetica foggia a sè stessa la propria forma, la quale nelle opere grandi, e quindi sincere, non può essere che quella, com’è quella la mente che le produce.
Così il Poeta si foggiò il metro, ch’è una felice modificazione della strofe del serventese popolare: la terzina incatenata d’endecasillabi, o terza rima, nella quale il primo verso rima col terzo, e il secondo col primo e col terzo della terzina seguente: periodo ritmico breve, ma che, per l’allacciarsi dell’una strofe con la successiva, rende possibile il più ampio respiro.
Di queste strofe di tre versi sono costituiti i canti, i quali terminano sempre col verso iniziale d’una terzina incompiuta, verso che bacia il secondo della strofe finale.
Trentatre sono i canti per ciascuna cantica, il primo potendo considerarsi come un canto d’introduzione.
I versi della Commedia sommano a poco più di quattordicimiladuecento. Canto e cantica sono denominazioni dantesche. E le cantiche son tre, Inferno, Purgatorio, Paradiso. Tre, numero della Trinità, è numero perfetto, e perfetto è pure, sappiamo, il nove, quadrato di tre, numero che domina anche le particolari ripartizioni dei tre regni dei morti. E i canti, tutti press’a poco della stessa lunghezza, tutti insieme son cento, numero pure perfetto; come i cieli son nove, ma cinti da un decimo di pura luce. Ogni cantica finisce con la parola stelle, quasi luminoso punto fermo.
Stranezza, per noi, questo insistere del Poeta sugli stessi numeri, questa importanza data a certe coincidenze. Il Carducci la chiama cabala. Ma, dice, questa cabala fu per Dante quello che Dante stesso chiamò «il fren dell’arte». Essa chiuse, cioè, in una cornice di disegno matematico una materia immensamente varia e le impose proporzione, e fece che l’autore potesse dominarla anzichè esserne dominato. Con questa cabala il Poeta padroneggia la sua materia come gli artisti dei grandi edifizi padroneggiano lo spazio, con sapiente armonia delle parti, in modo che l’osservatore avverte la bellezza dell’insieme e non sa determinare ove sia. La perfetta proporzione è come la perfetta semplicità, cioè una virtù in cui l’occhio riposa e che non si rivela con sicurezza se non quando la si confronti con la sproporzione, come la semplicità con l’affettazione o con la negligenza.
Le evidenti simmetrie della cabala dantesca non devono però indurci a cercarne ovunque, e quindi anche dove non sono.
E perchè Commedia?
Tragico e comico sono per Dante denominazioni che riguardano la maggiore o minore altezza del soggetto e dello stile. Perciò l’Eneide è per lui un’«alta tragedia», e l’opera propria è una commedia, anzi «comedìa», perchè tratta di materia non sempre elevata ed è quindi scritta in stile mezzano.
E quell’epiteto di Divina?
Esso non è di Dante. Fu attribuito all’opera per la prima volta dal Boccaccio circa il 1366; e sebbene a Dante o all’opera sua fosse poi anche da altri nel secolo XV aggiunta quell’alta lode, la definitiva consacrazione del nuovo titolo si dovette all’edizione del Poema curata da Ludovico Dolce, coi tipi dello stampatore Giolito a Venezia nel 1555. Quell’epiteto fu una dichiarazione di eccellenza, accettata poi dalle persone colte e dal popolo senza contrasto.
Il tema.
Non c’è popolo, non c’è mitologia o libro sacro o tradizione rispecchiante la fede d’una gente, non c’è filosofo e nemmeno uomo uso a riflettere, che non si sia posto una volta il quesito di ciò che sarà di noi dopo la morte, e non ne abbia sentito il fascino e l’importanza.
«Intra tutte le bestialitadi quella è stoltissima e vilissima, – esclamava Dante nel Convivio, – chi crede dopo questa vita altra vita non essere; perciò che, se noi rivolgiamo tutte le scritture, sì dei filosofi come degli altri savi scrittori, tutti concordano in questo, che in noi sia parte alcuna perpetuale. E questo massimamente par volere Aristotile...; questo par volere Tullio [Cicerone]; questo par volere ciascun poeta che secondo la fede dei gentili hanno parlato; questo vuole ciascuna legge [religiosa], Giudei, Saracini e Tartari, e qualunque altri vivono secondo alcuna ragione».
Greci e Romani lasciarono sulla sopravvivenza delle anime teorie ed episodi in pagine di grande bellezza.
Ma Dante attinse, fra gli antichi, sopra tutto al suo Virgilio.
Quando leggiamo i nomi e i caratteri delle località e delle figure d’oltre tomba ch’egli tolse dal Paganesimo, attraverso principalmente all’Eneide, ci maravigliamo della forza di vita che serbano nei secoli quelle antiche finzioni, e insieme può apparirci strano che il Poeta, in una rappresentazione di carattere tutto cristiano, introduca tanti elementi attinti alla favola, anche se improntati dall’arte.
Ma quelle località e quelle figure e i loro caratteri son quasi la decorazione, la parte esterna del grande edifizio dantesco, non ne sono lo spirito. Tutti questi ministri della giustizia divina nell’Inferno son simboli in cui è entrato un nuovo pensiero, e benchè esercitino un potere nella cerchia loro assegnata, son dominati da una volontà superiore cui non possono sottrarsi e da cui il loro limitato potere dipende: sono, in certo modo, a servizio del Dio dei Cristiani.
Le figurazioni pagane erano state anche derise nei primi tempi del Cristianesimo, quando degli dei erano stati fatti altrettanti demoni. E le tentazioni dei pii eremiti assumevano spesso forma sensibile di centauri, di satiri, di altri mostri dell’antica fantasia. Arpie, chimere, furono introdotte nell’Inferno anche da oscuri rimatori che conoscevano Virgilio.
Ma le creazioni della mitologia non vennero sempre ridotte a larve diaboliche. Si scoperse in esse anche un significato riposto, che poteva convenire agli scopi educativi dell’arte.
«Dèi falsi e bugiardi», li chiama Dante. Ma Dante stesso nel Convivio, parlando delle «sustanzie separate da materia, cioè intelligenze, le quali la volgar gente chiama angeli», e che muovono i cieli, cita Platone, «uomo eccellentissimo», che ammise «non solamente tante intelligenze quanti sono li movimenti del cielo, ma eziandio quante sono le spezie delle cose», e tali intelligenze chiama Idee. «Li gentili le chiamavano dèi o dee... e adoravan le loro immagini, e facevan loro grandissimi templi, siccome a Giuno, la quale dissero dea di potenza, siccome a Vulcano, lo quale dissero dio del fuoco... Le quali così fatte opinioni manifesta la testimonianza de’ poeti».
L’invocazione alle Muse, ispiratrici del canto, non pare rispondere in Dante soltanto a una consuetudine imitata per artificio. Al principio d’ogni cantica, e quando le difficoltà si fanno più ardue, egli rinnova quell’invocazione. E nel Paradiso non gli basta quel soccorso: egli supplica anche Apollo e Minerva; e gli pare che accolgano la sua preghiera:
Minerva spira e condùcemi Apollo,
E nove Muse mi dimostran l’Orse.
E nove Muse mi dimostran l’Orse.
E veramente le divinità dell’antico Olimpo paiono qui prestar solo il nome all’aiuto soprannaturale nel quale Dante credeva.
«Sommo Giove», chiama egli Cristo in un passo famoso del Purgatorio. E vedremo un saggio pagano custodire il Purgatorio, e due pagani, per dono della grazia, santificati in Paradiso.
Un pagano è, dopo Dante e Beatrice, la figura più saliente del Poema: certo, dopo Dante, la più umana fra tutte e la più vicina all’animo del lettore.
Ma col Cristianesimo soltanto «si forma quella lunga serie di scritture, quell’ampio ciclo leggendario che fa capo alla Divina Commedia».
Molti furono nel Medio evo che narrarono d’avere avuto in visione la rivelazione dell’invisibile. E molte decine di visioni furono rintracciate dai nostri studiosi e da studiosi stranieri e pubblicate, specialmente per indagarvi le fonti del divino Poema; e sempre si vengono scoprendo nuove fonti, anche giudaiche e arabe. Dante dovette certo conoscer molte di quelle scritture, e molte anche che noi ignoriamo; come probabilmente tra le scoperte da noi ve ne saranno che Dante ignorò. A non parlare dell’enorme distanza di valore fra tante informi e ingenue narrazioni e l’opera dantesca, non è a credere che talune somiglianze nei particolari significhino sempre imitazione diretta che il Poeta facesse da un dato modello. Molte volte una somiglianza può esser casuale fra essenziali dissomiglianze, o l’oscuro autore e il Poeta possono avere attinto a una fonte comune o da elementi tradizionali, che erano, come si dice, «nell’aria», che tutti conoscevano e nessuno aveva detto per primo. Il tema stesso era «nell’aria».
Certo, l’opera d’arte, benchè talora ci appaia cosa quasi divina, è opera umana, e come tale non è creata dal nulla. Elementi imponderabili entrano nelle composizioni dei grandi, di cui essi stessi non saprebbero sempre raccapezzare le origini. Nello studio degli ispiratori, anche pedestri e greggi, si possono scoprire dati e ragioni che gettano fasci di luce sopra i segreti del genio, E questo, da composizioni povere d’arte trae concetti che vivifica con tocco magico: nel qual tocco sta appunto la vera originalità.
La letteratura medievale, per tanta parte anonima, rimaneggiata, travestita, di compilazione, con elementi passati da un componimento all’altro, o ripetuti a voce, pareva dominio di tutti. Anche se attingeva consapevolmente a quelle scritture, il Poeta non poteva sentirsi obbligato a citarle, come non avrebbe pensato a citare il mondo stesso in cui viveva, o i rozzi dipinti dell’Inferno nelle chiese e nei cimiteri, o quello spettacolo pubblico di cui parla il Villani, che si fece al ponte alla Carraia, con palchi di legno sui quali si affollarono gli spettatori a vedere l’Inferno e il Paradiso; e i palchi rovinarono, e molti andarono al mondo di là a verificare le cose che avevano vedute...
Si può concludere col D’Ancona, che «la Divina Commedia era già in embrione e in abbozzo, prima che la mano di Dante le desse forma propria e imperitura nel suo Poema».
Alcune Visioni.
Il D’Ancona distingue le visioni medievali precedenti la Commedia in tre categorie: delle contemplative, delle politiche e delle poetiche.
Le prime son frutto, da principio, della fantasia d’ingenui monaci, senza determinatezza di contorni, brevi, piene di maraviglie e di goffaggini; ma più tardi hanno maggior precisione e coerenza: «ecco le sedi dell’eterna e temporanea dimora delle anime meglio configurarsi e stabilirsi in un ordine di pene e di premi che, lievemente modificandosi, rimarrà nella coscienza dei fedeli e nella tradizione dei volghi». Queste furono «meri abbozzi e lontani prenunziamenti del poema dantesco, che presso i credenti ebbero allora tanta accoglienza, quanta presso gli uomini educati al culto dell’arte ottenne più tardi la Divina Commedia».
Visite al regno dei morti sono descritte nella visione di San Paolo, del secolo IX, nata forse dalle parole di San Paolo nella seconda epistola ai Corinzi, in cui racconta di essere stato rapito al terzo cielo [terzo cielo nel senso di Paradiso, come nel vecchio Testamento], nel viaggio dell’irlandese Brandano (secolo XI), nelle leggende pure irlandesi di Tundalo (secolo XII) e del purgatorio di San Patrizio, nella visione italiana di Alberico, frate benedettino, che ebbe la rivelazione a dieci anni, durante un’infermità. In quest’ultima narrazione si trova qualche bagliore d’arte e qualche somiglianza con certi particolari danteschi, che possono lasciar credere a una conoscenza che Dante ne avesse. Anche quella di Tundalo egli dovette conoscere.
Il D’Ancona chiama visioni politiche altre che sono ...
Table of contents
- Copertina
- Dante
- Indice dei contenuti
- AVVERTENZA
- TEMPI DI DANTE
- DANTE
- LA COMMEDIA
- Opere consultate
