Le più belle novelle
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Le più belle novelle

Cavalleria rusticana, La lupa, Nedda, Rosso Malpelo, Jeli il pastore, Fantasticheria, L'amante di Gramigna

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Cavalleria rusticana, La lupa, Nedda, Rosso Malpelo, Jeli il pastore, Fantasticheria, L'amante di Gramigna

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Oltre alla novella introduttiva, La roba, sono qua pubblicate: Cavalleria rusticana, La lupa, Nedda, Rosso Malpelo, Jeli il pastore, Fantasticheria e L'amante di Gramigna. Che sono le più belle e famose novelle del grande Giovanni Verga, alle quali egli attinse largamente per la realizzazione dei suoi due grandi romanzi I Malavoglia e Mastro Don Gesualdo. In questa edizione, a parte qualche lieve normalizzazione, i testi sono stati lasciati rispettosamente intatti come nelle versioni originali. L'epiteto femminile «gnà», spessissime volte ripetuto, significa genericamente "signora" o anche "colei che svolge le faccende per la padrona".

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JELI IL PASTORE

Jeli, il guardiano di cavalli, aveva tredici anni quando conobbe don Alfonso, il signorino; ma era così piccolo che non arrivava alla pancia della Bianca, la vecchia giumenta che portava il campanaccio della mandria. Lo si vedeva sempre di qua e di là, pei monti e nella pianura, dove pascolavano le sue bestie, ritto ed immobile su qualche greppo, o accoccolato su di un gran sasso. Il suo amico don Alfonso, mentre era in villeggiatura, andava a trovarlo tutti i giorni che Dio mandava a Tebidi, e dividevano fra di loro i buoni bocconi del padroncino, e il pane d’orzo del pastorello, o le frutta rubate al vicino. Dapprincipio, Jeli dava dell’ eccellenza al signorino, come si usa in Sicilia, ma dopo che si furono accapigliati per bene, la loro amicizia fu stabilita solidamente. Jeli insegnava al suo amico come si fa ad arrampicarsi sino ai nidi delle gazze, sulle cime dei noci più alti del campanile di Licodia, a cogliere un passero a volo con una sassata, a montare correndo di salto sul dorso nudo delle giumente ancora indomite, acciuffando per la criniera la prima che passasse a tiro, senza lasciarsi sbigottire dai nitriti di collera dei puledri indomiti, e dai loro salti disperati. Ah! le belle scappate pei campi mietuti, colle criniere al vento! i bei giorni d’aprile, quando il vento accavallava ad onde l’erba verde, e le cavalle nitrivano nei pascoli! i bei meriggi d’estate, in cui la campagna, bianchiccia, taceva, sotto il cielo fosco, e i grilli scoppiettavano fra le zolle, come se le stoppie si incendiassero! il bel cielo d’inverno attraverso i rami nudi del mandorlo, che rabbrividivano al rovaio, e il viottolo che suonava gelato sotto lo zoccolo dei cavalli, e le allodole che trillavano in alto, al caldo, nell’azzurro! le belle sere di estate che salivano adagio adagio come la nebbia, il buon odore del fieno in cui si affondavano i gomiti, e il ronzio malinconico degli insetti della sera, e quelle due note dello zufolo di Jeli, sempre le stesse - iuh! iuh! iuh! - che facevano pensare alle cose lontane, alla festa di San Giovanni, alla notte di Natale, all’alba della scampagnata, a tutti quei grandi avvenimenti trascorsi, che sembrano mesti, così lontani, e facevano guardare in alto, cogli occhi umidi, quasi tutte le stelle che andavano accendendosi in cielo vi piovessero in cuore, e l’allagassero!
Jeli, lui, non pativa di quelle malinconie; se ne stava accoccolato sul ciglione, colle gote enfiate, intentissimo a suonare - iuh! iuh! iuh! - Poi radunava il branco a furia di gridi e di sassate, e lo spingeva nella stalla, di là del poggio alla croce.
Ansando, saliva la costa, di là dal vallone, e gridava qualche volta al suo amico Alfonso: - Chiamati il cane! ohé, chiamati il cane! - oppure: - Tirami una buona sassata allo zaino, che mi fa il capriccioso, e se ne viene adagio adagio, gingillandosi colle macchie del vallone -; oppure: - Domattina portami un ago grosso, di quelli della gnà Lia.
Ei sapeva fare ogni sorta di lavori coll’ago; e ci aveva un batuffoletto di cenci nella sacca di tela, per rattoppare al bisogno le brache e le maniche del giubbone; sapeva anche tessere dei treccioli di crini di cavallo, e si lavava anche da sé colla creta del vallone il fazzoletto che si metteva al collo, quando aveva freddo. Insomma, purché ci avesse la sua sacca ad armacollo, non aveva bisogno di nessuno al mondo, fosse stato nei boschi di Resecone, o perduto in fondo alla piana di Caltagirone. La gnà Lia, soleva dire: - Vedete Jeli il pastore? è stato sempre solo pei campi, come se l’avessero figliato le sue cavalle, ed e perciò che sa farsi la croce con le due mani! -
Del rimanente è vero che Jeli non aveva bisogno di nessuno, ma tutti quelli della fattoria avrebbero fatto volentieri qualche cosa per lui, poiché era un ragazzo servizievole, e ci era sempre il caso di buscarci qualche cosa da lui. La gnà Lia gli cuoceva il pane per amor del prossimo, ed ei la ricambiava con bei panierini di vimini per le uova, arcolai di canna, ed altre coserelle. - Facciamo come fanno le sue bestie, - diceva la gnà Lia, - che si grattano il collo a vicenda.
A Tebidi tutti lo conoscevano da piccolo, che non si vedeva fra le code dei cavalli, quando pascolavano nel piano del lettighiere, ed era cresciuto, si può dire, sotto i loro occhi, sebbene nessuno lo vedesse mai, e ramingasse sempre di qua e di là col suo armento! “Era piovuto dal cielo, e la terra l’aveva raccolto” come dice il proverbio; proprio di quelli che non hanno né casa né parenti. La sua mamma stava a servire a Vizzini, e non lo vedeva altro che una volta all’anno, quando egli andava coi puledri alla fiera di San Giovanni; e il giorno in cui era morta, erano venuti a chiamarlo - un sabato sera - che il lunedì Jeli tornò alla mandria, sicché non ci rimise neppure la giornata; ma il povero ragazzo era ritornato così sconvolto che alle volte lasciava scappare i puledri nel seminato.
- Ohé, Jeli! - gli gridava allora massaro Agrippino dall’aia; - o che vuoi assaggiare le nerbate delle feste, figlio di cagna? - Jeli si metteva a correre dietro i puledri sbrancati, e li spingeva mogio mogio verso la collina. Però davanti agli occhi ci aveva sempre la sua mamma, col capo avvolto nel fazzoletto bianco, che non parlava più.
Suo padre faceva il vaccaro a Ragoleti di là di Licodia, “dove la malaria si poteva mietere” dicevano i contadini dei dintorni; ma nei terreni di malaria i pascoli sono grassi, e le vacche non prendono le febbri. Jeli quindi se ne stava nei campi tutto l’anno, o a Donferrante, o nelle chiuse della commenda, o nella valle del Jacitano, e i cacciatori, o i viandanti che prendevano le scorciatoie, lo vedevano sempre qua e là, come un cane senza padrone. Ei non ci pativa, perché era avvezzo a stare coi cavalli che gli camminavano dinanzi, passo passo, brucando il trifoglio, e cogli uccelli che girovagavano a stormi, attorno a lui, tutto il tempo che il sole faceva il suo viaggio lento lento, sino a che le ombre si allungavano e poi si dileguavano; egli aveva il tempo di veder le nuvole accavallarsi a poco a poco, e figurar monti e vallate; conosceva come spira il vento quando porta il temporale, e di che colore sia il nuvolo quando sta per nevicare. Ogni cosa aveva il suo aspetto e il suo significato, e c’era sempre che vedere e che ascoltare in tutte le ore del giorno. Così, verso il tramonto quando il pastore si metteva a suonare collo zufolo di sambuco, la cavalla mora si accostava masticando il trifoglio svogliatamente, e stava anch’essa a guardarlo, con i suoi grandi occhi pensierosi.
Dove soffriva soltanto un po’ di malinconia era nelle lande deserte di Passanitello, in cui non sorge macchia né arbusto, e nei mesi caldi non ci vola un uccello. I cavalli si radunavano in cerchio colla testa ciondoloni, per farsi ombra l’un l’altro, e nei lunghi giorni della trebbiatura quella gran luce silenziosa pioveva sempre uguale ed afosa per sedici ore.
Però dove il mangime era abbondante, e i cavalli indugiavano volentieri, il ragazzo si occupava con qualche altra cosa: faceva delle gabbie di canna per i grilli, delle pipe intagliate, e dei panierini di giunco, con quattro ramoscelli; sapeva rizzare un po’ di tettoia, quando la tramontana spingeva per la valle le lunghe file dei corvi, o quando le cicale battevano le ali nel sole che abbruciava le stoppie; arrostiva le ghiande del querceto nella brace de’ sarmenti di sommacco, che pareva di mangiare delle bruciate, o vi abbrustoliva le larghe fette di pane allorché cominciava ad avere la barba dalla muffa - poiché quando si trovava a Passanitello nell’inverno, le strade erano così cattive che alle volte passavano quindici giorni senza che si vedesse passare anima viva.
Don Alfonso, che era tenuto nel cotone dai suoi genitori, invidiava al suo amico Jeli la tasca di tela, dove ci aveva tutta la sua roba, il pane, le cipolle, il fiaschetto del vino, il fazzoletto pel freddo, il batuffoletto dei cenci col refe e gli aghi rossi, la scatoletta di latta coll’esca e la pietra focaia; gli invidiava pure la superba cavalla vajata, quella bestia dal ciuffetto di peli irti sulla fronte, che aveva gli occhi cattivi, e gonfiava le froge al pari di un mastino ringhioso quando qualcuno voleva montarla.
Da Jeli invece si lasciava montare e grattare le orecchie di cui era gelosa e l’andava fiutando per ascoltare quello che ei voleva dirle.
- Lascia stare la vajata, - gli raccomandava Jeli, - non è cattiva, ma non ti conosce.
Dopo che Scordu il bucchierese si menò via la giumenta calabrese che aveva comprato a San Giovanni, col patto che gliela tenessero nell’armento sino alla vendemmia, il puledro zaino, rimasto orfano, non voleva darsi pace, e scorrazzava su pei greppi del monte, con lunghi nitriti lamentevoli, e colle froge al vento. Jeli gli correva dietro, chiamandolo con forti grida, e il puledro si fermava ad ascoltare, col collo teso e le orecchie irrequiete, sferzandosi i fianchi colla coda. - È perché gli hanno portato via la madre, e non sa più cosa si faccia - osservava il pastore. - Adesso bisogna tenerlo d’occhio, perché sarebbe capace di lasciarsi andar giù nel precipizio. Anch’io, quando mi è morta la mia mamma, non ci vedevo più dagli occhi.
Poi, dopo che il puledro ricominciò a fiutare il trifoglio, e a darvi qualche boccata di malavoglia, - Vedi, a poco a poco comincia a dimenticarsene.
- Ma anch’esso sarà venduto. I cavalli sono fatti per essere venduti; come gli agnelli nascono per andare al macello, e le nuvole portano la pioggia. Solo gli uccelli non hanno a far altro che cantare e volare tutto il giorno.
Le idee non gli venivano nette e filate l’una dietro l’altra, ché di rado aveva avuto con chi parlare, e perciò non aveva fretta di scovarle e districarle in fondo alla testa, dove era abituato a lasciare che sbucciassero e spuntassero fuori a poco a poco, come fanno le gemme dei ramoscelli sotto il sole. - Anche gli uccelli, - soggiunse, - devono buscarsi il cibo, e quando la neve copre la terra se ne muoiono.
Poi ci pensò su un pezzetto. - Tu sei come gli uccelli; ma quando arriva l’inverno, te ne puoi stare al fuoco, senza far nulla.
Don Alfonso però rispondeva che anche lui andava a scuola, a imparare. Jeli allora sgranava gli occhi, e stava tutto orecchi se il signorino si metteva a leggere, e guardava il libro e lui in aria sospettosa, stando ad ascoltare, con quel lieve ammiccar di palpebre che indica l’intensità dell’attenzione nelle bestie che più si accostano all’uomo. Gli piacevano i versi che gli accarezzavano l’udito con l’armonia di una canzone incomprensibile, e alle volte aggrottava le ciglia, appuntava il mento, e sembrava che un gran lavorio si stesse facendo nel suo interno; allora accennava di sì e di sì col capo, con un sorriso furbo, e si grattava la testa. Quando poi il signorino mettevasi a scrivere per far vedere quante cose sapeva fare, Jeli sarebbe rimasto delle giornate intere a guardarlo, e tutto a un tratto lasciava scappare un’occhiata sospettosa. Non poteva capacitarsi che si potesse poi ripetere sulla carta quelle parole che egli aveva dette, o che aveva dette don Alfonso, ed anche quelle cose che non gli erano uscite di bocca, talché lui finiva per tirarsi indietro, incredulo, e con un sorriso furbo.
Ogni idea nuova che gli picchiasse nella testa per entrare, lo metteva in sospetto, e pareva la fiutasse colla diffidenza selvaggia della sua vajata. Però non mostrava meraviglia di nulla al mondo: gli avessero detto che in città i cavalli andavano in carrozza, egli sarebbe rimasto impassibile, con quella maschera d’indifferenza orientale che è la dignità del contadino siciliano. Pareva che istintivamente si trincerasse nella sua ignoranza, come fosse la forza della povertà. Tutte le volte che rimaneva a corto di argomenti ripeteva: - Io non ne so nulla. - Io sono povero - con quel sorriso ostinato che voleva essere malizioso.
Aveva chiesto al suo amico Alfonso di scrivergli il nome di Mara su di un pezzetto di carta che aveva trovato chi sa dove, perché egli raccattava tutto quello che vedeva per terra, e se l’era messo nel batuffoletto dei cenci. Un giorno, dopo di esser stato un po’ zitto, a guardare di qua e di là soprappensiero, gli disse serio serio: - Io ci ho l’innamorata.
Alfonso, malgrado che sapesse leggere, sgranava gli occhi. - Sì, - ripeté Jeli, - Mara, la figlia di massaro Agrippino che era qui; ed ora sta a Marineo, in quel gran casamento della pianura che si vede dal piano del lettighiere, lassù.
- O ti mariti dunque?
- Sì, quando sarò grande e avrò sei onze all’anno di salario. Mara non ne sa nulla ancora.
- Perché non gliel’hai detto?
Jeli tentennò il capo, e si mise a riflettere. Poi svolse il batuffoletto e spiegò la carta che s’era fatta scrivere.
- È proprio vero che dice Mara; l’ha letto pure don Gesualdo, il campiere, e fra Cola, quando venne giù per la cerca delle fave.
- Uno che sappia scrivere, - osservò poi, - è come uno che serbasse le parole nella scatola dell’acciarino, e potesse portarsele in tasca, ed anche mandarle di qua e di là.
- Ora che ne farai di quel pezzetto di carta, tu che non sai leggere? - gli domandò Alfonso.
Jeli si strinse nelle spalle, ma continuò ad avvolgere accuratamente il suo fogliolino scritto nel batuffoletto dei cenci.
La Mara l’aveva conosciuta da bambina, che avevano cominciato dal picchiarsi ben bene, una volta che s’erano incontrati lungo il vallone, a cogliere le more nelle siepi di rovo. La ragazzina, la quale sapeva di essere “nel fatto suo”, aveva agguantato pel collo Jeli, come un ladro. Per un po’ s’erano scambiati dei pugni nella schiena, uno tu ed uno io, come fa il bottaio sui cerchi delle botti, ma quando furono stanchi andarono calmandosi a poco a poco, tenendosi sempre acciuffati.
- Tu chi sei? - gli domandò Mara.
E come Jeli, più selvatico, non diceva chi fosse: - Io sono Mara, la figlia di massaro Agrippino, che è il campaio di tutti questi campi qui.
Jeli allora lasciò la presa senza dir nulla, e la ragazzina si mise a raccattare le more che le erano cadute per terra, sbirciando di tanto il tanto il suo avversario con curiosità.
- Di là del ponticello, nella siepe dell’orto, ci son tante more grosse; - aggiunse la piccina, - e se le mangiano le galline.
Jeli intanto si allontanava quatto quatto, e Mara, dopo che stette ad accompagnarlo cogli occhi finché poté vederlo nel querceto, volse le spalle anche lei, e se la diede a gambe verso casa.
Ma da quel giorno in poi cominciarono ad addomesticarsi. Mara andava a filare la stoppa sul parapetto del ponticello, e Jeli adagio adagio spingeva l’armento verso le falde del poggio del bandito. Da prima se ne stava in disparte ronzandole attorno, guardandola da lontano in aria sospettosa, e a poco a poco andava accostandosi coll’andatura guardinga del cane avvezzo alle sassate. Quando finalmente si trovavano accanto, ci stavano delle lunghe ore senza aprir bocca. Jeli osservando attentamente l’intricato lavorio della calza che la mamma aveva dato in compito alla Mara, oppure costei gli vedeva intagliare i bei zig zag sui bastoni del mandorlo. Poi se ne andavano l’uno di qua e l’altro di là, senza dirsi una parola, e la bambina, com’era in vista della casa, si metteva a correre, facendo levar alta la sottanella sulle gambette rosse.
Al tempo dei fichidindia poi si fissarono nel folto delle macchie, sbucciando dei fichi tutto il santo giorno. Vagabondavano insieme sotto i noci secolari, e Jeli bacchiava tante delle noci, che piovevano fitte come la gragnuola; la ragazzina si affaticava a raccattarne con grida di giubilo più che ne poteva, e poi scappava via, lesta lesta, tenendo tese le due cocche del grembiule, dondolandosi come una vecchietta.
Durante l’inverno Mara non osò mettere fuori il naso, in quel gran freddo. Alle volte, verso sera, si vedeva il fumo dei fuocherelli di sommacchi che Jeli andava facendo nel piano del lettighiere, o sul poggio di Macca, per non rimanere intirizzito al pari di quelle cinciallegre che la mattina trovava dietro un sasso, o al riparo di una zolla. Anche i cavalli ci trovavano piacere a ciondolare un po’ la coda attorno al fuoco, e si stringevano fra di loro per star più caldi.
Col marzo tornarono le allodole nel piano, i passeri sul tetto, le foglie e i nidi nelle siepi, Mara riprese ad andare a spasso, in compagnia di Jeli, nell’erba soffice, tra le macchie in fiore, sotto gli alberi ancora nudi che cominciavano a punteggiarsi di verde. Jeli si ficcava negli spineti come un segugio, per andare a scovare delle nidiate di merli che guardavano sbalorditi coi loro occhietti di pepe; i due fanciulli portavano spesso nel petto della camicia dei piccoli conigli allora stanati, quasi nudi, ma dalle lunghe orecchie diggià inquiete; scorrazzavano pei campi al seguito del branco dei cavalli, entrando nelle stoppie dietro i mietitori, passo passo coll’armento, fermandosi ogni volta che una giumenta si fermava a strappare una boccata d’erba. La sera, giunti al ponticello, se ne andavano l’una di qua e l’altro di là, senza dirsi addio.
Così passarono tutta l’estate. Intanto il sole cominciava a tramontare dietro il poggio alla croce, e i pettirossi gli andavano dietro verso la montagna, come imbruniva, seguendolo fra le macchie dei fichidindia. I grilli e le cicale non si udivano più, e in quell’ora per l’aria si spandeva come una gran malinconia.
In quel tempo arrivò al casolare di Jeli suo padre, il vaccaro, che aveva preso la malaria a Ragoleti, e non poteva nemmen reggersi sull’asino che lo portava. Jeli accese il fuoco, lesto lesto, e corse “alle case” per cercargli qualche uovo di gallina. - Piuttosto stendi un po’ di strame vicino al fuoco, - gli disse suo padre, - ché mi sento tornare la febbre.
Il ribrezzo della febbre era così forte che compare Menu, seppellito sotto il suo gran tabarro, la bisaccia dell’asino, e la sacca di Jeli, tremava come fanno le foglie in novembre, davanti alla gran vampa di sarmenti che gli faceva il viso bianco bianco come un morto. I contadini della fattoria venivano a domandargli: - Come vi sentite, compare Menu? - Il poveretto non rispondeva altro che con un guaito, come fa un cagnuolo di latte. - È malaria di quella che ammazza meglio di una schioppettata - dicevano gli amici, scaldandosi le mani al fuoco.
Fu chiamato anche il medico, ma erano tutti denari sprecati, perché la malattia era di quelle chiare e conosciute che anche un ragazzo saprebbe curarla, e se la febbre non era di quelle che ammazzano ad ogni modo, col solfato si sarebbe guarita subito. Compare Menu ci spese gli occhi della testa in tanto solfato, ma era come buttarlo nel pozzo. - Prendete un buon decotto di ecalibbiso che non costa nulla, - suggeriva mastro Agrippino, - e se non serve a nulla come il solfato, almeno non vi rovinate a spendere. S...

Table of contents

  1. Copertina
  2. LE PIÙ BELLE NOVELLE
  3. Indice
  4. Intro
  5. LA ROBA
  6. CAVALLERIA RUSTICANA
  7. LA LUPA
  8. NEDDA
  9. ROSSO MALPELO
  10. JELI IL PASTORE
  11. FANTASTICHERIA
  12. L’AMANTE DI GRAMIGNA
  13. Ringraziamenti