Fermo e Lucia
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Fermo e Lucia

Prima versione originale dei Promessi Sposi

Alessandro Manzoni

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Fermo e Lucia

Prima versione originale dei Promessi Sposi

Alessandro Manzoni

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Fermo e Lucia non va considerato come una sorta di “laboratorio” dei Promessi Sposi (1840), bensì come un’opera autonoma, dotata di una sua struttura interna e in qualche modo autonomo dalle stesure successive. Alessandro Manzoni vi si dedicò in tempi alterni fra il 1821 e il 1823. Poi, dopo una versione intermedia del 1927 (la “ventisettana”), l’autore revisionò interamente il testo - soprattutto nel linguaggio (la cosiddetta «risciacquatura in Arno») - e diede vita al più famoso e più letto romanzo della letteratura italiana. In questa edizione, a parte la normalizzazione degli accenti e poco altro, il testo è riportato intatto come nell’originale.

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Information

Year
2019
ISBN
9788834181812

CAPITOLO VIII.

Il mattino vegnente, senza por tempo in mezzo, Don Rodrigo a cavallo, in abito da caccia, col fedel Griso che camminava a fianco del palafreno, e con una quadriglia di bravi, si mosse verso il castello del Conte, come altre volte Giunone verso la caverna di Eolo; se non che la Dea pagava in Ninfe l’opera buona del re dei venti, e Don Rodrigo sapeva bene che avrebbe dovuto recarla a Doppie. La via era di cinque miglia all’incirca; e Don Rodrigo la faceva lentamente, e per dare agio alla scorta pedestre di seguirlo; e perché il cammino quasi tutto montuoso e disuguale e sassoso anche dov’era piano obbligava il ronzino ad andare di passo, e a cercare il luogo dove posare la zampa con sicurezza. I villani che si abbattevano su quella via, al vedere spuntare il convoglio, si ritiravano dall’un canto verso il muro, per dare a Don Rodrigo il comodo d’un libero passaggio; e quando erano giunti al medesimo punto della strada, si ristringevano ancor più al muro, con aria quasi di chiedere scusa a Don Rodrigo d’essersi trovati sul suo cammino. Don Rodrigo che già cominciava a godere nella sua mente un’anticipazione della potenza che gli avrebbe data l’alleanza che andava a contrarre, gli guarda con un volto fosco e sprezzante, come se dicesse: — vi siete rallegrati troppo presto a mie spese; lo so; ma vedrete chi sono —. Giunto dinanzi al convento che si trovava su la sua strada, Don Rodrigo rallentò ancor più il passo, e si rivolse tutto a sinistra, guardando fieramente se mai il Padre Cristoforo girasse fuori del nido: ma non v’era nessuno: la porta della chiesa era aperta, e si sentivano i frati cantare l’uficio in coro. In mezzo alla sua ira Don Rodrigo si risovvenne delle promesse del Conte Attilio, e dei disegni che questi gli aveva comunicati sul modo di liberarlo da quei frate: pensò che in quel momento forse la trappola era già tesa; e passando dalla collera alla compiacenza, fece un sogghigno accompagnato da un «ah! ah!» il cui senso non fu chiaramente compreso che dal fidato Griso; il quale per mostrare la sua sagacità, e per far vedere ai compagni ch’egli era molto internato nei segreti del padrone, si volse a questo pur sogghignando, e facendo col volto un cenno che voleva dire: — a quest’ora il frate sarà servito —.
Pochi passi dopo il convento giunse la brigata ad uno di quei tanti torrenti che si gettano nel lago, dai monti che lo ricingono. Questo si chiamava e si chiama tuttavia il Bione, nome che non si troverà in alcun dizionario geografico; e a dir vero colui che lo porta non merita per nessun verso di esser memorato. Scappa fuori da un monte che è quasi poggiato nel lago, e per un brevissimo e larghissimo letto manda per lo più qualche filo d’acqua, e dopo le grandi piogge, e allo scioglimento delle nevi, mena un largo fiume d’acqua che in un momento si perde, e un flagello di ciottoloni, che rimangono. In quel momento non vi scorrevano che due o tre rigagnoli sparsi in un deserto di sassi: noi avremmo voluto che la nostra storia registrasse a questo passaggio qualche incontro, qualche avvenimento inaspettato, per poterne illustrare quel torrente, e togliere il suo nome dalla oscurità, ma la storia non ne registra: e noi solleciti della verità più che d’ogni altra cosa non possiamo dire altro se non che il cavallo di Don Rodrigo attraversò il letto in retta linea, tenuto pel freno dal Griso il quale dovette porre i piedi nel guazzo, scontando così com’era giusto un poco l’onore di star più vicino al signore; mentre gli altri bravi passarono un po’ più in giù sur un ponticello stretto a piedi asciutti.
Varcato il Bione, andarono per un miglio circa sulla via pubblica che conduce al luogo dove allora era il confine dello stato veneto; e quindi presero un viottolo ripido a sinistra che conduceva al castello del Conte. Appiedi della ultima salita che dava al castello v’era una rozza e picciola taverna; e sulla porta della taverna un impiccatello di forse dodici anni, il quale al veder gente armata entrò tosto a darne avviso; ed ecco uscirne tre scheranacci nerboruti ed arcigni i quali deposte sul tavolo le carte sudice e ravvolte come tegole con le quali stavano giucando; stettero a guardare con sospetto chi veniva. Don Rodrigo aveva già tirata la briglia del suo ronzino per rivolgerlo sulla salita, quando uno dei tre, facendogli cenno di ristare gli chiese molto famigliarmente: «dove si va signor mio, con questa bella compagnia?» In altro luogo ed in altra occasione Don Rodrigo che aveva la superiorità del numero, e che non era avvezzo a sentirsi così interrogare da paltonieri, avrebbe risposto chi sa come; ma egli sapeva di essere negli stati del Conte, e s’avvedeva che parlava con dipendenti da quello, onde fingendo di non trovare nulla di strano in quel modo, rispose umanamente: «Vado ad inchinare il signor Conte».
«E chi è Vossignoria?» replicò l’altro con tuono più amichevole ma non meno risoluto.
«Sono il signor Don Rodrigo...»
«Bene; ma sappia che su per quell’erta non camminano altri armati che quelli del signor Conte; e s’ella vuole riverirlo, potrà venir solo a fare una passeggiata con me».
Don Rodrigo intese che bisognava anche scendere da cavallo, e ricordandosi di quel proverbio: si Romae fueris, romano vivito more, non si fece pregare, e disse: «avrò molto piacere di far questi pochi passi a piede: e voi intanto», disse rivolto alla sua scorta, «starete qui aspettandomi a refiziarvi, e a godere della compagnia di questa brava gente». Mentre quivi si parlamentava, scendevano per l’erta a varie distanze uomini del Conte che dall’altura avevan veduti armati a fermarsi; ma colui che s’era offerto di accompagnare Don Rodrigo, accennò loro che erano amici, e quegli ritornarono. Don Rodrigo sceso, e date le briglie in mano al Griso cominciò a salire con la sua guida; la quale non volendo forse avere offeso un uomo che poteva esser più amico del Conte che non si sapesse, fece una qualche scusa a Don Rodrigo di averlo fatto scendere. «Se il Signor Conte», disse colui, «fosse stato avvertito della sua visita, avrebbe dato ordine perch’ella fosse accolta con le debite cerimonie; perché ella deve sapere quanto il mio padrone sia cortese coi gentiluomini che sanno il vivere del mondo; ma Vossignoria non è aspettata, e noi abbiamo dovuto fare il nostro dovere che è di non lasciar passare a cavallo che gli amici vecchi del signor Conte».
«Certo, certo», rispose Don Rodrigo: «io sono buon servitore del signor Conte, e non pretendo che egli abbia a far complimenti con me».
— Questi è un signore davvero, — pensava tra sé continuando la sua salita Don Rodrigo. — Vedete un po’, come sa farsi rispettare, ed esser padrone in casa sua. S’io volessi fare una legge simile, non so se vi potrei riuscire: ma è poi anche vero che fa una vita da romito. A voler godere un po’ il mondo non bisogna star tanto in sulle sue, né metter tanta carne a fuoco. — Così Don Rodrigo si racconsolava della sua inferiorità; e nel resto del cammino andava rimasticando i discorsi ch’egli aveva preparati pel Conte. Giunti al castello, la guida v’entrò con Don Rodrigo, e lo fece aspettare in una sala, dove stavano sempre servi armati, pronti agli ordini del Conte. Dopo pochi momenti, la guida tornò invitando Don Rodrigo ad entrare dal padrone; e di sala in sala sempre incontrando scherani, lo condusse a quella dove stava il Conte del Sagrato.
Don Rodrigo s’inchinò profondamente con quell’aria equivoca che può egualmente parere bassezza o affettazione, e il Conte che in mezzo a tanti affari non aveva potuto conservare le abitudini cerimoniose di quel tempo, gli corrispose con una leggiera e rapida inclinazione del capo; e gli fece cenno di sedersi sur una seggiola la quale era posta in luogo che dall’altra stanza si potesse scorgere ogni moto di colui che vi era seduto. Dopo molte cerimonie, alle quali il Conte badò poco, Don Rodrigo sedette; e il Conte pure a qualche distanza.
Era il Conte del Sagrato un uomo di cinquant’anni, alto, gagliardo, calvo, con una faccia adusta e rugosa. Si sforzava fino ad un certo segno d’esser garbato, ma da quegli sforzi stessi traspariva una rusticità feroce e indisciplinata.
«Dovrei scusarmi», cominciò Don Rodrigo, «di venir così a dare infado a Vossignoria Illustrissima».
«Lasci queste cerimoniacce spagnuole, e mi dica in che posso servirla».
«Non so se il Signor Conte si ricordi della mia persona, ma io ho presente di essere stato qualche volta fortunato...»
«Mi ricordo benissimo, e la prego di venire al fatto».
«A dir vero», riprese Don Rodrigo «io mi trovo impegnato in un affare d’onore, in un puntiglio, e sapendo quanto valga un parere di un uomo tanto esperimentato quanto illustre, come è il Signor Conte, mi sono fatto animo a venir a chiederle consiglio, e per dir tutto anche a domandare il suo amparo».
«Al diavolo anche l’ amparo», rispose con impazienza il Conte. «Tenga queste parolacce per adoprarle in Milano con quegli spadaccini imbalsamati di zibetto, e con quei parrucconi impostori che non sapendo essere padroni in casa loro, si protestano servitore d’uno spagnuolo infingardo». E qui avvedendosi che Don Rodrigo faceva un volto serio, tra l’offeso e lo spaventato, si raddolcì e continuò: «intendiamoci fra noi da buoni patriotti, senza spagnolerie. Mi dica schiettamente in che posso servirla».
Don Rodrigo si fece da capo e raccontò a suo modo tutta la storia, e finì col dire che il suo onore era impegnato a fare stare quel villanzone e quel frate, e ch’egli voleva aver nelle mani Lucia; che se il Signor Conte avesse voluto assumere questo impegno, egli non dubitava più dell’evento. «Non intendo però», continuò titubando, «che oltre il disturbo, il Signor Conte debba assoggettarsi a spese per favorirmi... è troppo giusto... e la prego di specificare...»
«Patti chiari», rispose senza titubare il Conte, e proseguì mormorando fra le labbra a guisa di chi leva un conto a memoria: «Venti miglia... un borgo... presso a Milano... un monastero... la Signora che spalleggia... due cappuccini di mezzo... signor mio, questa donna vale dugento doppie».
A queste parole succedette un istante di silenzio, rimanendosi l’uno e l’altro a parlare fra sé. Il Conte diceva nella sua mente: — l’avresti avuta per centocinquanta se non parlavi d’ infado e d’ amparo —; e Don Rodrigo intanto faceva egli pure mentalmente i suoi conti su le dugento doppie. — Diavolo! questo capriccio mi vuol costare! Che Ebreo! Vediamo... le ho: ma ho promesso al mercante... via lo farò tacere. Eh! ma con costui non si scherza: se prometto, bisognerà pagare. E pagherò... frate indiavolato, te le farò tornare in gola... Lucia la voglio... Si è parlato troppo... non son chi sono... — Fatta così la risoluzione, si rivolse al Conte e disse: «Dugento doppie, signor Conte, l’accordo è fatto».
«Cinque e cinque, dieci», rispose il conte. E questa, se mai per caso la nostra storia capitasse alle mani di un lettore ignaro del linguaggio milanese, è una formola comune, che accennando il numero delle dita di due mani congiunte, significa l’impalmarsi per conchiudere un accordo. E nell’atto di proferire la formola, il Conte stese la mano, e Don Rodrigo la strinse.
«Le darò», disse Don Rodrigo, «uno dei miei uomini, che conosce benissimo la persona, e starà agli ordini di Vossignoria...»
«Non fa bisogno», rispose il Conte del Sagrato: «mi basta il nome», e qui cavò una vacchetta sulla quale sa il cielo che memorie erano registrate, e fattosi dire un’altra volta il nome e il cognome della nostra poveretta, lo scrisse, e notò pure il monastero.
«Ma non vorrei che nascessero abbagli».
«So quel che posso promettere», rispose il Conte, il quale coglieva ogni destro di dare una idea inaspettata del suo potere e della certezza dei suoi mezzi.
«Certo», replicò Don Rodrigo, «pel Signor Conte non v’è cosa impossibile».
«Ad un mio avviso, ella mandi persone fidate con le dugento doppie, e la persona sarà consegnata».
«Così farò; e mi raccomando... vede bene... non vorrei che... il Signor Conte darà ordini precisi, e impiegherà persone di giudizio».
«Al corpo di mille diavoli! Ella non sa dunque come io son servito: tutti i miei uomini sono ben persuasi che colui il quale in una simile circostanza pigliasse la più picciola libertà, sarebbe punito con le mie mani».
«Non ne dubito», rispose Don Rodrigo.
«Segreto, e fedeltà ai patti!» disse il Conte.
«Son uomo d’onore», rispose Don Rodrigo, e si accomiatò. Uscì del castello, scese alla taverna, trovò la sua scorta, pagò largamente lo scotto, e si avviò verso casa.
Non aveva egli ancora oltrepassata la soglia del castello del Conte, che questi aveva già dato principio all’impresa, prendendo la penna, e scrivendo una lettera a quell’Egidio di Monza, che il lettore conosce, per invitarlo a venire al Castello per un negozio di somma premura.
È d’uopo sapere che il Conte era uno di quei vecchi amici del padre di Egidio coi quali questi aveva mantenuta corrispondenza; anzi era di tutti il più intrinseco e il più riverito. Il giovane Egidio appena rimasto solo aveva implorata l’assistenza del Conte per adempire la vendetta del padre, e il Conte che nel giovanetto aveva già intravedute disposizioni non ordinarie, e che aveva pensato di farne uno degli agenti che teneva in varie parti del paese, lo aveva in quella occasione soccorso di denari e d’uomini, e sempre in seguito gli si era mostrato pronto ad ajutarlo dove fosse stato di mestieri.
Si formò quindi fra loro l’intelligenza di darsi mano a vicenda in ogni occorrenza; nel che Egidio faceva le sue parti con molto zelo, e con una certa sommessione verso il Conte, per la sua età, per la sua fama, e per gli obblighi che Egidio gli aveva, e perché in ogni frangente contava d’avere in lui un difensore invincibile. Per ciò il Conte, quando Don Rodrigo gli parlò di Monza, corse tosto col pensiero ad Egidio, e conoscendo per esperienza la devozione, e risolutezza di lui, sapendo che la sua casa era contigua al monastero, fece ragione che la impresa era come compiuta, e promise a Don Rodrigo con quella asseveranza che abbiamo veduta, e che gli diede una maraviglia non affatto sgombra di diffidenza.
Il messo partì; e il giorno susseguente Egidio si mosse di buon mattino, e verso il mezzogiorno salì in trionfo fino al castello del Conte con due cavalieri, e con quattro pedoni che l’accompagnavano, distinzione riserbata a quegli che erano non solo amici, ma alleati e la gente dei quali era impiegata al bisogno, ad eseguire i disegni del Conte. In fatti gli uomini di Egidio e quelli del Conte s’erano trovati insieme in più d’una impresa, ed erano per lo più antiche conoscenze, e avvezzi in ogni caso a far conto su uno scambievole ajuto. Quindi a misura che Egidio avvicinandosi al castello, incontrava di quei bravi che vi soggiornavano, questi dopo d’aver umilmente inchinato l’amico del padrone, facevano festa pur camminando, al suo corteggio, ed era una ripetuta stretta di mani, e un dare e rendere di saluti a cui si appiccavano i più bisbetici e scomunicati nomi del mondo. «Benvenuto il Tanabuso!» «Bentrovato il Montanaruolo!» «Oh addio, Strozzato!» «Buon giorno Biondino bello!» «Bravo, Nibbione, mi consolo di vederti bene in gamba!» «Eh! Spettinato, grazie al cielo, in gamba, sano e salvo agli statuti di Milano, fin che viene la mia ora!» «Bravo un’altra volta! Ehi! e quel tale che ti faceva l’amore dietro tutte le siepi?» «Mandato a dormire senza cena», rispose il Nibbione, stendendo il braccio sinistro e appoggiando orizzontalmente la mano destra alla guancia. «Bene», rispose lo Spettinato: «così va fatto: meglio pagare che riscuotere». «Così m’ha insegnato mio padre», replicò il Nibbione. Con questi bei ragionamenti giunse la trista brigata alla vista del castello; quivi si trovò il Conte che avendo veduto salire l’amico gli si faceva incontro. Quando Egidio lo scorse, balzò da cavallo, gittò la briglia a uno de’ suoi uomini, e corse a lui: si abbracciarono, entrarono insieme nel castello: gli scherani dell’uno e dell’altro seguitarono riverentemente in silenzio, ed entrati pure in frotta, andarono tutti insieme a gozzovigliare secondo gli ordini dati dal Conte.
Quando i due amici furono soli nella stanza appartata, dove il Conte trattava gli affari più reconditi, scoperse ad Egidio il motivo della chiamata in questo modo.
«Mio caro Egidio, e posso dir figlio. Ho un affare a Monza, pel quale m’è d’uopo un amico fidato, e un uomo destro e valente; e ho posti gli occhi sopra di te».
«Vorrei vedere», rispose Egidio, «chi sarebbe in Monza colui che ardisse vantarsi di esservi più amico di me».
«La mentita gliela darei io», replicò il Conte.
«Ora mettetemi alla prova».
«Ho bisogno di avere in mano una persona», disse il Conte.
«Viva, o morta?» domandò Egidio.
«Viva, viva», rispose il Conte, «è un affare allegro».
«Bene», disse Egidio, «purché non sia il Castellano né alcuno di sua famiglia, né il feudatario, né il podestà, né un ufiziale spagnuolo...»
«Ih! ih!» disse il Conte, «che vorresti tu ch’io facessi di questa gente? Quando io gli avessi tutti in questo castello, farei aprire tutte le porte per lasciarli andare. Non sono buoni da nulla né vivi né morti».
«Che so io?» riprese Egidio: «Bene, purché non sia ancora, né l’arciprete, né tampoco un prete, né un frate, né una monaca, perché non vorrei aver che fare col Cardinale, che sarebbe uomo da mettere a soqquadro tutta Roma e tutta Madrid, finché non ne avesse veduta l’acqua chiara: purché non sia nessuno di questi, vi prometto, umanamente parlando, che siete servito».
«Ebbene», disse il Conte «quello ch’io vorrei che tu prendessi non è nessuno di questi uccellacci che hai nominati: è il più picciolo reatino che tu possa immaginare. Solamente, è rimpiattato in una certa fratta che ci vorrà destrezza assai a cavarnelo».
«Vediamo», rispose confidentemente Egidio.
Il Conte cavò la sua vacchetta, e dopo aver rivolta qualche carta, lesse: Lucia Mondella, e continuò: «è una contadina di questi contorni che si trova in Monza nel monastero contiguo alla tua casa, sotto la protezione della Signora; protezione molto fredda però; e raccomandata al guardiano dei cappuccini».
«Ne ho inteso parlare»; rispose Egidio, il quale ne sapeva sul conto di Lucia molto più del Conte, ma non voleva mostrarsene più inteso, perché i suoi rapporti con la Signora erano un segreto al quale non ammetteva nemmeno gli amici più intrinseci.
«Prendi tu l’impegno?» domandò il Conte.
«Senza dubbio», rispose Egidio.
«E la Signora?»
«La Signora, come vi hanno detto benissimo non si piglia molto a cuore questa donna; così almeno ho inteso dire da quelli di casa mia che bazzicano con l’ortolano, o con qualche altro mascalzone del monastero. E poi, faremo la cosa in modo che né la Signora né altri possa sospettare donde il colpo venga».
«Sai tu ch’ella si allontani dal monastero qualche volta? Hai mezzo per farla uscire?»
«M’impegno di trovarlo. E non vi posso promettere né pel tal giorno, né per la tale settimana; ma piglierò il tempo,...

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Manzoni, Alessandro. (2019) 2019. Fermo e Lucia. [Edition unavailable]. Tiemme Edizioni Digitali. https://www.perlego.com/book/2091785/fermo-e-lucia-prima-versione-originale-dei-promessi-sposi-pdf.

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Manzoni, A. (2019) Fermo e Lucia. [edition unavailable]. Tiemme Edizioni Digitali. Available at: https://www.perlego.com/book/2091785/fermo-e-lucia-prima-versione-originale-dei-promessi-sposi-pdf (Accessed: 15 October 2022).

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Manzoni, Alessandro. Fermo e Lucia. [edition unavailable]. Tiemme Edizioni Digitali, 2019. Web. 15 Oct. 2022.