Italia Antica
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Italia Antica

Storia dell'Italia Antica (dal 2600 a.C. al 1000 d.C.)

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Storia dell'Italia Antica (dal 2600 a.C. al 1000 d.C.)

About this book

Questo volume contempla i primi cinque libri (su un totale di sette più una corposa appendice) della monumentale opera di Cesare Balbo dal titolo Della storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni (1914), dunque riporta i libri che si occupano dell'Italia «antica», esattamente dal 2600 circa avanti Cristo al 1073 della nostra epoca cristiana. In questa edizione il linguaggio del testo è stato interamente (ma prudentemente) attualizzato.

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Information

LIBRO QUINTO: LA SIGNORIA DEGLI IMPERATORI E I RE

(774 d.C. - 1073 d.C.).

1. Carlomagno re [774-814]. - Carlomagno sì che fu vero legislatore, vero e grande rinnovatore ed ordinator di popoli e d’impero, vero e buono intenditore delle condizioni di suo tempo, dei desidèri, delle necessità dei suoi popoli. E così è, che gli ordinamenti di lui durarono gli uni alcuni, altri poi molti secoli, fino al nostro. Durare sempre non è dato a nessuna istituzione umana, è distintivo di quelle divine, anzi di quella sola dalla ragione di Dio destinata a raccoglier nel grembo suo tutte le schiatte e tutti i secoli umani; quella che alcuni effimeri scrittori o politici vanno di dieci in dieci anni predicendo finita, ma che ha già raccolti diciotto secoli e mezzo, e raccoglierà, Dio garante, gli avvenire. Degli ordinamenti umani, all’incontro, i migliori sono fatti insufficienti dai tempi progrediti: e quindi la storia deve sapere insieme ed ammirarli finché furono propizi ai tempi loro, e notare ciò che li fece caduchi, e segnare i tempi quando diventarono inetti. Ciò tenteremo fare qui accennando l’operato di Carlomagno, e più tardi via via. - I Carolingi s’erano innalzati, il dicemmo, come capi del palazzo, maggiordomi, pfalz-graf di quei re franchi oziosi che avevano divise le conquiste di Clodoveo in vari regni, e lasciato dividere ogni regno da parecchi grandi duchi. Quindi, la prima opera di Carlomagno fu sempre tôr di mezzo i duchi che rimanevano potenti, dividere i loro territori in parecchi gau o pagi o comitati sotto altrettanti conti dipendenti direttamente dal re, ma giudice sommo ciascuno nel proprio comitato, e capitano dell’eribanno o raccolta degli arimanni viventi in esso. Era ritorno all’antica costituzione germanica, ordinaria; vivente Carlomagno, vi si trovano poche eccezioni; e queste alle frontiere dove il conte d’un sol comitato non sarebbe stato potente abbastanza contro agli stranieri; e dove perciò furono riuniti parecchi comitati sotto un conte dei limiti ( mark-graf, marchio , marchese), che talora ebbe pure (forse nell’uso più che legalmente) il titolo di «duca». - Ma i maggiori di Carlomagno s’erano innalzati in quei palazzi regi, principalmente come capi dei gasindi o fedeli del re, ai quali si davano quelle terre regie che furono dette «benefici» o «feudi»; e queste terre erano ora tanto più numerose nelle mani di Carlomagno, che egli ebbe tutte quelle e dei regni franchi e del longobardo e dei duchi qua e là aboliti. E seconda opera di Carlomagno fu dunque, distribuire questi benefici o feudi da per tutto ai suoi gasindi o fedeli, che con nome esclusivo si chiamarono ora « bassi », « vassi », «vassalli»; e che, sia dimorando in corte, sia trovando a ciò più profitto, divisero poi quelle terre in simil modo ad uomini loro, detti quindi « vassalli vassallorum » o «valvassori»; i quali poi suddivisero ancora le terre ai «valvassini» via via minori, senza che sia possibile determinare a quanti gradi scendesse tale sminuzzamento. - Chiaro è poi, che tutto ciò era, già fin dal tempo di Carlomagno, una gran dispersione della somma potenza; e Carlomagno, come ogni gran dominatore, sentì certo la necessità di riunirla, centralizzarla. Quindi una terza, una quarta ed una quinta delle opere di Carlomagno: fare visitare di continuo i vari Stati da alcuni suoi grandi detti « missi dominici », superiori e quasi ispettori dei conti e dei vassalli: corrervi egli stesso di sua persona frequente e rapidissimamente, accompagnato d’una schiera eletta di conti e guerrieri palatini, che sono i paladini dei romanzi: e soprattutto, in questi suoi viaggi fermarsi egli due volte all’anno alle due pasque di Natale e di Resurrezione, più sovente al cuor di sua potenza, in Aquisgrana o in altri luoghi del Basso Reno, talora in Italia o agli altri estremi; ed ivi adunare le assemblee nazionali dei grandi, e di quanti minori vi volessero venire a portare domande, doglienze o consigli; men numerosa al consueto, e dei soli grandi l’assemblea di Natale; più numerosa per il concorso universale quella di primavera, detta «campo» or «di marzo» or «di maggio». Ed anche ciò fu rinnovazione degli antichissimi ordini germanici già accennati da Tacito. - Finalmente una sesta ed importante opera politica fu proseguita sempre da Carlomagno: favorire, ingrandire quei papi, quei vescovi, tutti quegli ecclesiastici che avevano aiutata sua casa, consacrati re suo padre e lui, e datagli or l’Italia; e per ciò porre sotto la propria tutela immediata ( mundiburgium ) i benefici posseduti da essi, e darne loro dei nuovi; e in tutto, porre a contrappeso o correttivo della potenza secolare dei conti e dei vassalli la potenza temporale della Chiesa, tanto più grande, che traeva seco tutte le popolazioni antiche romane, galliche od italiche. - Questi furono i sommi capi della politica di Carlomagno; questi gli strumenti di sua grandezza; e questi gli elementi delle dissoluzioni feudali posteriori. - S’intende, che in Italia, paese di conquista, le miserie incominciarono subito; le miserie dei conquistati sono parte fondamentale e perenne della grandezza del conquistatore.
2. Continua. - Quando all’anno 774 Carlomagno giovane di trentadue anni ebbe spogliati i re longobardi, egli regnava su tutta Francia, trai Pirenei, il Reno e le Alpi; su Baviera, Svevia e Turingia; e sull’intero regno longobardo, meno il ducato di Benevento titubante nell’obbedienza. Sul papa, su Roma e sulle città date alla Chiesa romana, dominava come patrizio e donatore. Erano in Italia, sole fuori d’ogni giurisdizione di lui, Venezia, Napoli e le altre città meridionali, Sicilia, Sardegna e Corsica, di nome imperiali-greche, di fatto e secondo le occasioni (Venezia principalmente) indipendenti. Non distrusse dapprima il regno longobardo, non ne tolse i duchi, non vi mutò nulla se non il re, che fu egli. E lasciando solamente un presidio, una schiera di franchi in Pavia, se ne fu del medesimo anno ad una delle sue numerose imprese di Sassonia. E allora, fosse o no per restaurare Adelchi, congiurarono parecchi duchi longobardi; e, dicesi, tutti e tre, quelli di Benevento, di Spoleto e del Friuli, che erano stati i maggiori del regno. - Avvisatone Carlomagno, accorse dal Reno all’Alpi, discese una seconda volta in Italia [principio del 776], si volse contra il duca del Friuli più scopertosi o più pericoloso, lo vinse e fece morire, e prese parecchie città di lui. E allora dicesi distruggesse i ducati, ordinasse i conti; ma si trovano pur tra breve nomati duchi o marchesi non solamente del Friuli, di Spoleto e di Benevento, ma altri ancora; per cui resta dubbio se l’ordinamento dei comitati fosse o così subitaneo come è qui detto, o così costante poi in Italia come nell’interno di Francia. Ad ogni modo, del medesimo anno ei ripartì. - E quattro anni rimase fuor d’Italia, facendo tre imprese contro ai sassoni, ed una in Spagna. Alla quale, fra le altre, andarono (come mille e più anni appresso sotto Napoleone) parecchie schiere longobarde; ed onde tornando poi, toccò Carlo la famosa e sola sua rotta di Roncisvalle, e quella in cui cadde Rutlando, l’Orlando dei romanzi, stavo per dire l’Orlando nostro, fattoci popolare dai nostri poeti. - Ridiscese per la terza volta in Italia [a. 780]; e, lasciando in Francia suo figliuolo primogenito Carlo, condusse seco i due minori, Pipino che fece dal papa incoronare a re d’Italia, e Ludovico a re d’Aquitania. Erano fanciulli di quattro e due anni; per cui, ciò non mutò nulla, ma accenna il principio del disegno di dividere i regni, e forse già di fare loro centro un imperatore. Né si fermò guari in Italia. N’uscì del 781. - Fece poi quattro altre imprese successive contro ai sassoni; i quali, martellati così, parvero pacificarsi, e si fecero battezzare molti, e fra gli altri Vitikindo loro duca, il gran propugnatore di loro indipendenza. - E allora, ornato di nuova gloria, di quella che più rifulge nel corso dei secoli cristiani, che meglio ne segna i progressi, e che, rarissima nei tempi da noi qui corsi, è forse troppo poco cercata negli stessi nostri, in che sarebbe tanto più facile; ornato, dico, della gloria di propagatore della cristianità, Carlo veramente magno ridiscese al centro di questa, a Italia per la quarta volta [a. 786]. E qui fece un’impresa contro al duca di Benevento non assoggettato per anco, e l’assoggettò; ma gli lasciò intero il ducato, e la soggezione non fu durevole né mai compiuta. I duchi longobardi di Benevento sempre vi rimasero duchi, e presero anzi nome di principi; e vi fecero dinastie più o meno indipendenti, secondo le occasioni per tre secoli all’incirca. Carlo poi, risalita Italia, e lasciato a Pavia Pipino il re fanciullo, tornò a Francia. - Quindi mosse a Baviera contra Tassilone duca, genero di Desiderio, mentre il faceva assalir pel Tirolo da un esercito longobardo. E avutolo nelle mani, lo spogliò e fece monaco; e divise pur quel ducato in contadi. Si ebbero a respingere poi una invasione di unni-àvari da Baviera e dal Friuli; ed un approdo di Adelchi e di greci alle coste di Napoli e Calabria; e si allargò il regno fino all’Istria. E per dieci anni poi Carlomagno rimase fuor d’Italia a fare imprese contro agli slavi e agli unni, diventati vicini suoi, poiché era signor di tutta Germania, a reprimere ribellioni di sassoni, ed eresie interne, e ad abbellir Aquisgrana. In Italia l’esercito longobardo l’aiutò più volte contro agli unni, e l’«esercito romano» talora contro ai greci. Morì dopo un lungo pontificato Adriano I [795], quegli che aveva già chiamato Carlo, ed era poi stato sempre amico e quasi luogotenente di lui in Italia; benché pur sempre si dolesse a lui (come s’esprime nelle sue lettere) delle «giustizie non restituite», e vuol dir senza dubbio di quelle città, quali che fossero, che Carlo gli aveva promesse e non date. Successegli Leone III, e pontificò dapprima tranquillamente. Poi, nel 799 (principio di quelle guerre civili che turbarono per secoli Roma mal ordinata tra repubblica, principato del papa, e supremazia imperiale straniera), una mano di potenti romani assalì, prese il papa; il quale, liberato dal duca di Spoleto e da un altro messo regio, rifuggì prima a Spoleto e tra breve a Francia. E già poco prima [797] l’altra signoria che sussisteva ancora di nome in Roma, quella dell’imperatore orientale, aveva sofferto un nuovo crollo, uno scandalo non mai veduto. Irene imperatrice, mal cacciata dal marito Costantino, mal cacciò lui, e si fece imperatrice regnante. Gli eventi precipitavano, le occasioni s’accumulavano ad una nuova grandezza di Carlo. E Carlo, già il vedemmo, non soleva lasciarle passare.
3. Carlomagno imperatore [799-814]. - Fin dal tempo di Pipino, e più in questi di Carlo, tra quelle lettere dei papi che rimangono documento preziosissimo di tutta questa storia sotto il nome di Codice carolingio, si trovano cenni da lasciare credere via via concepito e maturato trai Carolingi e i papi il gran disegno della restaurazione dell’impero occidentale. Ora, aiutato, o, diremo meglio, sofferto dalla Providenza, scoppiò. Carlo ricevette con gran pompa e gran rispetti il papa rifuggito; e con pompa e rispetti ed accompagnamento di vescovi e conti franchi il rimandò restaurato a Roma. Quindi egli Carlomagno (continuando intanto pe’ suoi capitani le guerre di Germania e d’Ungheria) partiva d’Aquisgrana, faceva un giro per sue province francesi, si abboccava a Tours con Alcuino, il maggiore scolastico e filosofo di quell’età, che pare essere stato consultato in tutto ciò; tornava ad Aquisgrana, scese in Italia, si fermava a Ravenna, giungeva a Roma al fine di novembre. Ed ivi teneva primamente un’assemblea di grandi, e vi giudicava (come patrizio e capo della repubblica senza dubbio) i nemici del papa, a cui richiesta li graziava; ed assisteva alla giustificazione del papa stesso, fatta, come fu dichiarato, secondo il costume dei maggiori, con semplice giuramento di lui. - Quindi, al gran dì del Natale 799, assistendo Carlomagno coi due figli suoi Carlo il primogenito e Pipino re d’Italia alla messa, il papa, finita questa, si rivolgeva al re, gli metteva in capo una corona, e gridava, gridando il popolo tre volte con lui: «A Carlo piissimo augusto, coronato da Dio, grande e pacifico imperatore, vita e vittoria»; poi, secondo alcuni, ungeva Carlomagno, e Carlo il giovane designatogli successore. - Così si consumava il più grande evento che sia stato per mille e più anni nella storia europea; quello che la dominò primamente tutta di fatto, poi di nome fino ai nostri dì; quello che, felicissimo come parve senza dubbio a quei dì, fece poi, pur senza dubbio, l’infelicità di molti popoli, ma principalmente degli italiani. Certo, i romani e tutti gli italiani, soggetti al papa, si rallegrarono allora d’avere spogliato ogni resto di dipendenza dall’imperator greco lontano, di non aver più se non quella che già avevano da Carlo, già patrizio, or imperatore. La diminuzione dei gradi di dipendenze è sempre guadagno reale. Ma forse che i romani e gl’italiani, sempre sognatori del rinnovamento del primato antico, sperarono, credettero riaverlo sotto quel nome d’«imperator romano». E forse alcuni altri sudditi di Carlomagno qua e là fecero fin d’allora quell’altro sogno, che vediamo fatto retrospettivamente ai nostri dì stessi da alcuni poeti politici: il sogno, dico, di una cristianità riunita intorno a due centri, due capi, l’imperatore e il papa; il sogno della perfetta feudalità, risalente dall’ultimo valvassino ai valvassori, ai vassalli diretti, ai re, all’imperatore. Ma i fatti, i secoli dimostrarono poi, che tutto questo era un edificio durevole sì, ma poco più che nel nome e nei vizi suoi, non in nessuna delle supposte sue virtù. I due centri, le due somme potenze, mal determinate nei limiti vicendevoli, incominciarono fin d’allora ad urtarsi, e s’urtarono e combatterono per secoli. Gl’imperatori risuscitarono a poco a poco l’antica pretesa imperiale di approvare l’elezione del papa; e i papi, che dal dì del Natale 799 incoronarono gl’imperatori, n’ebbero naturalmente la pretesa di approvare gl’imperatori; e così imperatori e papi dipesero l’un dall’altro continuamente, e dipesero senza riconoscere bene né l’un né l’altro la dipendenza. I re poi, che non debbono, che non possono, per esser re veri, aver superiore, l’ebbero negl’imperatori; le sovranità non furono più sovrane, le nazionalità non compiute. La feudalità sì, se si voglia così dire, si perfezionò, si compì; ma questa fu sventura; sventura la perfezione d’un ordine, in cui non entravano se non i signori, i governanti, fuor di cui erano i governati, i più, il grosso del popolo. E tutto ciò, da per tutto dove s’estesero la potenza, le pretese imperiali. Ma in Italia, sedia sempiterna e reale del papa, sedia nominale e troppo a lungo dei nuovi imperatori, gli urti furono immediati e infinitamente più sentiti; fu sentita e segnata di sventure e sventure ogni elezione d’imperatore, ogni elezione di papi; e ne sorsero cattivi e stranieri imperatori, cattivi e simoniaci e corrotti papi per oltre a due secoli; e poi papi grandi e grandissimi sì, ma allora le contese della Chiesa e dell’Impero, le parti guelfa e ghibellina, la debolezza d’Italia, Italia aperta a nuovi stranieri, Italia divisa, anche dopo caduto ogni nome d’impero, tra nazionali e stranieri. - La storia di quest’età non fa che svolgere i primi dei fatti qui accennati; tutta la rimanente, i successivi. E chi tema nel nostro compendio la preoccupazione della indipendenza, ricorra ad altri. La preoccupazione della indipendenza fu pur anima di tutte le storie nazionali scritte da Erodoto o piuttosto da Mosè in qua. Della sola storia d’Italia si fece sovente un’apologia od anche un panegirico della dipendenza; sappiamo, almeno in ciò, porci al pare degli altri. Usciamo dalla servilità fino a questo punto almeno di pronunciare e lasciare pronunciare la parola d’«indipendenza», nella storia.
4. Continua. - Il novello imperatore romano rimase in Roma il tempo d’inverno che soleva in qualsiasi città, da Natale a Pasqua; e non vi tornò mai più. Aggravato dall’età o dalla dignità, dimorò poi quasi sempre in Aquisgrana sua capitale vera, la nuova Roma o futura Roma, come trovasi alloro nominata. Fece molte leggi dette «capitolari», meravigliose per quell’entrare nei particolari senza perdere i disegni, che è proprio di tutti i grandi. Guerreggiò pe’ suoi figli e capitani con i sassoni, che soggiogò finalmente del tutto; con gli slavi, che tenne di là dell’Elba; con gli unni-àvari, che spinse di là della Theiss; con i musulmani fino in sull’Ebro e sul Mediterraneo, dove costoro pirateggiavano; con i normanni o danesi e scandinavi, che pirateggiavano sulle coste oceaniche. In Italia, Pipino re guerreggiò contra il duca di Benevento, ma senza frutto; contra greci e veneziani, con questo gran frutto per gli ultimi, che tra guerre e paci coll’imperatore occidentale, essi scossero più che mai loro dipendenza dall’orientale. - Nell’806, Carlomagno fece una prima partizione dei suoi regni trai figliuoli, Carlo destinato imperatore e re dei franchi, Ludovico re d’Aquitania, e Pipino re d’Italia. Ma era destinato altrimenti. Morì Pipino a Milano nell’810, lasciando un solo figliuol maschio, Bernardo. Carlomagno fece una nuova partizione nell’811. Ma nel medesimo anno morì senza figliuoli Carlo il giovane, il primo e come pare il più belligero dei suoi figliuoli. Non rimaneva più al vecchio imperatore se non un figliuolo, Ludovico, ch’egli prevedeva probabilmente poco degno di lui. - E perciò forse s’affrettò a fare pace con tutti; coll’imperator greco, da cui fu definitamente riconosciuto l’impero occidentale nell’812; col principe di Benevento, che si riconobbe tributario; e fin con i califfi spagnoli di Cordova. Poi mandò re in Italia il giovane Bernardo. Poi nell’agosto 813, in gran placito ad Aquisgrana, riconobbe a successore in tutti gli altri regni e nell’impero Ludovico; e dicono che (negletto già il papa) gli facesse prendere da sé sull’altare la corona imperiale. E languente fin d’allora, languì quindi pochi altri mesi; e addì 28 gennaio 814 spirò. I posteri unanimi a dargli nome di «magno», mille anni di storia empiuti delle cose bene e mal create da lui, le voci del popolo e la poesia che lo cantano, fanno di lui tali lodi vere, che inviterebbero a tacere anche uno storico retore o panegirista.
5. I Carolingi [814-888]. - Sotto ai Carolingi, principi gli uni miseramente pii, gli altri sfacciatamente scellerati, tutti mediocri, tutti contendenti per li numerosi ed instabili regni in che si divise e ridivise l’impero, e quasi tutti per la dignità d’imperatore che li dominava ed infermava, seguono settantaquattro anni i più poveri che siano stati mai di fatti veramente nazionali. I papi che incoronavano gl’imperatori, i re che entravano in quelle contese di famiglia, furono i soli che operassero. La nazione italiana v’era (e lo vedremo poi), ma non faceva nulla: serviva, soffriva, generava e moriva. Quindi molti abbreviatori, ed anche scrittori distesi di nostre storie, fuggono su tali complicazioni ingrate. A noi pare accennarle, perché sono il carattere principale dell’età; e perché la noia stessa dello scriverle e del leggerle ci farà meglio entrare nella miseria di coloro che le soffrirono. - Ludovico dunque, detto dagli uni «il pio», dagli altri meglio «il bonario», incominciò a imperare solo [814] su tutto l’impero, tranne Italia che era di Bernardo re. Nell’817 egli spartì i regni ai suoi tre figli: Baviera a Lotario suo primogenito che associò all’impero, Aquitania a Pipino, Francia (tutta o parte) a Ludovico, rimanendo Italia a Bernardo. Ma questi pretende egli all’impero, s’apparecchia con gl’italiani, vede non esserne sostenuto (come era naturale, poiché non era causa nazionale), s’arrende, va a Francia, v’è giudicato in placito ed accecato, e tra l’incrudelito supplizio muore. Ne pianse il Bonario, e manda a succedergli Lotario, re così d’Italia e Baviera. Nell’822, l’imperatore fa penitenza pubblica della morte di Bernardo, in dieta ad Attigny. Nell’829, natogli un nuovo figliuolo, Carlo, gli fa un regno di pezzi stracciati da quelli degli altri. Costoro si ribellano nell’830, fan guerra al Bonario, lo prendono; poi, tra loro discordie, il lasciano restaurare. Nell’ 833, l’imperatore muove contra Pipino, lo spoglia d’Aquitania che dà a Carlo. Nuova sollevazione dei tre re; gli eserciti sono in presenza, il Bonario è abbandonato dal suo; e quindi tratto a fare nuova e vergognosa penitenza a Compiègne, e poi dato in mano a Lotario imperatore aggiunto e re d’Italia. Nell’834 è restaurato, e tocca a Lotario a domandargli perdono. Nell’835 è annullato quanto era stato fatto contro a lui; nell’837 ei dà quasi tutta Francia a Carlo, suo figlio ultimo e diletto. Nell’839 (morto già Pipino d’Aquitania) egli spartisce un’ultima volta gli Stati; e ne rimangono, imperatore e re d’Italia con parte di Francia Lotario, re di Francia con molta Germania Carlo, re solamente di Baviera Ludovico. Questi se ne lagna e ribella, ma è vinto; e Ludovico muore nell’840. - In Italia, suddita insieme di Ludovico imperatore primario e di Lotario imperatore aggiunto e re, noteremo che i papi incoronarono l’uno e l’altro, ed a vicenda domandarono sempre o quasi sempre ad essi le conferme di loro elezioni; che essi i papi, e i vescovi, e gli abati si frammischiarono in quelle guerre di famiglia e v’accrebbero loro autorità; che contesero tra sé papi e vescovi di Ravenna, papi e romani in Roma, e le due parti greca e franca in Venezia. E guerreggiassi trai principi di Benevento e le città greche, Napoli, Amalfi ed altre. I saracini infestarono mare e marine. Bonifazio, conte di Lucca e forse marchese di Toscana, fu con un naviglio ad infestarli essi in Africa. Ma, intorno all’828, Eufemio, un greco di Sicilia, innamorato d’una fanciulla (monaca dicono alcuni), e minacciato di perderla, fugge ai saracini, li invita, li trae, li aiuta a Sicilia ed essi in pochi anni se ne fan signori; e quindi infestano peggio che mai le marine italiane; e Gregorio IV, papa, rifà Ostia per guardare contro essi le bocche del Tevere. Né, oltre a tali fatti, è altro più importante a notare, che un capitolare dell’829; il quale ordina studi centrali di varie province (quasi già università) in Pavia, Ivrea, Torino, Cremona, Firenze, Fermo, Verona, Vicenza e Cividal del Friuli.
6. Continua [840-888]. - Seguono contese di re, miserie di popoli, peggio che mai. - Lotario rimasto imperatore primario (perciocché oltre la confusione di tutti quei gradi di sovranità non sovrane che dicemmo, essendo pur questa degli imperatori in primo ed in secondo, ei ci è forza distinguere), Lotario, dico, va in Francia e Germania contro ai fratelli Carlo il calvo e Ludovico, e ne tocca una gran rotta a Fontenay. Si ripacificano i tre [843] a Verdun, e Lotario n’ha oltre Italia tutta Francia occidentale. Nell’844 egli fa dal papa incoronare re di Italia Ludovico II suo figliuolo, e nell’849 l’associa all’impero; e morendo poi nell’855, lascia gli altri Stati agli altri due suoi figliuoli, Lotario e Carlo. Durante questo regno, nuove guerre dei duchi di Benevento e di Spoleto, e delle città greche e dei saracini, e nuovi turbamenti in Roma. I saracini vengono fino a questa, e depredano a San Pietro e San Paolo, ambe allora fuor delle mura; re Ludovico accorre, allontana la guerra; si cingono di mura le due basiliche; e il quartier di San Pietro ne prende da papa Leone IV il nome di «città leonina». - Ludovico II succede dunque alla dignità d’imperatore primario, ma alla sola potenza reale di re d’Italia con Provenza. E così attese all’Italia, fu re più italiano che gli altri; meno male quando un re straniero ha nazionali il più degli Stati. Risedette in Pavia, l’antica capitale. Guerreggiò nel Friuli contra gli slavoni invadenti; e, durante quasi tutto il regnare suo, guerreggiò contro ai saracini, alle città greche e al duca di Benevento. Prese Capua, Bari; fu fatto e rimase alcuni giorni prigione del duca; alcuni normanni infestarono quelle marine. Morì nell’875 senza figliuoli maschi. - Accorrono alla successione dell’impero e del regno d’Italia Carlo il calvo re di Francia, Carlo e Carlomagno figliuoli di Ludovico re di Germania. Ma Carlo il calvo se ne libera per allora; ed è incoronato imperatore a Roma da papa Giovanni VIII, e poi re a Pavia. Ripassa in Francia, ritorna in Italia contro Carlomagno tornatovi; n’è cacciato, e fuggendo pel Moncenisio, muore lì nell’877. E continuano le depredazioni dei saracini, le guerre complicate al mezzodì. - Carlomagno regna allora in Italia e l’anno 879 s’associa Carlo il grosso suo fratello già re di Svevia, e muore nell’880; e continuano i saracini, le guerre di mezzodì, e i turbamenti di Roma. - Rimasto solo re d’Italia Carlo il grosso, prende l’impero vacante da tre anni, ed è incoronato dal papa. Nell’882 ei succede all’altro suo fratello Luigi, e così riunisce, oltre Italia, tutta Germania. E nell’884 succede a Carlomagno cugino suo re di Francia; per cui egli riunisce, terzo dopo Carlomagno e Ludovico il bonario, tutto l’impero. Sarebbe potuto credersi, che n’uscisse una restaurazione di questo; n’uscì la rovina ultima. La quale attribuita da quasi tutti all’incapacità di Carlo il grosso, deve forse attribuirsi anche più alla tendenza naturale che avevano le diverse nazioni europee a ricostituire le loro nazionalità, or riunite or divise ma sempre offese contro la natura delle schiatte e dei limiti, da tutti i Carolingi. Nessuna causa più di questa operò a fare finir così presto e così male quella dinastia già così grandemente iniziata e dilatata in tutta la cristianità. E noi viventi vedemmo una simile causa produrre un simile effetto, anche più presto. Le nazionalità poterono sì estinguersi nell’antiche barbarie, e talora nelle stesse antiche civiltà, perché queste erano poco meno che barbare. Ma la civiltà cristiana, nelle stesse sue età dette «barbare» od «oscure», e tanto più nelle progredite, fu sempre ed è tale, che non somministra mezzi alle distruzioni delle nazionalità, non lascia possibili (almeno nel proprio seno) quelle estreme barbarie che sono a ciò necessarie. - Le nazionalità cristiane si comprimono, ma non si distruggono; e le compresse si vendicano, sempre occupando e scemando le forze ai compressori; e talora poi abbattendo...

Table of contents

  1. Copertina
  2. ITALIA ANTICA
  3. Indice
  4. Intro
  5. LIBRO PRIMO: I POPOLI PRIMITIVI
  6. LIBRO SECONDO: IL DOMINIO DELLA REPUBBLICA ROMANA
  7. LIBRO TERZO: GLI IMPERATORI ROMANI
  8. LIBRO QUARTO: I BARBARI
  9. LIBRO QUINTO: LA SIGNORIA DEGLI IMPERATORI E I RE
  10. Ringraziamenti