Apologia del Buddhismo
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Apologia del Buddhismo

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Il buddhismo (in sanscrito: buddha-??sana), o più comunemente buddismo, è una delle religioni più antiche e più diffuse al mondo. Originato dagli insegnamenti dell'asceta itinerante indiano Siddh?rtha Gautama (VI, V sec. a.C.), comunemente si compendia nelle dottrine fondate sulle quattro nobili verità (sanscrito: Catv?ri-?rya-saty?ni). Carlo Formichi (Napoli, 14 febbraio 1871 – Roma, 13 dicembre 1943) è stato un grande orientalista italiano

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L’efficacia morale del Buddhismo

La gloria maggiore del Buddhismo è nella persona del suo fondatore. Su questo punto il consenso è universale. Un’eccelsa, quasi divina, figura, che sfida tempo e spazio ed estorce rispetto ed ammirazione anche dai più renitenti, è il giovane principe degli Çâkya del quale, non già la leggenda, ma la storia narra che nella pienezza dei godimenti sensuali e delle lusinghe del potere e della gloria, intuì il dolore mondiale, provò un palpito potente di commiserazione, arse d’amore per tutti gli esseri in guisa tale che la fiamma dette luce, il fervore del sentimento si convertì in fulgore di pensiero creando il più perfetto connubio che sia mai stato di cuore e di cervello. Lucere et ardere perfectum est ha detto San Bernardo: è quello che fece il Buddha. Salvo che egli prima arse e poi splendette, sicchè noi, tanto lontani da lui, ne vediamo la luce, ma non ne sentiamo il calore. Sarà perciò lecito dubitare del suo calore? Vorremo credere che le stelle non siano fuoco unicamente perchè non ci riscaldano?
Che cosa riluce che prima non arda?
Siddhârtha, il giovane principe degli Çâkya, abbandonò la reggia per una cella d’eremita, fuggì via dai genitori, dalla consorte e dal figliuolo per meditare nella solitudine, prestare orecchio di docile discepolo agli insegnamenti delle più reputate scuole filosofiche dei suoi tempi, sottoporsi ai più audaci digiuni e cilizi nell’illusione che macerando la carne potesse lo spirito meglio sfavillare. Dopo esser passato per tutte le lotte del dubbio, per tutte le esperienze più esasperanti della vana ricerca del vero e della sfiducia nella capacità del proprio intelletto a squarciare il velo del mistero delle cose, finalmente la verità gli si rivelò mentre stava seduto sotto un albero, tutti i dubbi svanirono, una pace ineffabile lo pervase che mai più l’abbandonò e della quale abbiamo ancora un ricordo in quel lieve sereno sorriso che illumina quasi tutte le più belle sue effigie marmoree a noi pervenute. Il resto della sua vita fu dedicato alla predicazione, a edificare e monaci e laici coll’esempio della purezza dei pensieri delle parole e delle azioni, con la pratica della tolleranza più benevola verso tutte le opinioni, col titanico incessante conato di trasformare il proprio cervello in una polla a getto continuo di pensieri profondi ed originali. A ottant’anni chiuse gli occhi per sempre. Era nato nel 560 av. C. e morì dunque nel 480. Sono circa venticinque secoli che la fama di questo uomo straordinario riempie di sè il mondo ammirato, nè accenna certo a diminuire, chè anzi negli ultimi tempi tende ad espandersi nel nostro occidente nonostante la guerra sorda o dichiarata dei proseliti di altre religioni.
Una religione capace di produrre non fosse che un uomo solo dell’altezza del Buddha, già si raccomanda da sè quanto ad efficacia morale, e bene può affermarsi ed è utile ripetere che la gloria maggiore del Buddhismo è nella persona del suo fondatore.
Il Buddha è una delle più grandi figure della storia mondiale, è fuori della portata della calunnia e del livore, talchè ogni manata di fango che un sacrilego s’attenti di gettargli addosso, non arriva nemmeno a sfiorarlo, ma torna indietro ad imbrattare chi la scagliò.
Eppure la volgarità, infrantasi mille e mille volte contro la maestosa rupe granitica e mille e mille volte costretta a ritirarsi da essa con umiliazione e vergogna, è riuscita in un sol punto a far sembrare intaccato il granito.
«Il grande, il sublime Buddha» va a gran voce gridando la gente volgare «morì d’una indigestione, per aver mangiato troppa carne di maiale!». Già il buon senso dovrebbe suggerire che un’asceta come il Buddha, e per giunta a ottant’anni, non poteva commettere un peccato di gola. Esclusa l’idea ch’egli abbia ecceduto nel mangiare, un santo diventa forse meno venerabile se un cibo cattivo gli nuoce e lo ammazza? C’è dunque anche fra le malattie una gerarchia, e si può sapere quali sieno le più nobili e quali le meno nobili, quali quelle che si convengono e quali quelle che non si convengono a spegner l’esistenza d’un profeta, d’un filosofo o d’un re?
È o non è una suprema volgarità il ridere intorno alla morte del Buddha?
Ma poichè nulla è tanto incurabile quanto la volgarità, le sguaiate e petulanti risa non cesseranno mai, posto che il Buddha morì realmente d’una indigestione.
Per fortuna, si può anche su questo particolare ridurre al silenzio lo stolto ed invido schiamazzo e dimostrare che il trapasso del santo degli Çâkya non fu dovuto ad una scorpacciata di carne di porco, non ebbe nulla di plateale e di spoetizzante, ma fu quale si conveniva al Savio immacolato, all’Eroe del pensiero, all’Evangelizzatore delle verità schiudenti la porta del Nirvâ na [1] , al Maestro incomparabile degli uomini e degli dei.
I testi canonici sono tutti concordi nel riferirci l’epilogo della vita del Buddha, ma, come di consueto, non sono sempre espliciti e chiari, almeno per noi nuovi a quel remoto ambiente spirituale e a quella mentalità tanto originale e profonda. I testi canonici non vanno letti una volta nè due nè tre superficialmente, ma vanno interpretati con cura, vagliati e meditati. Essi non sono un’arietta piana e spontanea che basti udire una volta per potere riprodurre fischiando ma piuttosto una polifonia complessa di cui l’orecchio percepisce l’insuperabile armonia solo a poco a poco e con uno sforzo di fede, d’amore e di pazienza.
Offriamo qui in succinto la narrazione dei testi canonici scrivendone in carattere diverso i punti piĂš salienti:
«L’Eccelso venuto nel villaggio di Beluva a trascorrervi la stagione delle pioggie, fu colto da una grave malattia. Violenti dolori insorsero che gli fecero rasentare la morte. Vigile e cosciente egli lasciò ad essi libero il campo senza lasciarsi perturbare lo spirito. Non stimando opportuno di entrare nel Nirvâna, stabilì di soggiogare con la forza del volere la malattia, e di mantenersi in vita. Quando Ananda, il suo diletto discepolo, lo vide alzato di letto e guarito, e gli manifestò la gioia di poterlo ancora udir parlare al sodalizio dei monaci, il Maestro gli fece osservare che ormai non gli restava più nulla da dire, che a ottant’anni, vecchio ed infermo, egli sentiva il corpo divenuto quasi un carro sconquassato cui altri tenga ancora insieme artificialmente con cordami, che infine solo emancipandosi da ogni percezione e sensazione e concentrando potentemente e a lungo lo spirito, gli riusciva di non accorgersi del peso del corpo. Cercate, dunque, in voi stessi, continuò a dire l’Eccelso, luce e rifugio, cercate luce e rifugio nella dottrina del vero.
Il giorno dopo vestitosi di buon mattino, andò per la questua a Vesâlî, e quando fu tornato, volle recarsi, in compagnia di Ananda, a Câpâla-Cetiya. Quivi giunto, rivolgendosi al discepolo, fece un’allusione alla propria forza soprannaturale di potere, volendo, restare in vita un evo cosmico, Ma il discepolo, dominato in quel momento da Mâra, genio della morte e del male, non capì l’allusione nè pregò il Maestro di prolungarsi la vita per la salute, il conforto ed il bene degli dei e degli uomini. L’Eccelso allora congedò Ananda perchè attendesse ai fatti suoi, e appena Ananda si fu allontanato, ecco Mâra avvicinarsi all’Eccelso, e rammentargli la promessa che egli, l’Eccelso, sarebbe uscito di vita come prima avesse raggiunto la mèta di formare discepoli saggi, istruiti, conoscitori ed osservanti della dottrina, capaci di difenderla e propagarla. Essendoci tali discepoli, a che più indugiare a morire?
E a quel malvagio il Maestro rispose che lo avrebbe appagato e che di lĂŹ a tre mesi sarebbe partito da questo mondo.
A Câpâla-Cetiya, dunque, rinunziò l’Eccelso, conscientemente e con spirito sereno, a voler più oltre vivere. E non appena ebbe fatta tale rinunzia, tremò la terra formidabilmente ed echeggiarono i tuoni, trombe degli dei.
Spaventato da quel terremoto, Ananda trasse subito verso l’Eccelso a chiederne la causa, e seppe che trema la terra ogni volta che un Buddha nasce, ogni volta che raggiunge la Suprema Verità, ogni volta che rinunzia a voler più oltre vivere, ogni volta che entra nel Nirvâ na. Ed il Maestro aggiunse pure d’aver promesso a Mâra che di lì a tre mesi sarebbe entrato nel Nirvâ na.
Ananda allora lo scongiurò di prolungarsi la vita, valendosi delle sue forze soprannaturali, per la salute, il conforto ed il bene degli dei e degli uomini. Ma tale preghiera venendo troppo tardi, l’Eccelso rimproverò Ananda di non avergliela rivolta a tempo: egli ormai aveva rinunziato alla vita e di lì a tre mesi sarebbe indubbiamente partito da questo mondo. Separarci, inoltre, dobbiamo da tutto ciò che ci è caro e ci riesce giocondo, e non è possibile che quel che è nato, diviene, ha natura di fenomeno ed è per ciò stesso soggetto a perire, infine non perisca.
Dopo aver parlato così ad Ananda, si recò nel Gran Bosco e fatti adunare nella sala Kûtâgâra quanti monaci gli fu possibile, tenne loro una predica, di cui le ultime parole furono: vi dico, monaci, che tutte le forme sono labili. Non vi stancate mai di lottare. Il Nirvân a dell’Eccelso tra breve si avvererà.
Di qui a tre mesi l’Eccelso entrerà nel Nirvân a.
Il giorno dopo vestitosi di buon mattino, andò per la questua a Vesâlî, e quando fu tornato guardò da lontano la città, e disse ad Ananda: questa è l’ultima volta che l’Eccelso guarda Vesâlî. Orsù rechiamoci a Bhandagâma.
Da Bhandagâma, dove tenne due prediche, passò a Bhoganagara, e da questa città finalmente a Pâvâ. Il fabbro Cunda, saputo dell’arrivo del Maestro e dei suoi monaci, si affrettò a rendergli onore e lo pregò di voler pranzare col suo sodalizio la mattina seguente da lui. Il Buddha, secondo era suo costume, assentì tacendo. E il fabbro Cunda, la mattina seguente fece preparare cibi scelti, solidi e liquidi, ed abbondanza di sûkara-maddavam. E andò ad annunziare al Buddha che il desinare era pronto. E il Buddha, seguito dai suoi monaci, trasse verso la dimora di Cunda, il fabbro, e postosi a sedere a tavola, disse al padron di casa di voler esser solo lui a mangiare del sûkara-maddavam e che l’altra roba, solida e liquida, fosse imbandita ai monaci. E Cunda così fece. Mangiato che ebbe di quella pietanza, l’Eccelso rivoltosi a Cunda gli ordinò di seppellire in una fossa quanto restava del sûkara-maddavam, perchè egli l’Eccelso, non conosceva fuori di sè stesso, nessuno nell’universo, nemmeno gli dei, nemmeno Mâra, nemmeno Brahma, e a che parlar di uomini, capaci di digerir quel cibo.
E Cunda andò a sotterrare in una fossa quanto era avanzato del sûkara-maddavam; poi tornò presso l’Eccelso che lo istruì, incoraggiò, esortò e confortò con discorsi spirituali.
Se non che, mangiato che l’Eccelso ebbe il cibo servitogli dal fabbro Cunda, ei fu colto da una grave malattia, dal flusso dissenterico. Violenti dolori insorsero che gli fecero rasentare la morte. Vigile e cosciente egli lasciò ad essi libero il campo senza lasciarsi perturbare lo spirito.
E disse ad Ananda: andiamo a Kusinârâ. E per via sentendosi stanco, si pose a sedere sotto un albero, e chiese da bere. Ma l’acqua del ruscello vicino essendo scarsa e torbida, poi che ben cinquecento carri lo avevano allora attraversato, Ananda pregò il Maestro di dissetarsi più in là dove scorrevano le abbondanti e limpide acque del fiume Kakutthâ. Ma il Buddha insistette, sicchè il discepolo trasse con la brocca verso il ruscello; e quale non fu la sua maraviglia nel vederne la magra e torbida vena diventata, per il potere miracoloso dell’Eccelso, chiara, fresca e pura! E il Buddha bevve di quell’acqua.
In quel momento sopraggiunse un discepolo di A lâra Kâlâma, di colui che era stato maestro anche del Buddha, e cominciò ad esaltare la virtÚ di concentrazione di quel santo, il quale una volta non aveva udito il fracasso di cinquecento carri che gli erano passati davanti, tanto era profondamente immerso nelle sue meditazioni.
Ed io, replicò l’Eccelso, una volta non udii il rimbombo di pioggia dirotta, nè vidi i lampi e le folgori che schiantarono due alberi e ammazzarono quattro buoi vicino a me, tanto ero profondamente immerso nelle mie meditazioni.
All’udire un tanto miracolo quel discepolo di Alâra Kâlâma abjurò il suo credo, si fece laico buddhista, e regalò all’Eccelso due splendidi vestiti rilucenti come l’oro. Tosto che Ananda ne fece indossare uno al Buddha, ecco che la stoffa pur dianzi tanto smagliante, perdette tutto il suo lustro, sopraffatta com’era dallo scintillio della pelle del Maestro. E questi allora, a far cessare lo stupore del discepolo, disse: in due occasioni, o Ananda, diventa tersissima e rilucente la pelle di un Buddha, la notte, cioè, in cui gli si rivela il Supremo Vero, e la notte in cui egli entra nel Nirvân a. Nell’ultima vigilia della notte vegnente, avverrà la mia dipartita nella foresta di Sâla, fra due di questi alberi gemelli. Andiamo, o Ananda, verso la fiumana Kakutthâ.
E l’Eccelso, infatti, seguito da una lunga schiera di monaci, si avviò verso le sponde d...

Table of contents

  1. Copertina
  2. Apologia del buddismo
  3. Indice
  4. La misura del valore di una religione
  5. L’efficacia morale del Buddhismo
  6. I conforti religiosi del Buddhismo
  7. Il Buddhismo nelle sue relazioni con la scienza
  8. Il Buddhismo e le esigenze della SocietĂ  e dello Stato