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Edgar Allan Poe
About this book
Pierangelo Baratono dedica questa delicata biografia lirica al maestro dell'horror Edgar Allan Poe (1809-1849). Poe è considerato uno dei più grandi e influenti scrittori statunitensi della storia, nonché l'iniziatore del racconto poliziesco, della letteratura dell'orrore e del giallo psicologico. In questa edizione il testo è stato controllato e prudentemente attualizzato.
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Information
Publisher
Tiemme Edizioni DigitaliYear
2019eBook ISBN
9788834197448EDGAR ALLAN POE
Com’è inzuccherato e salutifero il precetto: La virtù sta nel mezzo! Deve aver nitrito di letizia, puledro su verde praticello, colui che, per il primo, divinò questo rimedio per ogni cruccio, questo succoso impiastro per ogni ferita! Poiché la virtù sta nel mezzo, solo chi rimanga nel mezzo è virtuoso. Magnifico assioma, che libera l’infinito stuolo dei mediocri dalle melanconie dei desideri vani e dai rodimenti della bile. E non importa che l’umanità , così livellata, diventi grigia moltitudine di formiche in attesa del colpo di scopa della morte e del capitombolo negli abissi del nulla. Non importa che il nostro globo sia qualcosa più di un formicaio appunto perché, di tempo in tempo, dalle sue viscere nascono creature destinate a sbeffeggiare l’assioma e a mostrare l’inganno della panacea. Di secolo in secolo, la formuletta consolatrice è impiastro alle ferite di una mediocrità tormentata da desideri inutili e da travasi di bile. E di secolo in secolo, nelle case virtuose, una teca, poggiata sopra un altarino, le serve di scrigno: e fiori di carta la fiancheggiano e ceri accesi le offrono tributo di devozione e di fumo.
È così dolce e semplice e facile, la virtù! È così dolce guardare, dal fresco propileo, quell’insolente chiacchierone di Socrate, che s’avvia sereno verso il tribunale e la condanna! È così semplice togliere un pane dalla ricca mensa e porgerlo, condito di sogghigni, all’iroso cipiglio di Dante! È così facile, sorbendo una tazza di camomilla in crocchio di persone morigerate, commentare, fra lazzi e risa, i torbidi amori di Baudelaire, i passi malcerti di Verlaine!
O cara placida virtù, che procedi, avvolta entro un verecondo sudario, verso il sudario definitivo! Lenta cammini, con i piedi ben caldi nelle pantofole imbottite: e ignori gli squassi di chi senta la vita troppo angusta per gli ampi voli dell’immaginazione; e non temi i pericoli, cui muove incontro chi non vada adagio, come fai tu, ma corra e si scagli. Eppure, a volte, qualcosa di simile a un desiderio ti punge gli stinchi pigri e un barlume di pena ti guizza nel cerebro nebbioso e una specie di rimpianto ti gonfia il minuscolo cuore. Non vergognartene, o virtù, poiché questi sono i segni di un destino, al quale tu hai rinunciato per fiacchezza o paura. E i tuoi stinchi e il cuore e il cervello sanno che, nonostante la formuletta, solo all’uomo, fra tutte le creature terrestri, è dato di non morire: ma all’uomo che, spregiando le tue panacee, si avventi, col corpo e con l’anima, verso i rischi e le glorie di una vita eccessiva.
La tua, o virtù, è una fatica di Sisifo. Invano, di secolo in secolo, porgi la tazza della cicuta o il pane dell’elemosina o il dileggio della stoltezza. L’umanità continua a sussistere per gli uomini, che tu hai uccisi col veleno o col sarcasmo. L’umanità non sei tu: è Socrate, è Dante, è Baudelaire. E tu, puritana mediocrità assillata dagli scrupoli e dai timori, sei soltanto la penna, che scrive quei nomi sulle pagine della storia. Rimani, dunque, alla tua comoda finestra, o virtù. E se udrai salir dalla strada la rauca voce di De Musset ebro o vedrai passare Oscar Wilde a braccetto di lord Alfredo Douglas, ridi, ridi forte, ridi liberamente. Così, acqueterai l’uggia, che in fondo in fondo tu provi, di non poter distillare, dalle vinacce delle tue cantine, una Confessione di un figlio del secolo o di non poter raccogliere, dal fango dei tuoi vizi mediocri, una Ballata della prigione di Reading.
Ma tu continui, imperturbabile, a falciar tragiche vittime e a piangere, ipocritamente, sopra le tombe, scavate dalle tue stesse mani. Non pietà né scrupoli ti trattengono: e il tuo volto terreo che, sopra la fronte sfuggente, mostra impresso l’assioma «La virtù sta nel mezzo», non conosce la porpora della vergogna. E, tuttavia, tu impallidisci se qualcuno, drizzandosi davanti a te e sfidando la tua maligna acredine e il tuo cupo livore, legga i grandi atti di accusa della storia e ti rammenti con voce commossa la nobiltà delle tue vittime e le miserie della loro esistenza.
La nobiltà e le miserie di un Edgar Allan Poe, per esempio.
Una comitiva di attori passa, peregrinando di città in città , a traverso gli Stati Uniti d’America. Sono, quelli, gli anni febbrili, in cui un popolo di emigranti e di avventurieri tenta i primi sforzi per imporsi, come una giovane stirpe, alla vecchia Europa. Sul nuovo carro di Tespi, fra gli smunti e tetri compagni, dominano le grazie e trabocca la vivacità di una donna. Al suo fianco sta il marito, David Poe, che rinunciò alla monotona esistenza borghese per divenire un randagio commediante e apportare, nel branco istrionico, la propria melanconica fierezza e un nome, reso illustre dal padre nella guerra per l’indipendenza americana.
Festose accoglienze ha, dovunque, l’attrice. Ma quanta miseria, nella cameretta di Boston, ove essa, il 19 gennaio 1809, dà alla luce Edgar Allan Poe! Spossata dalle grandi interpretazioni shakespeariane, troppo grevi per la sua fragilità fisica, e dalle studiose vigilie e dalle attese pavide e dalla fugacità dei trionfi e dal perdurare degli stenti, la giovane donna vivrà ancora due anni soltanto: e a lei il marito, etico, sopravviverà solo per pochi giorni.
Tre bimbi rimangono, privi d’ogni aiuto: e si spegnerebbero anch’essi, nell’inedia e nell’abbandono, se qualche pietoso non intervenisse a raccoglierli e ad ospitarli. Il maggiore d’età , William, dotato di forte ingegno e di accesa fantasia, avrà un’esistenza turbolenta ed avventurosissima, che lo sbalestrerà in ogni parte d’Europa, ma lo farà morire, prematuramente, a ventitré anni. L’ultima, Rosalia, vivrà invece a lungo: fra le penombre e le nebbie di un’ottusità mentale inguaribile. Il secondo, Edgar, soccorso dalla dolce bontà di una donna, è adottato come figlio dal marito di questa, Allan, proprietario di un umile negozio di tabacchi, a Richmond. Cresce, il fanciullo, fra tenere cure e vezzeggiamenti: ma non tarda a mostrar chiaro precoce segno del proprio cupo destino. Sin da quei primi anni, di fatti, egli ospita, nel fondo dell’anima, il germe della sensibilità e della melanconia, che dovranno, poi, stimolarlo alla contemplazione lirica dell’amore e della morte, uniti l’uno all’altra indissolubilmente, e renderlo uguale a Leopardi nell’inspirazione funerea e nel disperato dolore. Una carezza femminea casta e lieve, sfiorando la ricciuta chioma del fanciullo, basta per svegliare la sua impressionabilità e per rivelargli la sorte che, fra le tenebre del futuro, lo attende. Ma la donna, che diede alimento al precoce amore, scende presto Ombra fra ombre. E sul suo sepolcro Edgar si abbandona, ogni notte, agli evanescenti sogni, intessuti di tristezza e di spiritualità , che, più tardi, suggeriranno al poeta La dormiente e Ulalume.
Cresce, egli: ma bizzarro ed eccentrico. E i dileggi dei compagni di studi verso il taciturno permaloso scolaro aumentano la sua irritabilità naturale; e il brusco scioglimento dell’idillio con Sarah Elmira Royster, maritata quasi bimba, dalla sollecita preoccupazione paterna, a un buonuomo qualunque, acuisce la sua melanconia.
Dopo aver evitato, per miracolo, un fallimento, Allan, negoziante di tabacchi, eredita d’improvviso i milioni di uno zio. Edgar, a quell’epoca, ha sedici anni: e può, inscrivendosi studente nell’Università di Charlottesville, in Virginia, guardar con occhio sereno un avvenire, che sembrerebbe sgombro di nubi. Sembrerebbe: non è. L’orgoglio di Edgar, di fronte alle incomprensioni maligne degli altri allievi, assume rapidamente le forme di un muto disdegno e gli crea, d’attorno, la solitudine e spinge inesorabilmente la sua tristezza amara a volgersi, onde ottener momentaneo sollievo, verso il subdolo fascinatore Lete del giuoco e dell’alcool. La tragedia di Poe ha inizio in quei giorni, poiché in quei giorni, appunto, egli comincia a conoscere le lenitrici gioie dell’ebrezza.
Beve, sì: ma da barbaro. Così disse, con profonda intuizione di poeta, Carlo Baudelaire. Melanconico per temperamento, privo della divina facoltà della risata ampia e chiara, pronto solo al sorriso dell’umorismo ed agli sghignazzamenti della satira, che sono ancor più dolorosi delle lacrime, Edgar beve in un modo particolare: non come un volgar uomo, cui il vino e i liquori piacciano di per sé stessi, poiché graditi al palato, bensì per gli effetti dell’alcool, che hanno la virtù di alleviare dalle oppressioni della tristezza, dall’incubo delle fantasticherie solitarie, e di aprir l’anima a un respiro, sia pur effimero, di gaiezza libera da ogni peso di ricordi. I bevitori comuni giudicano l’alcool un fine, per i vari sapori con cui esso soddisfa il senso del gusto, non un semplice mezzo per cadere temporaneamente a livello degli altri uomini e partecipar, quindi, della lor sciocca, ma riconfortatrice, allegria. I poeti come Poe, invece, devono vincere un’istintiva ripugnanza per accostar le labbra al bicchiere. E bevono da barbari, tracannando il liquido d’un fiato, senza assaporarlo, onde provarne con maggior rapidità gli effetti infernalmente benefici e raggiunger più presto, nell’ebrezza, l’oblio di sé stessi.
Così, Edgar. E un compagno di Università testimonia: «Non era attratto dal sapore del liquido; ma s’impadroniva del bicchiere e, senza neppur sfiorarne con le labbra il contenuto, in un solo sorso lo vuotava.»
Gli scienziati, irrimediabilmente incapaci di addentrarsi nell’anima degli artisti, hanno foggiata una grossa parola: dipsomania; e, appeso questo cartellino al nuovo albero, scoperto nella flora...
Table of contents
- Copertina
- EDGAR ALLAN POE
- Indice
- Intro
- EDGAR ALLAN POE
- Ringraziamenti