Vathek
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Vathek

Un racconto arabo

William Beckford

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Vathek

Un racconto arabo

William Beckford

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Vathek. Un racconto arabo è un romanzo orientale (e piuttosto “gotico”), scritto dall’autore inglese William Beckford nel 1782 ma pubblicato la prima volta in lingua francese. Creata “di getto” in soli tre giorni, la vicenda è ambientata in una immaginaria città araba (Samarah). La storia è quella di un viaggio folle e fantastico all’inseguimento della ricchezza materiale ma a discapito della salvezza spirituale. La narrazione è pervasa da un sarcasmo cinico verso il protagonista, che appare ottuso e crudele.

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Information

Year
2019
ISBN
9788835330318

VATHEK

UN RACCONTO ARABO

Vathek, nono califfo della stirpe degli Abbasidi, era figlio di Motassem e nipote di Haroun al Raschid. Dalla precoce ascesa al trono e dai talenti di cui disponeva per farlo più splendido, i suoi sudditi erano indotti a credere che il suo regno sarebbe stato lungo e felice. La sua figura era gradevole e maestosa: solo quando montava in furia uno dei suoi occhi diventava così terribile che nessuno avrebbe osato sostenerne lo sguardo, e lo sventurato su cui quell’occhio si posava cadeva istantaneamente riverso e talvolta spirava. Per paura tuttavia di spopolare i suoi territori e di rendere desolato il palazzo, solo raramente egli dava sfogo a tale furore.
Essendo molto proclive alle femmine e ai piaceri della tavola, Vathek cercava con la sua affabilità di procurarsi piacevoli compagnie; e in questo tanto meglio riusciva in quanto la sua generosità era senza limiti e la sua indulgenza senza restrizioni: egli non pensava infatti come il califfo Omar Ben Abdalaziz che fosse necessario fare un inferno di questo mondo per godere il paradiso nell’altro.
In magnificenza Vathek sorpassava tutti i suoi predecessori. Il palazzo di Alkoremi, che suo padre Motassem aveva eretto sul colle dei Cavalli Pezzati e che dominava l’intera città di Samarah, gli era parso troppo angusto: egli vi aveva aggiunto quindi cinque ali o piuttosto cinque altri palazzi che aveva destinato alla particolare soddisfazione di ciascuno dei cinque sensi.
Nel primo di questi palazzi si trovavano tavole sempre imbandite con le più squisite vivande; erano servite giorno e notte e continuamente si vuotavano; mentre i vini più deliziosi e i più scelti liquori scorrevano da cento fontane non mai esauste.
Questo palazzo era chiamato «L’Eterno o Inconsumabile Banchetto».
Il secondo era detto «Il Tempio della Melodia» ovvero «Il Nettare dell’Anima». Era abitato dai più abili musici e dai più rinomati poeti del tempo, che non solo vi spiegavano i loro talenti, ma uscendo a piccoli gruppi facevano sì che i luoghi circostanti echeggiassero delle loro canzoni in un vario quanto delizioso succedersi di melodie.
Il palazzo chiamato «La Delizia degli Occhi» ovvero «Il Conforto della Memoria» era un vero incanto. Rarità raccolte da ogni angolo della terra erano qui distribuite con tale profusione da confondere e da abbacinare se non altro per l’ordine in cui erano disposte. Una galleria conteneva le pitture del celebre Mani e statue che pareva fossero vive. Qua una ben studiata prospettiva attirava lo sguardo; là qualche magia ottica lo ingannava piacevolmente; mentre il naturalista per parte sua esponeva nelle loro diverse classi i doni che il cielo ha profusi sul nostro globo. In una parola, Vathek non aveva omesso nulla nel suo palazzo che potesse soddisfare la curiosità di coloro che vi accorrevano; solo la sua non doveva essere soddisfatta, perché di tutti gli uomini egli era certo il più curioso.
«Il Palazzo dei Profumi», che era anche qualificato «L’Incentivo ai Piaceri», consisteva di varie sale dove i differenti profumi che la terra produce bruciavano continuamente in incensieri d’oro. Torce e lampade aromatiche erano accese in pieno giorno. Ma gli effetti troppo potenti di questo piacevole delirio si potevano attenuare scendendo in un immenso giardino dove erano raccolti tutti i fiori più fragranti, che spandevano nell’aria purissimi odori.
Il quinto palazzo, chiamato «Il Rifugio dell’Allegria» ovvero «L’Insidioso», era abitato da schiere di giovani donne, belle come le Urì e non meno seducenti: esse non mancavano mai di accogliere con carezze gli ospiti che il califfo ammetteva alla loro presenza e a cui concedeva di godere di qualche ora della loro compagnia.
Nonostante la sensualità cui indulgeva, Vathek non aveva subìto la minima diminuzione nell’amore del suo popolo, il quale riteneva che un califfo dedito al piacere non fosse meno capace di governare di un altro che se ne fosse dichiarato nemico. Ma l’inquieta e impetuosa tendenza del califfo non gli permetteva di fermarsi là. Egli aveva studiato molto per suo piacere durante la vita del padre e si era acquistato una grande somma di conoscenze, ma non tante tuttavia da esserne pago. Infatti egli voleva conoscere tutto: anche le scienze che non esistono. Volentieri proponeva dispute con i dotti; ma non permetteva loro di sostenere con accanimento un parere contrario al suo. Chiudeva la bocca con doni a quelli che se la lasciavano chiudere; quanto agli altri che le sue liberalità non bastavano a soggiogare, li mandava in prigione perché si raffreddassero il sangue, rimedio generalmente efficace.
Vathek manifestava anche una predilezione per le controversie teologiche; ma abitualmente non teneva dalla parte degli ortodossi. In questo modo induceva i bigotti a opporsi a lui e quindi li perseguitava, giacché in ogni caso risolveva di aver ragione.
Il gran profeta, Maometto, di cui i califfi sono i vicari, considerava con indignazione dall’alto del suo settimo cielo la condotta irreligiosa di un tale viceré.
— Lasciamolo a sé stesso, — disse ai genî che sono sempre pronti a ricevere i suoi comandi — vediamo fin dove lo porteranno la sua follia e la sua empietà: se cade nell’eccesso sapremo come castigarlo. Aiutatelo quindi a finire la torre che egli ha cominciato imitando Nimrod; non come quel gran guerriero per evitare di essere annegato, ma per l’insolente curiosità di penetrare i segreti del cielo: egli non indovina il fato che l’aspetta.
I genî obbedirono; e quando gli operai avevano elevato l’edificio di un cubito durante il giorno, altri due cubiti venivano aggiunti la notte. La speditezza con cui la fabbrica cresceva era un non piccolo motivo di adulazione per la vanità di Vathek: egli fantasticava che anche la materia insensibile mostrasse una disposizione a favorire i suoi disegni; non considerando che il successo dello sciocco e del malvagio è appunto la prima verga del loro castigo.
L’orgoglio di Vathek arrivò al culmine quando, dopo essere salito per la prima volta per i mille e cinquecento gradini della torre, volse di lassù lo sguardo e vide uomini non più grandi di formiche, montagne che parevano conchiglie, e città simili ad alveari. L’idea che una tale altezza gli ispirò della propria potenza lo frastornò totalmente; era quasi sul punto di adorarsi da sé quando, rivolti gli occhi in su, vide le stelle tanto alte sul suo capo quanto apparivano allorché egli si trovava sulla superficie della terra. Si consolò tuttavia di questa inopportuna e spiacevole constatazione della propria piccolezza col pensiero di essere grande agli occhi degli altri; e si lusingò che la luce della sua mente sarebbe andata oltre il raggio dello sguardo e avrebbe strappato alle stelle i segreti del suo destino.
Con questa idea il temerario principe passò la maggior parte delle sue notti in cima alla torre, finché, iniziato ai misteri dell’astrologia, immaginò che i pianeti gli avessero rivelato le più meravigliose avventure che dovevano compiersi per mezzo di uno straordinario personaggio venuto da un paese assolutamente ignoto. Spinto da motivi di curiosità, egli era sempre stato cortese verso i forestieri; ma da quel momento raddoppiò la sua attenzione e ordinò che fosse annunciato a suon di tromba per tutte le vie di Samarah che nessuno dei suoi sudditi, sotto pena della disgrazia sovrana, dovesse alloggiare o tenere presso di sé un viaggiatore, ma immediatamente portarlo al palazzo.
Non molto tempo dopo questo proclama, arrivò alla capitale, un uomo di una bruttezza così abominevole, che perfino le guardie che lo arrestarono furono costrette a voltare gli occhi dall’altra parte mentre lo portavano via. Anche il califfo apparve turbato da un aspetto così mostruoso; ma la gioia successe a questo moto di orrore quando lo straniero spiegò alla sua vista tali rarità, quali egli aveva mai viste prima né altrimenti immaginate.
In verità nulla fu mai così straordinario come le mercanzie offerte dallo straniero. Molte di esse, non meno ammirabili per la fattura che per il pregio della materia, portavano inoltre le loro diverse virtù descritte in una pergamena. C’erano pantofole che con i loro balzi spontanei facevano correre da solo il piede; coltelli che tagliavano senza che fosse necessario muovere la mano; sciabole che colpivano da sole la persona che si desiderava ferire; e tutto arricchito con gemme fino ad allora sconosciute.
Le sciabole, le cui lame emanavano un vago riflesso, attirarono più di tutto il resto l’attenzione del califfo, il quale si propose di decifrare a suo piacere i bizzarri caratteri che portavano incisi sul fianco. Perciò, senza domandare il prezzo, fece portare dal suo tesoro tutto l’oro in moneta che vi si trovava, e ingiunse al mercante di prendere quello che voleva. Lo straniero obbedì, ne prese un poco, e rimase silenzioso.
Vathek, pensando che il silenzio del mercante fosse dovuto alla soggezione che la sua presenza ispirava, lo incoraggiò a farsi avanti e gli chiese con aria di condiscendenza chi era, da dove veniva e dove si era procurato oggetti così belli e preziosi. L’uomo, o meglio il mostro, invece di dare una risposta si grattò tre volte la testa che, come il resto del corpo, era più nera dell’ebano; si batté quattro volte la pancia che aveva enorme e prominente; spalancò i grandi occhi che ardevano come tizzoni; e cominciò a ridere con orribile rumore scoprendo i lunghi denti color d’ambra striati di verde.
Il califfo, benché alquanto turbato, ripeté la sua domanda senza riuscire a ottenere una risposta.
Al che, cominciando a irritarsi, esclamò: — Sai tu, sciagurato, chi sono e di chi osi farti gioco?
Poi, rivolgendosi alle sue guardie: — Lo avete udito parlare? È muto?
— Ha parlato, — risposero le guardie — ma senza senso.
— Fatelo parlare di nuovo, — ordinò Vathek — e poi ditemi chi è, da dove viene e dove si è procurato queste singolari curiosità; o giuro, per l’asina di Balaam, che lo farò pentire della sua pertinacia.
Questa minaccia fu accompagnata da uno degli atroci sguardi d’ira del califfo, che lo straniero sostenne senza la minima emozione, benché i suoi occhi fossero fissi su quello terribile di Vathek.
Le parole non possono descrivere la costernazione dei cortigiani quando si accorsero che quel rozzo mercante sosteneva inalterato il confronto.
Tutti caddero prostrati con la faccia a terra, per non mettere a repentaglio la vita; e sarebbero rimasti in tale abietta posizione se il califfo non avesse esclamato in tono furibondo: — Su, codardi! prendete il miscredente! E guardate che sia messo in prigione e custodito dai miei migliori soldati! Fategli tuttavia tenere i denari che gli ho dati; non è mia intenzione togliergli quello che è suo: voglio solo che parli.
Non aveva ancora pronunciato queste parole che lo straniero fu circondato, afferrato, legato in ceppi; quindi trascinato alla prigione nella grande torre, che era tutta recinta da sette cancelli di ferro, irti in ogni senso di chiodi lunghi e grossi come spiedi. Il califfo nondimeno rimase nella più violenta agitazione. Si sedette a mensa; ma dei trecento piatti che si portavano tutti i giorni non poté assaggiarne più di trentadue.
Un digiuno a cui era così poco abituato sarebbe bastato da solo a impedirgli di dormire; quale doveva esserne l’effetto quando si univa l’agitazione che opprimeva il suo spirito? Al primo chiarore dell’alba egli si avviò in fretta alla prigione a interrogare di nuovo l’intrattabile straniero: il suo furore superò ogni limite quando trovò la prigione vuota, le inferriate divelte e la guardia stesa senza vita tutt’intorno. In un parossismo di rabbia si buttò furiosamente sulle povere carcasse e le prese a calci fino a sera senza interruzione.
I cortigiani e i visir adoperarono tutti i loro sforzi per calmare questa stravaganza; ma trovando inefficace ogni espediente si unirono in un unico clamore: — Il califfo è diventato pazzo! Il califfo è uscito di sé!
Il grido, che presto risuonò per le strade di Samarah, arrivò infine alle orecchie di Carathis, madre di Vathek, che accorse nella più grande costernazione a spiegare il proprio potere sulla mente del figlio. Le lacrime e le carezze di lei richiamarono l’attenzione di Vathek, che si lasciò convincere dalle insistenze materne a farsi portare di nuovo al palazzo.
Carathis, preoccupata all’idea di lasciare Vathek a sé stesso, lo fece mettere a letto e, seduta accanto a lui, tentò con la sua conversazione di pacificarlo e di placarlo. E nessuno avrebbe potuto tentarlo con più fortuna; perché il califfo non solo amava Carathis come madre ma la rispettava come una persona di genio superiore. Era lei che, essendo greca, lo aveva convinto a adottare le scienze e i metodi del suo paese, da cui i buoni musulmani aborrono così decisamente.
L’astrologia giudiziale era una di quelle scienze in cui Carathis era perfettamente versata. Cominciò quindi col ricordare a suo figlio la promessa che le stelle gli avevano fatta e lo informò della sua intenzione di consultarle di nuovo.
— Ahimè! — disse il califfo appena poté parlare — Che pazzo sono stato! Non per aver dato quarantamila calci alle mie guardie che così supinamente hanno accettato la morte; ma per non aver considerato che quell’uomo straordinario era lo stesso annunciatomi dai pianeti: lui, che avrei dovuto conciliarmi con tutte le arti della persuasione invece di maltrattarlo.
— Il passato, — disse Carathis — non si può richiamare; ma ci esorta a pensare al futuro. Forse potrai vedere di nuovo la persona che rimpiangi tanto; può darsi che le iscrizioni sulle sciabole ci diano qualche indizio. Mangia quindi e riposati, mio caro figlio. Domani penseremo al modo di agire.
Vathek accondiscese come poté al consiglio della madre e la mattina si alzò con la mente più tranquilla. Si fece portare immediatamente le sciabole e, guardandole attraverso un vetro colorato perché, così lucenti, non dessero riflessi, si dispose con la più grande serietà a decifrare le iscrizioni. Ma i suoi reiterati tentativi furono tutti inutili, invano si batté la testa e si morse le unghie, non gli fu possibile riconoscere una sola lettera. Una delusione così amara lo avrebbe di nuovo stravolto se per fortuna Carathis non fosse entrata nell’appartamento.
— Abbi pazienza, figlio mio! — ella disse — Certo tu possiedi ogni scienza importante, e la conoscenza delle lingue è una futilità buona solo per pedanti. Annuncia in un proclama che conferirai ricompense quali si addicono alla tua grandezza a chi interpreterà quello che tu non capisci e che non è degno di te studiare; e la tua curiosità sarà presto soddisfatta.
— Può essere, — disse il califfo — ma nello stesso tempo io sarò orribilmente disgustato da una folla di cialtroni che verranno alla prova sia per il piacere di raccontare le loro frottole, sia per la speranza di guadagnarsi la ricompensa. Per evitare questo fastidio sarà opportuno aggiungere che io manderò a morte chi non riuscirà a soddisfarmi; perché, grazie al cielo, sono abbastanza abile da distinguere se un uomo traduce o inventa.
— Su questo non ho dubbi, — disse Carathis — ma mandare a morte gli ignoranti mi sembra piuttosto severo e può avere effetti nocivi. Contentati di fare bruciare loro la barba: le barbe in uno stato non sono così essenziali come gli uomini.
Il califfo si piegò alle ragioni della madre e, mandato a chiamare Morakanabad, il suo primo visir, disse: — Fa’ proclamare dai pubblici araldi, non solo a Samarah, ma in ogni città del mio impero, che chiunque comparirà qui e saprà decifrare certi caratteri che si presentano incomprensibili avrà modo di sperimentare quella liberalità per cui sono famoso; ma tutti quelli che mancheranno alla prova avranno la barba bruciata fino all’ultimo pelo. Fa’ aggiungere anche che assegnerò cinquanta belle schiave e altrettante ceste di albicocche dell’isola di Kirmith a chi mi porterà notizie dello straniero.
Ai sudditi del califfo, essendo come il loro sovrano ammiratori delle belle donne e delle albicocche di Kirmith, venne l’acquolina in bocca, ma furono assolutamente incapaci di soddisfare le loro bramosie perché nessuno sapeva che cosa fosse successo dello straniero.
Diverso fu il risultato dell’altra inchiesta del califfo. I dotti, i semidotti, e quelli che non lo erano affatto ma si ritenevano pari alle due prime categorie, vennero audacemente a mettere a rischio le loro barbe e tutti miseramente le perdettero. L’esazione di questo tributo, giudicato incarico adatto per gli eunuchi, diede loro una tale puzza di peli bruciati da disgustare oltremodo le signore del serraglio e da rendere necessario il trasferimento in altre mani di questa nuova occupazione dei loro custodi.
Finalmente si presentò un vecchio, la cui barba era un cubito e mezzo più lunga di tutte le altre apparse prima.
Gli ufficiali del palazzo si sussurravano a vicenda mentre lo introducevano: — Che peccato, che gran peccato che una simile barba debba essere bruciata!
E anche il califfo condivise il loro rammarico quando la vide; ma la sua preoccupazione fu vana.
Quel venerabile personaggio lesse i caratteri con facilità e li spiegò a voce come segue: — Noi siamo stati fatti dove ogni cosa è ben fatta, siamo l’ultima delle meraviglie di un luogo dove tutto è meraviglia e tutto merita lo sguardo del primo potente della terra.
— Tu traduci mirabilmente! — gridò Vathek — So a che cosa alludono questi meravigliosi caratteri. Che riceva tante vesti preziose e tante migliaia di zecchini d’oro quante parole ha pronunciate. In certo modo mi sento libero dalla perplessità che mi imbarazzava.
E Vathek invitò il vecchio a cena e a fermarsi per qualche giorno nel palazzo.
Disgraziatamente per lui il vecchio accettò l’offerta.
Infatti la mattina dopo il califfo lo fece chiamare e gli disse: — Leggi di nuovo quello che hai già letto; non posso stancarmi di sentire la promessa che mi viene fatta e che anelo di vedere realizzata.
Il vecchio si mise subito un paio di occhiali verdi, che di colpo gli caddero dal naso quando si accorse che i caratteri che aveva letti il giorno prima erano scomparsi per dare luogo ad altri di differente significato.
— Perché ti turbi, — domandò il califfo — e cosa sono questi segni di meraviglia?
— Sovrano del mondo, — rispose il vecchio — queste sciabole parlano oggi un altro linguaggio da quello che parlavano ieri.
— Cosa dici? — replicò il califfo — Non importa; dimmi, se puoi, che cosa significano.
— Questo, Signore. — balbettò il vecchio — Guai al temerario mortale che tenta di conoscere ciò di cui deve restare ignaro, e di intraprendere ciò che è oltre i suoi poteri.
— E guai a te! — gridò il califfo in un impeto d’indignazione — Oggi hai perduto l’intelletto. Via dalla mia presenza, e ti bruceranno solo la metà della barba perché ieri sei stato fortunato nell’indovinare; nei miei doni non torno mai indietro.
Il vecchio, abbastanza saggio da accorgersi che se l’era cavata felicemente dopo la pazzia di aver rivelato una verità così spiacevole, sparì immediatamente e non si fece più vedere.
Ma non passò molto tempo che Vathek scoprì abbondanti ragioni per rammaricarsi della sua precipitazione; infatti, benché da solo non potesse decifrare i caratteri, studiandoli continuamente si accorse con certezza che cambiavano tutti i giorni; e purtroppo nessun altro candidato si offriva di spiegarli. Quest’occupazione assillante gli riscaldò il sangue, gli confuse la vista e lo portò a uno stato di tale stordimento e fiacchezza che arrivava appena a reggersi in piedi. Tuttavia, anche in condizioni così misere, non mancava di farsi portare spesso alla sua torre e si lusingava di poter leggere nelle stelle che consultava qualcosa di più vicino ai suoi desideri. Ma in questo le sue speranze furono deluse; ché gli occhi offuscati dai vapori del capo cominciarono a rispondere così male alla sua curiosità che non osservò se non una nuvola spessa e scura da cui trasse il peggiore degli auspici.
Turbato da tanta ansietà, Vathek perse completamente la salute; lo prese la febbre e l’appetito lo lasciò. Egli che era stato uno dei più grandi mangiatori della terra divenne altrettanto notevole come bevitore. La sete che lo tormentava era così insaziabile che la sua bocca, come un imbuto, era sempre aperta per ricevere le varie bevande che altri gli porgeva, specialmente acqua fredda da cui aveva particolare giovamento.
L’infelice principe, reso ormai incapace di qualunque piacere, fece chiudere i palazzi dei cinque sensi; smise di apparire in pubblico, di spiegare la sua magnificenza e di amministrare la giustizia; e si ritirò nell’appartamento più intimo del suo harem. Siccome era sempre stato un eccellente marito, le mogli, oltremodo turbate da questa deplorevole situazione, offrivano di continuo preghiere alla sua salute e acqua alla sua sete.
Nello stesso tempo la principessa Carathis, la cui afflizione le parole non possono descrivere, invece di limitarsi a piangere e a singhiozzare, si incontrava quotidianamente col visir Morakanabad per trovare qualche cura o qualche mezzo per mitigare il male del califfo. Nella persuasione che la causa del male fosse un incantesimo, essi sfogliarono, pagina per pagina, tutti i libri di magia che potessero indicare un rimedio; e fecero ricercare dovunque con la massima diligenza l’orribile straniero che ritenevano fosse l’incantatore.
A poche miglia da Samarah si trovava un’alta montagna i cui fianchi erano coperti di timo selvatico e di basilico, sulla cui cima vi era un pianoro così de...

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Beckford, William. (2019) 2019. Vathek. [Edition unavailable]. Tiemme Edizioni Digitali. https://www.perlego.com/book/2091981/vathek-un-racconto-arabo-pdf.

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Beckford, W. (2019) Vathek. [edition unavailable]. Tiemme Edizioni Digitali. Available at: https://www.perlego.com/book/2091981/vathek-un-racconto-arabo-pdf (Accessed: 15 October 2022).

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Beckford, William. Vathek. [edition unavailable]. Tiemme Edizioni Digitali, 2019. Web. 15 Oct. 2022.