Nuove Paesane
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Nuove Paesane

Novelle

Luigi Capuana

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Luigi Capuana

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A volte viene erroneamente citato Giovanni Verga quale fondatore del Verismo: in realtà Verga è sì il maggior scrittore verista ma l'originale teorico del Verismo è Luigi Capuana. Le sue novelle esemplari, in parte qua riunite, lo testimoniano e sono: Il barone di Fontana Asciutta, Un tipo, Il "mulo" di Rosa, Un eccentrico, Il Fascio del cavaliere, Le verginelle, Donna Stràula, Zi' Gamella, La casa nuova. In questa edizione il testo è stato interamente controllato e prudentemente normalizzato nella forma.

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Information

Year
2019
ISBN
9788835339366

IL BARONE DI FONTANE ASCIUTTE

Il procuratore legale don Emanuele Cerrotta apriva il suo studio assai prima dell’alba pei clienti provinciali, mattinieri e solleciti, che avevano pure altre faccende da sbrigare durante la giornata in Catania. Don Calogero, lo scrivano, veniva a svegliare il portinaio, accendeva, salendo, il lume a petrolio per le scale ed entrava nello studio dove il suo principale già lavorava da qualche ora.
Nell’anticamera, mezza dozzina di seggiole e un lumino, con tubo affumicato e riflessore di latta, alla parete. Nello studio, due scaffali zeppi di scritture e di memorie legali, tre seggiole compagne a quelle dell’anticamera e una a braccioli; un tavolino di abete, tinto a uso mogano, ingombro di carte, con accanto al calamaio un fazzoletto di cotone azzurro e la tabacchiera di cartone verniciato, mezza aperta per poter prendere più facilmente il rapè di cui don Emanuele si riempiva di tratto in tratto il naso, spargendo metà d’ogni presa su lo sparato della camicia da notte e su le carte che aveva davanti.
Il lume a olio, a tre becchi, illuminava appena il tavolino e le due persone che vi erano sedute attorno, cioè: don Emanuele col berretto di astrakan calcato fin su gli occhi, il fazzoletto di seta nera attorcigliato al collo a guisa di cravatta (le punte del colletto della camicia si affacciavano una dalla parte di sopra, l’altra dalla parte di sotto) e un vecchio scialletto di lana buttato su le spalle; a destra, don Calogero che copiava o scriveva sotto dettatura, senza mai alzare gli occhi e mostrare di accorgersi delle persone che dall’alba alle nove entravano nello studio, ragionavano, discutevano, urlavano, secondo il carattere di ognuna fino a che il principale non tagliava corto le parole in bocca ai clienti noiosi, dicendo bruscamente: - Va bene; ne riparleremo un’altra volta; oggi ho da fare. Buon giorno!...
E riprendeva a dettare allo scrivano: «Dunque... In fatto e in diritto...»
Quella mattina, vedendo entrare in punta di piedi don Pietro-Paolo Zingàli, barone di Fontane Asciutte e Cantorìa (da un anno e mezzo, tutte le mattine egli era il primo cliente che si presentava nello studio) don Emanuele non si era dato, al solito, neppur la pena d’interrompere un momento la lettura della memoria legale che egli andava annotando; e continuò un buon pezzo, quasi su la seggiola di rimpetto a lui non si fosse seduto nessuno. All’ultimo, dopo aver affondato l’indice e il pollice della mano destra nella tabacchiera e aver tirato su un’enorme presa di rapè, dopo di aver dato col fazzoletto due colpetti di ripulitura al naso, uno da dritta e l’altro da sinistra, don Emanuele alzò su la fronte gli occhiali a capestro e brontolò: - Buon giorno, barone!... Novità?
Il barone, accostata premurosamente la seggiola al tavolino, posate le braccia su le scritture e riunite le mani quasi in atto di preghiera, con sorriso umile, insinuante, e con tono di voce più insinuante e più umile ancora, balbettò: - Ecco: ho pensato...
- No, non voglio sapere quel che voi avete pensato o non pensato; domando soltanto se avete qualche carta, qualche documento nuovo... Ne scavate uno al giorno!...
- Ho scritto certe postille, per rischiarare meglio... il punto importantissimo...
E il barone, cavato premurosamente dalla tasca interna del soprabito mezzo foglio di carta, coperto di scritturina rotonda, fitta fitta, con richiami ai margini, lo presentava al suo procuratore.
- Leggerò, con comodo... Capisco di che si tratta... Nient’altro?
- ... Sei tarì, lo sapete! - rispose il barone abbassando gli occhi.
Don Emanuele tirò il cassetto del tavolino e presa una manciata di monete di rame, carlini, pezzi di sei grani e di due grani, contava, - uno, due, tre... Sei tarì vi bastano?
- Per due settimane. Prendetene nota.
- Campate di vento! - esclamò don Emanuele, crollando compassionevolmente la testa.
E mentre il barone ritirava con mano tremula i quattrini, prendendo una dopo l’altra le pilette di ogni tarì e mettendole in tasca, egli faceva quattro rapidi sgorbi su un quadernetto dove si allineavano filze di cifre significanti altri e altri tarì somministrati al barone durante la lite, e tutte le spese anticipate per lui, da riprendere assieme con gli onorari a lite vinta e finita.
Questo, insomma, voleva dire che il procuratore legale era sicurissimo del buon esito di essa; ma voleva anche dire che quel povero vecchio gli ispirava profonda pietà, ridotto quasi a mendicare dalla cattiveria della moglie e dei figli.
Moglie e figli si erano ribellati contro il barone appunto per quella lite, che durava da dieci anni, e nessuno poteva prevedere quando sarebbe terminata. Il marchese di Camutello, cugino del barone e suo avversario, prima gli aveva messo l’inferno in famiglia per mezzo del confessore della baronessa, facendole dipingere a nerissimi colori l’avvenire della casa; poi aveva proposto, con lo stesso mezzo, una transazione.
- Un’infamia! - diceva il barone. - Piuttosto farsi tagliare le mani, che sottoscrivere quell’attentato ai sacrosanti diritti della baronia di Fontane Asciutte e Cantorìa. Finché campo io!...
Ma dopo sei mesi di terribile lotta, un giorno per le silenziose stanze del palazzo Zingàli erano risuonati urli di voci maschili, strilli di voci di donne che si udivano fin dalla via e facevano fermare la gente.

La facciata di pietra dura intagliata, col vasto portone e i terrazzini e l’alto cornicione in cima, davano a quel palazzo l’aria di fortezza tra le meschine casette da cui era circondato. Bastava però cominciare a salire le scale per accorgersi subito che l’interno poteva dirsi una rovina. Scalini sbocconcellati; muri senza intonaco; pavimenti senza mattoni; finestroni, metà con vecchie tavole malamente inchiodate e murate in luogo di imposte e di ringhiere; volte reali macchiate di umido per l’acqua che vi stillava dal tetto nei giorni di pioggia; stanzoni squallidi, polverosi, e pieni di ragnateli, parecchi con un tavolino o un baule in un angolo e poche seggiole sgangherate attorno per mobilia, qualcuno con grandi quadri senza cornici alle pareti - quadri sacri, ritratti di famiglia anneriti dal tempo, scorticati, sfondati - e nient’altro.
Bisognava attraversare quattro o cinque di questi stanzoni, rischiarati dalla poca luce che penetrava dalle fessure delle tavole, infisse ai finestroni trent’anni addietro come imposte provvisorie - e che si erano infracidite là senza che nessuno avesse mai pensato di aggiungervi un chiodo - bisognava attraversare quattro o cinque di questi stanzoni prima di arrivare alle stanze dove la famiglia del barone si era ridotta ad abitare.
La baronessa e le due figlie vivevano segregate, in fondo in fondo, nelle stanze che davano sul vicolo della parte di levante. In una camera, divisa in mezzo da un paravento coperto di damasco rosso, stracciato e sfilaccicante, dormivano le due sorelle; in quella accanto, la baronessa. Ella passava le giornate facendo calza, rammendando biancheria, filando lino nelle serate invernali, recitando assieme con le figlie interminabili rosari, seduta sul massiccio seggiolone di noce con spalliera di cuoio che si accartocciava agli angoli da dove le bollette erano andate via. Là ella riceveva le rare visite di qualche amica e le contadine che le portavano panieri di frutta, cestini di uova fresche, mazzi di asparagi o di cicoria, secondo le stagioni; là ella si confessava, il primo e il quindici di ogni mese, col vecchio canonico Rametta, che veniva pure a raccontarle in quell’occasione le notiziole e i pettegolezzi del paese, prima o dopo di averla confessata, come piaceva alla signora baronessa, che non era sempre dello stesso umore.
I figli, Ercole, Marco e Feliciano, dormivano in quello che avrebbe dovuto essere il gran salone di ricevimento se il palazzo fosse stato compiuto. Attorno ai tre lettini addossati agli angoli (quelli di Ercole e Marco l’uno di faccia all’altro, quello di Feliciano in uno degli angoli opposti tra due finestroni) stavano appiccati alle pareti diversi arnesi che rivelavano le inclinazioni e le occupazioni di ognuno di loro. Fucili, carniere, reti da conigli e da quaglie; gabbietta di legno pel furetto; stivaloni alla scudiera, con grosse bullette alle suole; due cappelloni a larghe tese, uno di feltro bigio, l’altro di paglia; casacca, panciotto con molte tasche, e pantaloni di velluto grigio, di cotone, facevano subito indovinare in Ercole il cacciatore che si curava soltanto di fucili, di furetti e di bracchi. Seghe, pialle, martelli, tenaglie, succhielli, saldatori, scalpelli, forbici, lime, raspe, tornio, tavole, legnetti, soffietto, un trapano, un’incudinetta, un fornello indicavano in Marco il meccanico. Dal tavolino con su uno scaffaletto pieno di libri moderni, di fascicoli di opere in corso di pubblicazione, di quaderni di sunti e di appunti, si capiva l’inclinazione allo studio del fratello minore Feliciano.
Il barone occupava la stanza a sinistra del salone dove dormivano i tre maschi. Di faccia all’uscio, un gran scaffale rustico, senza vetri né sportelli, pieno di mazzi di scritture antiche, che raccontavano le compre, le vendite, le trasmissioni di possesso, le liti, le sentenze, insomma tutta la complicatissima storia dei feudi di Fontane Asciutte, Cantorìa, Barchino, Tumminello, Cento-Salme, Canneto, una volta patrimonio della famiglia Zingàli, ora parte alienati, parte ceduti, parte perduti per la leggendaria storditaggine del barone don Calcedonio, padre di don Pietro-Paolo. Le scritture erano disposte per ordine di data, e da ogni mazzo, da ogni fascicolo veniva fuori una linguetta di carta che ne indicava il contenuto. Prima della morte del barone don Calcedonio, tutte quelle carte giacevano alla rinfusa in due vecchi cassoni senza coperchio, assieme con altre carte ammonticchiate, in uno stanzino buio, fra seggiole rotte, arnesi inservibili e stracci di ogni genere buttati là da anni ed anni. Don Pietro-Paolo, che si era trovato da un giorno all’altro barone di Fontane Asciutte e Cantorìa, si era anche sentito gravare addosso da un giorno all’altro il disordine dell’amministrazione di casa, intorno alla quale non aveva potuto neppur fiatare vivente il padre che si credeva Domineddio in persona, autorità indiscutibile su la moglie, sul figlio, su la nuora e sui nipoti.
Appena la cassa del morto era uscita di casa, il barone don Pietro-Paolo aveva fatto cavar fuori dallo stanzino quelle altre casse da morto, come egli disse, dove giacevano tesori di documenti, atti importantissimi per le liti in pendenza e per quelle da iniziare; dalla mattina del giorno dopo si era chiuso nel suo stanzone, studio, camera da letto e da ricevimento in una, e in tre mesi di diabolico lavoro, che lo aveva fatto incanutire, era finalmente riuscito a riordinare, classificare, annotare quell’immenso ammasso di carte ingiallite, ammuffite e qua e là rôse dai topi. Per fortuna, avendo trovato tanta altra roba da rosicchiare, i topi avevano risparmiato un po’ le scritture dei cassoni.
La baronessa donna Fidenzia, triste e sfiduciata, gli aveva detto più volte: - Perché ammattite con quelle cartacce? Oramai, quel che è andato è andato...
- Non vuol dire! E poi... c’è ancora una rivendicazione da fare. Cento-Salme è nostro, non del marchese di Camutello!
- Volete rovinarvi con le liti anche voi, peggio di vostro padre?
- Mio padre era pazzo da legare. Dio gli perdoni nell’altro mondo dove ora si trova!
E il povero barone don Pietro-Paolo, che già aveva potuto scandagliare l’abisso in cui per colpa del barone don Calcedonio era sprofondato il patrimonio di famiglia, non esagerava punto, per indignazione, chiamando suo padre: Pazzo da legare!
Basta rammentare le burlette che il barone don Calcedonio aveva fatto ai suoi avvocati di Catania, di Palermo, di Messina, di Siracusa (giacché egli aveva liti da per tutto, con privati, con Comuni, col Governo, con conventi, con Opere pie) per qualificarlo a quel modo.
Da Catania, gli avvocati che gli strappavano a stento gli onorari e volevano far le viste di guadagnarseli, lo tempestavano di lettere: La sua presenza è necessaria, urgentissima; così non si va avanti.
Il vecchio barone li aveva lasciati cantare. Un bel giorno, fa inattesamente scrivere dal suo segretario: «Arriverò domani l’altro».
E si mette in viaggio, con gran scampanio di lettighe, una per sé e una pel suo cameriere, da quel gran signore che doveva mostrare di essere il barone di Fontane Asciutte e Cantorìa.
Durante una settimana, i suoi avvocati e quelli della parte contraria non erano riusciti a mettersi di accordo con lui e tra loro intorno al giorno, all’ora e al luogo del convegno per la transazione da discutere. In casa del suo avvocato principale non volevano intervenire, per orgoglio di dignità, gli avvocati avversari. Nell’albergo, no; egli non amava far sapere agli altri gli affari di casa sua. Si era stabilito finalmente un posto neutrale, e il giorno e l’ora. Ma la mattina di quel giorno, prima della levata del sole, il barone aveva dato ordine ai suoi lettighieri di mettere ai muli i basti coi sonagli, ed era partito contorcendosi dalle risa per la sua graziosa burletta a quegli imbroglioni di avvocati: - Rimarranno con tanto di naso! Ah! Ah!
Lungo il viaggio si era affacciato più volte allo sportello della lettiga, chiamando: - Nzulu! Eh? Aspettano ancora! Ah! Ah!
E vedendo che il vecchio cameriere crollava la testa, disapprovando: - Ridi anche tu, bestia! - aveva soggiunto. - Ripeteremo la burla a quelli di Palermo! Ah! Ah!
Infatti l’aveva spensieratamente ripetuta ai suoi avvocati di Palermo, poi a quelli di Messina, poi a quelli di Siracusa, ridendone con Nzulu, che gli rispondeva crollando la testa, sospirando: - Ah, signor barone! Ah, signor barone!
- Zitto, bestia!... Li pago; posso divertirmi con loro!
E si era tanto divertito, che aveva dovuto abbandonare la costruzione del palazzo, darsi in mano agli strozzini, troncare, di nascosto dagli avvocati e con enorme suo danno, liti che non si potevano perdere, pur di raccapezzare alla lesta, a furia di transatti, i quattrini che gli occorrevano per un viaggio a Napoli, per una apparizione da Cavaliere d’onore alle Corti di Ferdinando I e di Francesco I, per una ballerina del Bellini di Palermo o del San Carlo di Napoli; riducendosi, negli ultimi anni, ad abitare in quel paesetto, in quel palazzo che già rovinava prima di essere finito, dopo aver visto vendere all’asta i due bei palazzi e la loro ricca mobilia - uno in Palermo, l’altro in Catania - che l’avolo di lui s’era fatto fabbricare verso la fine del 1600, ed erano passati intatti di padre in figlio, fino al suo matto pronipote!
Per questo la baronessa donna Fidenzia osservava con una specie di terrore tutto quel rimescolio di cartacce che teneva occupato suo marito, e si era sentita stringere il cuore alla risposta di lui: - Cento Salme è nostro, non del marchese di Camutello!

Il barone don Pietro-Paolo non si era mostrato in famiglia meno despota del barone don Calcedonio. Come egli era rimasto zitto e quasi tremante davanti a l’assoluta autorità del padre, così ora la baronessa, le figlie e i tre maschi tacevano e tremavano davanti a lui. Purché non pretendessero di mescolarsi negli affari, egli però lasciava che tutti facessero il comodo loro; e la famiglia viveva in una specie di anarchia; la mamma e le due ragazze segregate in fondo al palazzo, assorte in pratiche devote; i tre fratelli nel salone, ciascuno occupato delle faccende proprie: Ercole, badando a ripulire fucili, a rammendare reti; Marco a tornire, a saldare, a picchiare su l’incudinetta, tutto intento alle sue strane invenzioni meccaniche; Feliciano, immerso negli studi legali, muto e chiuso, ruminando non si sapeva quali progetti che gli luccicavano di tanto in tanto nelle pupille nere sotto le folti sopracciglia.
Il barone, quando non era via per affari, cioè per la lite di rivendicazione di Cento-Salme, da lui iniziata subito appena messi insieme i documenti, passava le intere giornate, e spesso spesso metà delle nottate, a decifrare le vecchie scritture latine in cui si imprometteva di ritrovare diritti per altre rivendicazioni. Voleva far ritornare i baroni di Fontane Asciutte e Cantorìa, se non all’antica opulenza, per lo meno a una ricchezza e a un fasto che avrebbero rimesso in onore il nome dei Zingàli. Questa illusione egli era arrivato a trasfonderla, dopo qualche anno, nella baronessa Fidenzia, nelle figlie, e in Feliciano che lo avrebbe aiutato volentieri nelle ricerche delle vecchie scritture, se il barone non avesse avuto la pretensione di far tutto da sé.
Da principio la lite era andata a vele gonfie; il marchese di Camutello, che non s’attendeva quell’attacco, sbalordito e sconcertato, era andato avanti a furia di cavilli, di intrighi e di alte protezioni; poi, tutt’a un colpo, si era messo a litigare per davvero, opponendo documenti a documenti, procedure a procedure, perizie a perizie, sfoggiando insomma tutte le armi più affilate, tutti gli strattagemmi più astuti per stancare l’avversario, che non poteva buttar via i quattrini a manciate, come era cosa facile per lui, amministratore meticoloso, un po’ avaro, e uomo abile e rotto al gran maneggio degli affari. Il giorno che il Tribunale civile di Catania gli aveva dato torto, incontrato il cugino che usciva raggiante di contentezza dalla sala di udienza, dopo averlo salutato sorridendo, gli disse: - A rivederci davanti a la Gran Corte! Ride bene chi ride l’ultimo!
E là, nella Gran Corte, la lite era rimasta arrenata otto anni! Pareva che gli avvocati delle due parti contendenti, preso gusto a quella battaglia di atti, di procedure, di rinvii, si divertissero a prolungarla. Il barone dimagriva e ingialliva dalla bile. Passava lunghe nottate riassumendo documenti, scrivendo b...

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Capuana, L. (2019). Nuove Paesane ([edition unavailable]). Tiemme Edizioni Digitali. Retrieved from https://www.perlego.com/book/2092035/nuove-paesane-novelle-pdf (Original work published 2019)

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Capuana, Luigi. (2019) 2019. Nuove Paesane. [Edition unavailable]. Tiemme Edizioni Digitali. https://www.perlego.com/book/2092035/nuove-paesane-novelle-pdf.

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Capuana, L. (2019) Nuove Paesane. [edition unavailable]. Tiemme Edizioni Digitali. Available at: https://www.perlego.com/book/2092035/nuove-paesane-novelle-pdf (Accessed: 15 October 2022).

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Capuana, Luigi. Nuove Paesane. [edition unavailable]. Tiemme Edizioni Digitali, 2019. Web. 15 Oct. 2022.