Raftery il cieco e la sua sposa Hilaria
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Raftery il cieco e la sua sposa Hilaria

Donn Byrne

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Raftery il cieco e la sua sposa Hilaria

Donn Byrne

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Raftery il cieco è la rievocazione della figura di un vagabondo poeta irlandese del quale ancora oggi vive il ricordo. Il Bardo di Killeandan, nella Contea di Mayo, Anthony Raftery (1784-1835) condusse una vita randagia, accompagnando con l’arpa il canto dei suoi versi soavi. Scrisse in irlandese stanze, ballate, elegie, un lungo poema sulla storia d’Irlanda. Questo racconto è una lunga poesia narrata, con squarci di una bellezza quasi “insopportabile” «Giugno aveva terminato di costruire la sua fronzuta casa. Ogni albero era vestito come una giovinetta per la danza. Tremule seriche foglie sottili del salice, e la testa orgogliosa del frassino, e il faggio color di rame dai riccioli fulvi di donna; le pompose candele dell’ippocastano; la dolce semplicità dell’olmo. E qua e là grandi rocce porporine, e ora, territori fertili come oro, grandi campi di segale e d’orzo, e ondeggianti pianure di trifoglio, da cui giungeva il minuscolo ronzio delle api. Gli splendidi fiori e i lunghi steli azzurri delle fave spandevano attorno il loro sottile profumo. E sul capo volteggiavano le allodole di prato versando a fiotti le loro canzoni».

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Information

RAFTERY IL CIECO E LA SUA SPOSA HILARIA

I.

Seduto in una stanza della grande osteria di Patrick Lynch, gli si svelava tutta la vita, tutto lo spirito di Galway. Poteva sentire le profonde ombre della stanza, e il sole di maggio che vi entrava dalle finestre aperte, giallo come il vino giallo. Alle sue narici giungeva la salata brezza dell’Atlantico, che soffiava ad est, e veniva dalle isole d’Aran. C’erano nel vento odori ch’egli poteva riconoscere a uno a uno: quello delle navi incatramate dondolanti all’ancora nella baia di Galway, quello pungente, ricco di iodio, delle alghe irlandesi; e non mancava il commovente, solitario e verginale aroma dei piccoli fiori che crescono nelle spaccature delle rocce sul mare, e quello dell’erica, dolce come il miele, e l’acre odore del fumo delle torbe che bruciavano nei casolari, nostalgico come una antica canzone.
Fuori, movimento e frastuono. Poteva udire l’argentino risuonare degli zoccoli della sua piccola giumenta, sui ciottoli della strada lavati dalla pioggia; così impaziente era essa di ritrovarsi in cammino oltre i purpurei monti di Connemara, verso la contea di Clare. La primavera giungeva con le brezze dell’Atlantico, e gli uccelli e le bestie lo sapevano, e gli uomini e le donne pure. Gli giungeva il suono di voci diverse: l’accento spagnolo di marinai di Barcellona, il dolce liquido erse [1] dei contadini scozzesi, e il volubile inglese del padrone e dei servi che sorvegliavano il carico delle sue cose sui ponies. Quanta inquietudine nel mettere a posto e assicurare con cinghie l’arpa nella grande custodia di cuoio!
«Bada, bada ora, Shamus Hennessy, bada come tu poni l’arpa del mio cuore sul magro dorso della bestia, ché preferirei mi si rompessero tutte le costole piuttosto che si guastasse una sola corda dell’arpa del grande Raftery».
«Volete star zitto?».
«Piano, piano, ora, Shamus Hennessy; non stai mica servendo pinte di birra ai calderai di Galway; maneggi la grande cosa melodiosa!».
«Volete tenere il fiato, padrone della casa?».
«Terrò la tua gola, se qualche cosa va male».
Poi giunse il dolce ridere sommesso di Hilaria come il tubare di una tortorella selvatica.
Era in lui tutta la irrequietezza della primavera, e agognava il momento che Hilaria entrasse nella stanza a dirgli che tutto era pronto; allora, camminando al suo fianco, la mano di lei nella sua, scenderebbe le scale dell’osteria di Patrick Lynch. Ella lo condurrebbe alla sua piccola giumenta e gli metterebbe le redini in mano; poi, trovando da solo la staffa, salterebbe in sella altrettanto bene quanto gli uomini che hanno due occhi. E Hilaria monterebbe sulla sua lucida e morbida mula spagnola, e il ragazzo scozzese dalle gambe lunghe e dai capelli tagliati come un paggio fiorentino, afferrerebbe le redini dei cavalli da soma e aprirebbe il cammino. Un suonatore di cornamusa della città, un vecchio dallo squillante strumento ornato di chiavi d’argento, intonerebbe un canto d’addio in suo onore, e la dolce gente di Connaught gli augurerebbe buona fortuna: «Dio vi mandi giorni felici, cieco Raftery, e grandi canzoni da cantare».
E andrebbero allora, Hilaria e lui, sulla lunga strada errante verso il sud, al porto di mare di Cork, attraverso gli altipiani coperti di erica. Il sole sorgerebbe alla loro sinistra, gettando su loro il suo calore morbido come il miele. Il grande Shannon assonnato li accompagnerebbe per un tratto e, ascoltandolo, si udrebbe il salto della trota e il tuffo della lontra e il dolce borbottio del fiume contro i sassi rotondi delle piccole spiagge. E le montagne di Connemara, sulla destra, farebbero quasi sentire le loro gravi masse dorate. E gli giungerebbero tutti gli aromi dei fiori; dell’erica ricca di miele; l’onesto profumo degli umili fiori dei campi, margherite orlate di cremisi e verniciati ranuncoli; la modesta violetta dalla fragranza dolce come tocco leggero dell’arpa; e il finissimo aroma dell’asfodelo. Alcune notti vi sarebbe la luna e continuerebbero a cavalcare; il fiume canta accanto a loro, e il vento agita le erbe, e si finisce per sentire che li accompagna nella marcia un esercito di piccoli abitanti delle colline, minuscole fate irlandesi, e timidi gnomi, dai piedi leggeri, destati dalla dolce magia della luna.
E più dolce di ogni musica sarebbe la bassa voce da contralto di Hilaria, mentre cavalca al suo fianco sul ginnetto spagnolo. E meglio di uno degli occhi di Raftery, sarebbe l’occhio di lei pieno di stupore.
«Raftery, vi è una bianca nube nel cielo turchino, e ora passa sotto il sole, e vi è un mantello color di porpora sul grande fianco dorato della montagna».
«Posso udire il silenzio della montagna», le direbbe.
«Raftery, vi è un martin pescatore che sfiora il fiume. Il sole illumina le sue ali azzurre e bianche. È vicino alla riva, oscuro Raftery».
«Cerca la sua casa, Hilaria. Ha una casa fatta a galleria lungo la riva».
«Raftery», direbbe ella dolcemente, «la sera giunge come una strana nebbia azzurra, e nel cielo d’oriente brilla una piccola stella».
«Sento la terra assonnata sotto gli zoccoli del mio cavallo, Hilaria. E l’odore dei fiori mi giunge sempre più debole, ché le loro corolle si chiudono ora che il sole tramonta».
E giungerebbe a una spiaggia aperta sul mare, dove il verde Atlantico getta i suoi mormorii su sabbie dorate. E lì, egli si lancerebbe a nuoto, l’unico suo gioco di forza, ora che era cieco. Si sarebbe spinto fuori, senza paura nel grande Atlantico, spinto dalle potenti braccia attraverso l’acqua come un salmone, mantenendo la rotta secondo il vento sulla guancia, o tornando istintivamente a riva se sentisse di essere abbastanza lontano. E giunto nelle acque basse, il servo scozzese si lancerebbe dentro per condurlo sulla spiaggia. In acqua, piccola perdita erano per lui gli occhi. Era soltanto sulla terra ch’egli doveva essere guidato...
E al cadere della notte sarebbero giunti a un villaggio, dove vi era una grande casa, la casa di un nobile normanno o di un capo irlandese, e nell’una e nell’altra gli sarebbe stato dato il benvenuto con grande gioia. E con grande rispetto, perché una frase di Raftery poteva essere tramandata ai nipoti, motivo di grande orgoglio. Oppure potevano giungere a una abbazia di monaci, e il padre priore li riceverebbe coll’ospitalità di un viceré e, cantata compieta, Raftery reciterebbe per i frati biancovestiti qualcuno dei suoi grandi poemi come Sotto i verdi boschi di Truagh, accompagnandone il ritmo sulle corde dell’arpa. E il priore, educato in luoghi migliori, avrebbe discusso del vasto mondo fino alle ore piccole, e Hilaria dormirebbe. O si fermerebbe a una fattoria per la notte, e i pacifici contadini condurrebbero alla loro presenza i bimbi.
«Vedete quell’uomo scuro, bimbi pallidi?».
«Sì, mammina, piccola mammina, vediamo l’uomo scuro».
«Egli è il grande Raftery, bimbi pallidi. Quando sarete vecchi potrete dire: Con questi occhi ho visto il grande Raftery».
«Il grande Raftery!», balbetterebbero i bimbi.
E Raftery ne riderebbe, e chiederebbe la sua arpa per suonare una ninnananna. Udrebbe i loro piedini leggeri avvicinarsi sempre di più, sempre di più. Allungherebbe una mano per prendere il più vicino.
«Ti piacerebbe suonare la mia arpa, fratellino?».
E il bimbo, timoroso, allungherebbe un dito, per toccare le corde dalle profonde vibrazioni. E lacrime vi sarebbero negli occhi della gente della casa.
Udì lo svelto passo del servo sulle scale; una risata sommessa e il frastuono di una zuffa. Una delle domestiche di Patrick Lynch diceva a bassa voce: «Se vi do un bacio della mia bocca, non me ne domanderete il perché?».
Perché non dovrei domandarvelo?». Una piccola pausa.
«Vi bacio solo perché accompagnate il grande Raftery, o giovanotto».
«Ragione sufficiente», rispose il servo.
I due si lasciarono, ché si udiva ora il leggero fruscìo d’Hilaria sulle scale. La porta si aperse, e il gentile profumo di lavanda di lei giunse a Raftery, là dove sedeva. Le gonne di seta frusciarono. Era come un fiore che entrasse nella stanza, un piccolo fiore vellutato.
«Raftery», ella disse. Pose le mani sulle sue larghe spalle. «La primavera è qui, e il tuo cavallo è sellato e il vento soffia dal sud».
«Allora partiremo, Hilaria, prenderemo la strada che conduce al porto di mare di Cork».
«E di là, dove andremo, Raftery?».
«Ovunque la strada sia aperta, Hilaria, nella gaia terra di Francia, o nella Germania del nord, o nelle basse terre d’Olanda».
«O nell’Africa nera?».
«O nelle colonie d’America, ovunque ci sia un orecchio per l’arpa, o un cuore aperto a un poema. Vieni, Hilaria, sono ansioso di essere in cammino».
«O Raftery, c’è fuori un vecchio suonatore di cornamusa che suona Preparati e parti. È un uomo molto vecchio, e dice che ha la sua salute e la sua cornamusa, ma una sola cosa lo tormenta, che non vedrà mai più il grande Raftery. Non dargli oro o argento, mio amore».
«Che cosa devo dargli, Hilaria?».
«Dagli parole buone, e accoglienza di fratello, mio Raftery, e la generosa stretta di mano, così che egli andrà orgogliosamente a suonare alla porta del Cielo, quando il suo suonare quaggiù sia finito».

II.

Non erano passati nemmeno due anni da quando egli era seduto in quella stessa città di Galway su di una bitta d’ormeggio sul molo, e la gente che passava non gli mostrava alcuna reverenza, ma soltanto una cortese familiarità, come se ne può mostrare a un fantino o a un pugilatore, e parlava di lui come del «Povero Raftery, il poeta»? E non vi era lustro nella sua vita, e soltanto amarezze nel volto. Tutto l’assordante movimento del porto, intorno a lui, e nessuno aveva tempo per lui fino a sera, fino a che le osterie non fossero aperte, e la fine della dura giornata ristorata dal vino.
Qui una nave diretta in Brasile caricava grandi blocchi di marmo di Connemara, marmo variegato di verde e di nero e d’argento; e là una piccola tartana, per Aran, caricava mattonelle di torba da bruciare nelle isole. Cristalli di Waterford e di Ballycastle, merletti di Donegal, la dorata acquavite delle colline irlandesi, sete di Dublino, e miele dai campi di erica... tutto veniva caricato sulle navi per essere venduto in tutte le terre del mondo. E altrove, in fondo al molo, i pescatori tiravano a bordo le reti, cantando la nenia di Aringa, il Re. Pad-pad-pad degli asinelli delle colline, stridio di gabbiani, scricchiolar di pulegge. In un canto il suonare di flauto di un vecchio e il clank-clank di un’ancora tirata su. Tutto intorno a lui è inondato dalla grande luce del sole datrice di vita, eccetto l’ombra fredda di una nube che nasconde per un momento il sole. Ma il frastuono del porto e la luce del sole e lo stridio dei gabbiani non importano a Raftery, ché ha il cuore pesante.
Aveva scelto una parte solitaria del molo per il gran tormento del cuore, e non aveva alcun desiderio di parlare ai bambini o agli oziosi della città. Ben strana appariva la sua figura in quel luogo, una figura piena di vita, meditabonda, dalle larghe spalle, dal volto abbronzato, i capelli striati di grigio, benché non avesse ancora raggiunto i quarant’anni. Il suo volto non era come quello della maggioranza dei ciechi, commoventemente aperto, infantile, rassegnato, ma era solcato da rughe, aspro anche. Le sue mani erano vigorose e bellissime. Gli occhi protetti da palpebre come quelli del falco. L’unica nota patetica in lui erano gli abiti, le belle scarpe non ben ripulite, le giarrettiere dei calzoni corti non bene allacciate, la fine biancheria macchiata di vino sul petto, la giubba di velluto mancante di qualche bottone d’argento; e quanto queste piccole cose lo seccassero si poteva comprendere dal suo volto. Ma il servo di Raftery era un vecchio soldato, nemico del lavoro, piuttosto proclive a tenere, verso il cieco poeta, una specie di sprezzante silenzio.
«Ora che l’estate giunge...» diceva a se stesso il cieco, e le sue dita giocherellavano con un pezzo di corda raccolto per terra. Gli occhi chiusi, la fronte turgida di pensieri. «Ora che l’estate giunge... Ora che l’estate giunge...» ripeteva con voce bassa e vibrante.
Mi taglierò un bastone di spino nero (per la mia mano),
e lascerò questa rumorosa città per il silenzio della contea di Mayo.
E in quella terra punteggiata di laghi, e profumata d’erica
questo vecchio dolore scomparirà.
Era così intento che non udì il leggero passo che s’avvicinava a lui delicatamente sui larghi lastroni che selciavano il molo... Si chinò in avanti, le mani giunte.
Il sussurrar dei frassini e il vento tra i giunchi,
La lontra che si tuffa, la trota che guizza in qualche alto lago di montagna,
e il flautare del merlo devo udire, e i tordi dalla gola dolce,
o il mio cuore si spezzerà.
Il rumore dei passi cessò. Ella ascoltava immobile. Egli si alzò e tese le mani con impeto.
Perché sono stanco da morire delle chiacchiere nella bettola, e delle chiacchiere dei mercanti,
del continuo discutere per vendere e per comprare, e del lagnarsi dei tempi,
e dei monaci che piagnucolano elemosine per costruire qualche grigio campanile di chiesa...
cercano nella melma centesimi quando i loro occhi dovrebbero essere fissi in una stella.
Qualche piccolo movimento, qualche involontario fruscio, dovette colpire il suo sensibile orecchio, perché si fermò e si volse attonito verso di lei. Attese che lei parlasse.
«Che canzone è questa vostra, o uomo scuro?» ella chiese. La sua voce tremò. Egli si domandò stupito qual fosse lo strano accento che ella dava alle parole del dialetto irlandese.
«È una canzone», disse egli, «donna di Spagna, una canzone della stanchezza del mio cuore per questa crapulona città commerciale, una canzone dei profondi colloqui con le alte montagne, della freschezza e della limpidità delle acque dei laghi, e delle melodie degli uccelli al tramonto e al sorgere del giorno».
«C’è dunque tanta pace e tanto sollievo nella contea di Mayo, o poeta cieco?».
«Vi è, donna di Spagna».
«Voi dunque mi conoscete...». La sua voce tremò di leggera paura.
«So che venite di Spagna, dal vostro accento, e so che siete una piccola donna dal punto da cui mi giunge la vostra voce. Per la vostra voce, pure, io so che siete una signora. Ma chi voi siate, se siate, o no, bella, e qual nome portiate, non so».
«Sono una donna di Spagna, e non sono brutta, Raftery, e il mio nome è Hilaria».
«Hilaria vuol dir gaia», Raftery meditò. «È un nome strano, per una voce dolce e grave».
«Lasciate ora questa città, Raftery? Partite ora per la contea di Mayo?».
«Parto ora, donna di Spagna», le rispose. «Parto ora, non appena abbia potuto raccogliere le mie poche cose e abbia pagato il mio conto, perché ho già cantate tutte le mie canzoni e, per quanto la gente non ne sia stanca, io lo sono, e in un mercato non nascono nuove canzoni. Sulla riva del mare e sulle montagne e lungo i piccoli laghi montani le canzoni son lievi come timidi uccelli».
Ella era ora vicina a lui. Egli aveva l’impressione che stesse in piedi sotto di lui, col viso rivolto a lui, come ...

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