Gabriele D'Annunzio
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Gabriele D'Annunzio

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Gabriele D'Annunzio (1863-1938) è stato uno scrittore, poeta, drammaturgo, militare, politico, giornalista e patriota italiano, simbolo del Decadentismo e celebre figura della prima guerra mondiale. Soprannominato (come Giosue Carducci) il "Vate", cioè "poeta sacro", profeta", cantore dell'Italia umbertina, occupò una posizione preminente nella letteratura italiana dal 1889 al 1910 circa. La sua arte fu così determinante per la cultura, che influenzò usi e costumi nell'Italia - e non solo - del suo tempo: un periodo in seguito definito "dannunzianesimo".

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ALCIONE

IL VIAGGIO DELL’ANIMA ( LAUS VITAE)

I due volumi delle ultime liriche del D’Annunzio formano le Laudi del Cielo del Mare della Terra e degli Eroi: il primo volume, che è anche il primo libro, ha il titolo Maia o Laus Vitae: uscì nella primavera del 1903. In esso il poeta volle dare il viaggio della propria anima attraverso il mondo materiale e spirituale, e mostrare come fosse giunto alle Laudi. Sappiamo che lo compose dopo le liriche del secondo volume, con l’intenzione di spiegarvi tutto l’organismo del vasto poema. Ormai egli non poteva contentarsi di metter fuori volumi di liriche isolate, che stessero ciascuna per sé. Era il periodo del Superuomo; ed egli, che si era costruito un intero mondo col Superuomo e la «morale eroica», non sapeva rassegnarsi a non fare un intero mondo delle liriche nate nello stesso periodo. La Laus Vitae, in realtà, è come un prolungamento del mondo superumano, col quale il poeta cerca di tenere agganciate e strette le liriche del secondo volume. Invece egli volle farne la chiave di volta di una supposta creazione unitaria, cioè delle Laudi del Cielo del Mare della Terra e degli Eroi.
Qual viaggio compie l’anima del poeta? – E come si fa a dirlo? Muove «verso l’Ellade santa» coi «fidi compagni», e prima incontrano Ulisse. Vedono Itaca; approdano a Patre. Quivi trovano Elena, divenuta una lurida vecchia, serva d’una meretrice. Sulla via di Olimpia hanno la visione degli elleni accorrenti ai giuochi; e a notte il poeta discende solo «là dove il Clàdeo breve si mesce all’Alfeo tortuoso»: vede in realtà e in sogno molte cose. Volge una preghiera ad Erme, cui rivela le attività varie degli uomini moderni. Ripigliano tutti a navigare ed hanno l’apparizione improvvisa del Parnaso: il poeta vede le Castalidi e, di più, la «decima Musa», che egli chiama Euplete, Euretria, Energèia. Seguono in realtà, o soltanto evocati dal potere del sogno, altri luoghi della Grecia; finché, dopo l’ultimo approdo a Delo, il poeta, ormai solo, continua il suo viaggio non più costretto dall’itinerario realistico che, pare, gli imponeva il fatto di trovarsi in compagnia. La sua seconda meta è Roma: canta la febbre delle terribili città moderne; ha i supremi disgusti dallo spettacolo della plebe dominata dai demagoghi. L’Agro e la Sistina soltanto gli danno degno asilo. Finalmente nella visione del deserto libico trova la sua definitiva liberazione e conquista interamente sé stesso: fa l’encomio dell’opera, saluta il Maestro (il Carducci), rivolge una preghiera alla sua Madre immortale (la natura). E, dopo tutto questo, chi non abbia letto la Laus Vitae poco o niente capisce di questo curiosissimo viaggio dell’anima. È troppo difficile e faticoso riassumerlo. C’è tanta roba: Penelope, Telemaco, il «pastore dell’Ida», Alessandro, Temistocle, Pericle, Alcibiade, Pindaro, Giove, Ippodamia, Thànatos, Pegaso, la «rosa di Beozia», l’acropoli eràclia, Colono, il Sunio, Maratona, Ezechiele, le Sibille, Dioniso, il «gran demagogo», Demetra, le macchine moderne, la madre e le sorelle del poeta, la dolce Toscana; e non si finirebbe più con l’enumerazione, che non è esaurita neppure dall’indice e dai titoletti marginali. Sicché il lettore non incolto anche è costretto a temere che la poca chiarezza dell’insieme sia dovuta alla propria insufficiente preparazione erudita. In realtà, quella poca chiarezza risulta in primo luogo da un gravissimo difetto dell’ispirazione poetica: da quel misto di realtà e, diciamo così, di sogno, su cui il viaggio dell’anima è intessuto. Ora si parla di reali approdi e partenze, con tutte le connessioni d’un viaggio realistico; ora invece si passa da un luogo all’altro sulle ali dell’immaginazione; e in molti punti non si distingue se siamo nel viaggio reale o abbiamo superato, «sognando», ogni limite e rapporto della realtà. Può sembrare, questo, un lieve difetto, solo a chi crede astrattamente in una certa libertà della fantasia dell’artista, per cui a questi tutto sarebbe permesso. Invece qui manca, come nel mondo superumano del D’Annunzio, il fondamento «storico» dell’ispirazione, nel senso amplissimo che noi già definimmo. Fondamento «storico» non vuol dire fondamento realistico: anche l’arte più «fantastica», quella delle fiabe o delle favole, ha un fondamento «storico», in quanto in essa è osservata una costanza di rapporti tra il mondo ch’essa rappresenta e il mondo reale. Si tratta, in sostanza, della così detta intonazione: nelle Mille e una Notte non può aver luogo un personaggio come la signora Bovary; Ariele non ha posto nel Decamerone. La Divina Commedia, per esempio, è tutta un mondo «storico»; e solo perciò al suo significato reale si possono sovrapporre significati allegorici: Dante lasciò oscuro qualche rapporto, quando appunto si lasciò trascinare dall’allegoria. Col suo miscuglio di realistico e di non realistico la Laus Vitae rivela dunque la mancata unità dell’ispirazione. Poteva ben essere condotta, tutta quanta, sull’itinerario d’un viaggio realistico, com’è in quella parte limitata alla Grecia; sebbene noi crediamo assai difficile che si possa fare un’opera d’arte d’ispirazione veramente unica sulla traccia d’un itinerario geografico o topografico; tanto più, quando, come nella Laus Vitae, il tono ammirativo è altissimo, e il poeta deve ad ogni costo montarsi ed esaltarsi per ogni nuovo oggetto che gli capita sotto gli occhi. Sapreste immaginare un poeta allo sportello d’un vagone ferroviario, pronto ad innalzare un inno ad ogni accidentalità del paesaggio sfuggente, e incalzato dal tempo, che non gli lascia finire un canto per cominciarne un altro? Qualcosa di forzato e di falso è infatti nell’esaltazione continua e sempre egualmente alta del poeta nel viaggio in Grecia: si passa da un paese all’altro, cambiano gli oggetti della visione, e davanti ad ogni cosa l’ispirazione del poeta è pronta a scattare precisamente, con la sua altezza di tono, come precisamente scatterebbe la molla d’una macchinetta fotografica. Quell’inno, condotto su quell’itinerario, cioè su d’una guida esterna, riesce falso, e perciò fastidiosissimo. L’esteriorità si avverte ogni momento nei legami interni che il poeta si sforza di creare tra l’una cosa e l’altra; si avverte in fine, quando appunto non si riesce a capire per quale intrinseca ragione non si continui ad esplorare «l’Ellade santa». Intese il D’Annunzio la costrizione del viaggio esteriore; e perciò cercò di ripararvi con passaggi interni, che riuscirono artificiosi; cercò di ripararvi, introducendo nelle visioni reali del viaggio altre visioni richiamate da quelle all’immaginazione; senza dire che a tali richiami egli era disposto anche dal contenuto superumano della poesia; e il Superuomo, lo sappiamo, vuol tutto abbracciare. Ad ogni modo, egli cercò di raggiungere una relativa libertà, rompendo i vincoli del viaggio realistico, e affidandosi al sogno e alla fantasia. Nell’ultima parte, dopo la Grecia, li spezzò definitivamente e lasciò viaggiare la sua anima senza limiti di tempo e di luogo, senza arrivi e partenze. In verità un viaggio dell’anima, com’egli lo desiderava, così avrebbe dovuto essere, dal principio alla fine. Però anche in quest’ultima parte invano si cercherebbe una ragione intrinseca per cui le cose si seguono in quell’ordine piuttosto che in un altro. Il poeta non sa valersi della libertà conquistata: seguita ad errare di qua e di là, quasi fosse ancora costretto da qualche cosa. È costretto veramente da qualche cosa: dalla sua falsa ispirazione; da quella stessa ispirazione, che prima lo aveva vincolato al viaggio realistico; da un’ispirazione, dunque, che non sapeva creare un libero e proprio mondo all’anima viaggiatrice.
Tutto questo difetto di costruzione del mondo «esterno» in cui viaggia l’anima del poeta, dipende, com’è naturale, della deficiente determinazione del viaggio «interno» dell’anima stessa. Più che deficiente deve dirsi falso, nel suo complesso, il viaggio spirituale del D’Annunzio. Veramente non è palese a prima vista per quale cammino egli faccia viaggiare, all’interno, l’anima sua. Pare che il cammino sia questo: il poeta contempla la bellezza della vita ellenica quale si foggiò specialmente nel mito; passa a guardare, per contrasto, alla vita moderna, che gli ispira un indicibile disgusto; raggiunge questa chiarezza: che egli conquisterà sé stesso, la propria pienezza, la propria felicità, solo affidandosi alla sua «Madre immortale», la natura, unificandosi con lei; e dall’unificazione nasceranno nuovi miti.
Cerca ristoro nella verginità della natura colui che, avendo un temperamento morale squisito, è urtato ed offeso dalle malizie del mondo; oppure chi, nauseato della propria vita e tormentato dai rimorsi, cerca fuori del consorzio umano, in grembo all’indulgente madre comune, un lenimento ai propri dolori, un balsamo alle ferite aperte nella coscienza dal peccato. In quale di questi due casi poteva trovarsi il nostro poeta? Nel primo no, certamente; nel secondo sì; ma intendiamoci: data la sua natura, egli vi si poteva trovare come già vi si tro...

Table of contents

  1. Copertina
  2. GABRIELE D’ANNUNZIO
  3. Indice
  4. Intro
  5. IL GIOVANE D’ANNUNZIO
  6. LA ROSA
  7. IL SUPERUOMO
  8. ALCIONE
  9. CONCLUSIONE
  10. Ringraziamenti