Sant'Agostino
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Sant'Agostino

Ernesto Buonaiuti

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Sant'Agostino

Ernesto Buonaiuti

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«Fecisti nos ad te et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te.»
«Ci hai creati per Te Signore, e inquieto è il nostro cuore fintantoché non trovi riposo in Te.»
(Confessioni, I, 1) Aurelio Agostino d'Ippona (Tagaste, 13 novembre 354 – Ippona, 28 agosto 430) è stato un filosofo, vescovo e teologo romano di origine nordafricana ed espressione latina.
Conosciuto come sant'Agostino, è Padre, dottore e santo della Chiesa cattolica, detto anche Doctor Gratiae ("Dottore della Grazia"). È stato definito da Monsignor Antonio Livi «il massimo pensatore cristiano del primo millennio e certamente anche uno dei più grandi geni dell'umanità in assoluto». Se le Confessioni sono la sua opera più celebre, si segnala per importanza, nella vastissima produzione agostiniana, La città di Dio. Ernesto Buonaiuti (Roma, 25 giugno 1881 – Roma, 20 aprile 1946) è stato un presbitero, storico, antifascista, teologo, accademico italiano, studioso di storia del cristianesimo e di filosofia religiosa, fra i principali esponenti del modernismo italiano. Scomunicato e dimesso dallo stato clericale dalla Chiesa cattolica per aver preso le difese del movimento modernista, fu prima esonerato dalle attività didattiche, in base ai Patti Lateranensi tra Chiesa e Regno d'Italia, e poi privato della cattedra universitaria per essersi rifiutato, con pochi altri docenti (appena dodici), di giurare fedeltà al regime.

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Information

Publisher
Passerino
Year
2020
ISBN
9788835854036

Capitolo Secondo

«Maior liber noster, orbis terrarum est;
in eo lego completum, quod in libro Dei lego promissum».
( Ep. 43).

Sant’Agostino non è, come san Tommaso, il teologo da tavolino che con tenace calma elabora il suo sistema, lo cesella finemente in ogni sua parte: è eminentemente uomo d’azione e di polemica. La sua teologia è la traduzione astratta della sua quotidiana opera cristiana, come la sua prassi di vescovo è pura filosofia religiosa in atto. Reduce a pena da Roma e chiusosi nel suo ritiro di Tagaste a menar vita contemplativa con pochissimi amici fedeli, egli ingaggia immediatamente la lotta con la dottrina avversaria del cristianesimo, dalle cui morse egli stesso si era testè svincolato, e i cui predicatori, secondo la stessa frase agostiniana, erano delle insidiosissime reti tese dal demonio per tutto.
Singolare sistema quello che il persiano Mani aveva annunciato e formulato nei suoi scritti nella seconda metà del terzo secolo! Tutte le vecchie correnti della mitologia astrale babilonese erano in esso confluite a rimpolpare il vecchio dualismo mazdeo, sotto l’orpello di superficiali assimilazioni di dottrine giudaiche e cristiane. Era veramente, secondo la definizione di un polemista cristiano, una πολυϰέφαλος αἴρεσις. E appunto per questo forse il suo successo era stato così grandioso. Da meno di un ventennio il profeta della nuova religione era stato crocifisso e la pelle del suo corpo, imbottita di paglia, era stata appesa, ad ammonimento, alla porta di Gundesapur, e già la sua dottrina aveva trasvolato in Siria, in Egitto, in Asia Minore, perfino nell’Africa proconsolare. Verso il 293 Diocleziano dirigeva da Alessandria una costituzione a Giuliano, bandendo la soppressione della setta che insidiava, con le dottrine della non resistenza al male e della malvagità della riproduzione umana, le fondamenta stesse della società. La persecuzione così inscenata non riesce a frapporre ostacoli insormontabili alla propaganda manichea. Per tutto il secolo quarto il manicheismo, strano miscuglio di metafisica e di poesia, che in un’epoca di nessun senso scientifico-sperimentale doveva esercitare con le sue intuizioni un singolare fascino, appare, insieme al neoplatonismo, come uno dei rivali più pericolosi che contendesse il terreno all’avanzata trionfale del cristianesimo.
Frammenti degli scritti di Mani rintracciati di recente in opere di vecchi polemisti cristiani e maomettani; documenti di propaganda venuti improvvisamente alla luce nell’Estremo Oriente, ci pongono oggi in grado di delineare nella sua interezza il profilo della cosmologia e dell’etica manichea, di assaporarne l’esotico sapore, che era sembrato così piacevole al giovane Agostino, partito alla ricerca di una spiegazione razionale dell’universo, da lasciarsene allettare per non meno di nove anni.
– Prima che l’universo visibile, insegnava Mani, avesse origine, sussistevano due supremi principi: l’uno buono, l’altro perverso. La dimora del primo, del Padre della Grandezza, era nella regione della Luce. Egli si moltiplicava in cinque ipostasi: l’intelligenza, la ragione, il pensiero, la riflessione, la volontà. La dimora del sovrano delle tenebre era invece nella terra oscura e le sue ipostasi erano il fumo, il fuoco, il vento, l’acqua, l’abisso. Il sovrano delle Tenebre concepì vaghezza della terra luminosa. Le cinque ipostasi celestiali tremarono all’imminenza dell’assalto. Il Padre della Grandezza pensò: Dei miei cinque mondi, fatti per la gioia e per la pace, nessuno manderò alla guerra. Io stesso affronterò l’avversario. Evocò allora la Madre della Vita e questa a sua volta l’etereo Uomo primordiale. Il quale si coprì da prima con la soave brezza mattutina; si avviluppò di luce come in un mantello scintillante; gettò sulla luce la fluidità delle acque; impugnò il fuoco come una lancia, e si precipitò dall’alto della regione luminosa, alla difesa della sua minacciata frontiera. Lo precedeva un angelo, recante nella destra la corona della vittoria. L’Uomo primordiale proiettava dinanzi a sè la sua luce e, scorgendola, il sovrano delle Tenebre pensò: Ecco, quel che andavo cercando lontano, lo troverò presso di me. Si armò anch’egli dei suoi cinque elementi e affrontò l’Uomo primordiale. In procinto di essere sopraffatto, questi, simile a chi volendo sopprimere un nemico gli dona un dolce avvelenato, pensò di darsi, con i suoi cinque figli, in pasto al vincitore. Ma male glie ne incolse. Quando i figli delle Tenebre ne ebbero assaporato, i cinque dei luminosi che avevano combattuto con l’Uomo primordiale smarrirono l’intelligenza. L’Uomo primordiale però ricuperò presto la ragione e per sette volte levò al Padre della Grandezza un’accorata preghiera. Mosso a pietà, il Padre evoca lo Spirito Vivente e questi vola ad affrancare il prigioniero delle Tenebre. Lo chiama a nome, lo trae con la destra fuori della sua prigione, e si accinge poi a riscattare tutti gli elementi di luce che la vittoria del sovrano delle Tenebre aveva trascinato nell’abisso. A tal fine lo Spirito Vivente comanda a tre dei suoi figli che l’uno uccida, l’altro scuoi gli arconti figli delle Tenebre, il terzo li conduca alla Madre della Vita. La Madre della Vita distende il firmamento con le loro pelli, ne fa dodici cieli. Sono poi gettate le loro carcasse sulla dimora delle Tenebre: ne nascono otto terre. Non era così esaurita la quantità di luce che gli arconti tenevano ancora avvinta. Manifestando loro le sue forme raggianti, lo Spirito Vivente li costringe a restituirne una nuova porzione, per formarne due vascelli luminosi, il sole e la luna, destinati a traghettare la luce adagio adagio affrancata dai vincoli del sovrano tenebroso, e tutte le stelle. Dopo ciò un terzo essere redentore, il Messaggero, imprime a tutta la macchina cosmica così formata il suo ritmico movimento e l’automatico processo di purificazione della luce ha principio.
Quando il sovrano delle Tenebre vide l’immenso piano concepito ed attuato per strappargli gli elementi di luce che la vittoria sull’Uomo primordiale ed i cinque suoi elementi gli aveva procacciato, concepì profondi sentimenti di irritazione e di gelosia, i quali gli suggerirono di foggiare i corpi umani e in essi le forme dei due sessi, la maschile e la femminile, onde imitare i due grandi vascelli luminosi, che sono il sole e la luna. Affinchè, come questi nel processo di reintegrazione cosmica in cui è tutta la ragione dell’universo, servono al trasporto della luce affrancata verso la sua primitiva sede, così i sessi, vascelli nefandi di oscurità, servissero a tenere indefinitamente prigioniera la luce e a farla senza posa trasmigrare attraverso l’esistenza del male e del dolore. Come quando un gioielliere, ritraendo la forma di un elefante bianco, l’incide su di un cammeo; così il sovrano delle Tenebre ricapitolò nell’organismo umano le fattezze del cosmo. Imprigionò l’etere puro nella città delle ossa; suscitò il pensiero oscuro e vi piantò un albero di morte. Imprigionò poi il vento mirabile nella città dei nervi; suscitò il sentimento oscuro e vi piantò un albero di morte. Imprigionò la luce nella città delle vene; suscitò la riflessione oscura e vi piantò un albero di morte. Imprigionò l’acqua monda nella città della carne; suscitò l’intelligenza oscura e vi piantò un albero di morte. Imprigionò il fuoco celeste nella città della pelle; suscitò il ragionamento oscuro e vi piantò un albero di morte. I cinque alberi mortiferi piantati dal sovrano delle Tenebre si espandono nel misero organismo dell’uomo. L’albero del pensiero oscuro preme dentro la città delle vene: il suo frutto è l’odio. L’albero del sentimento oscuro spinge dentro la città dei nervi: il suo frutto è l’iracondia. L’albero della riflessione oscura stimola dentro la città delle vene: il suo frutto è la lussuria. L’albero dell’intelletto oscuro cresce nella città della carne: il suo frutto è la collera. L’albero del ragionamento oscuro sospinge la città della pelle: il suo frutto è la fatuità. L’uomo è così come stretto in un cesto, intessuto di serpenti, che con la testa verso di lui emettono il loro alito velenoso. Per questo la Madre della Vita, l’Uomo primordiale, lo Spirito Vivente, il Messaggero, vollero, continuando la loro opera misericordiosa, invocare per lui un nuovo salvatore. E questo fu Gesù. Gesù, il luminoso e il paziente, destò l’inconsapevole Adamo, e gli additò il lungo martirio della luce nel mondo, esposta agli artigli delle belve e ai denti dei ghiottoni, mescolata a quanto esiste, chiusa nel lezzo delle tenebre. Illuminato dalla grande rivelazione, Adamo si guarda intorno e scoppia in singhiozzi. Leva come belva ruggente la sua voce; si strappa i capelli; e grida: Maledizione a colui che ha formato il mio corpo, che ha così fatto schiava la mia anima di luce; agli arconti tenebrosi che l’hanno trascinata in ceppi! –
La fantastica e lussureggiante mitologia manichea, di cui questa sintesi non è che un pallido saggio, esposta da un predicatore religioso che era nel medesimo tempo un poeta, collegando intimamente la vita dell’uomo a tutta l’esistenza cosmica; introducendo un parallelismo minuto fra il macrocosmo visibile e il microcosmo dell’organismo umano; col pessimismo che era alla sua base e l’ascetismo artificioso cui conduceva; doveva, come ho detto, far facile presa sulla mentalità ascientifica del secolo IV. Era la teosofia del tempo, come la teosofia è il manicheismo dei nostri giorni.
Poichè l’esistenza mondiale non è altro che la continuazione drammatica di una lotta fra il ben...

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