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Prima e dopo il noir
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Un'appassionata e colta ricognizione sul cinema noir dalle origini ai giorni nostri. Dai grandi film hollywoodiani fino alle serie televisive di grande successo degli ultimi anni. Stefano Sciacca è nato a Torino nel 1982. Laureato in Giurisprudenza, ha studiato Human Rights Law presso l'Università di Oxford. È stato Fellow del Nexa Center for Internet & Society del Politecnico di Torino e ha lavorato per l'Organizzazione Mondiale della Proprietà Intellettuale. Collabora con la rivista "Giurisprudenza Italiana" (Utet). Cinefilo e giurista, ha pubblicato Il diavolo ha scelto Torino (Robin, 2014), La vendetta di McKoy (Europa edizioni, 2014), Fritz Lang, Alfred Hitchcock. Vite parallele (Falsopiano, 2015).
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Information
Il cinema espressionista dell’epoca di Weimar elaborò una concezione del rapporto intercorrente tra lo spazio interiore e quello esteriore fondato sul continuo e reciproco scambio di stimoli: l’ambiente circostante, impressionando i sensi dell’individuo, provocava in lui reazioni che influivano sulla sua successiva percezione della realtà circostante che, di conseguenza, risultava trasfigurata di fronte al suo sguardo. Il cinema noir – sotto l’influenza dei registi, degli sceneggiatori, degli scenografi e dei fotografi provenienti dall’Europa – recepì sia l’interesse per la rappresentazione delle manifestazioni psichiche, mettendo ripetutamente in scena incubi, visioni e alterazioni percettive d’altro genere, sia la relazione spazio – mente, proiettando sulla scenografia segnali relativi allo stato soggettivo del personaggio e approfondendo l’influenza ambientale esercitata dal contesto di vita. Al riguardo, assunse indubbio rilievo anche lo studio criminologico, più o meno scientifico, sotteso alla diffusa letteratura hard boiled: racconti e romanzi non si erano limitati a raffigurare un panorama di dilagante violenza e di caos morale, ma si erano spinti a trovarne la spiegazione nelle particolari condizioni della vita cittadina.
Nulla di nuovo, in verità: già Dostoevskij, padre del romanzo criminale – psicologico, aveva intrecciato la vicenda di Raskol’nikov con quella dei degradati paraggi di piazza Sennaja; lo stesso avrebbe fatto più tardi Döblin in Berlin Alexanderplatz.
Un’altra fonte di ispirazione del cinema nero furono certamente i documentari che durante gli anni del muto erano stati realizzati per le vie delle città – opere come Berlin, die Sinfonie der Groβstadt (1927), L’uomo con la macchina da presa (1929) e À propos de Nice (1930), oltre a dimostrare le potenzialità del linguaggio cinematografico di coniugare esigenze di veridicità con aspirazioni artistiche, fornirono uno spunto tecnico e logico, aprendo la strada all’idea della macchina da presa calata in mezzo alla gente, alla ricerca del massimo realismo, durante il pedinamento discreto, quasi investigativo, dei suoi obiettivi narrativi.
Ma non meno rilevanti furono anche modelli americani, come l’attenzione dedicata al contesto urbano dal fotografo pittorialista Alfred Stieglitz e da sua moglie, la pittrice Georgia O’Keeffe; come le opere di Edward Hopper, che si concentrò sul tema della solitudine della vita metropolitana – se ne potrebbe confrontare il dipinto noir I nottambuli con Il caffè di notte di Van Gogh – e quelle di George Bellows e degli altri seguaci della Ashcan School, attratti dall’oscurità e dalla violenza dei quartieri proletari e degli incontri di boxe; come, ancora, la sconcertante fotografia muckraker di impegno sociale di Jacob Riis, di Lewis Hine e di Weegee – quest’ultimo fu il primo newyorkese autorizzato a equipaggiare la propria automobile privata con lo stesso sistema radio utilizzato dalla polizia, circostanza che gli permetteva di giungere sul luogo di un crimine o di un incidente contemporaneamente alle forze dell’ordine, se non addirittura di precederle: un vero e proprio nightcrawler, proprio come il personaggio di Jake Gillenhaal nel neo – noir Lo sciacallo.
La città nuda
La città nuda (1948) di Jules Dassin non è un noir: il film raccontava le indagini condotte da una coppia di ispettori di polizia, accompagnandoli nell’arco delle loro ricerche fino al raggiungimento del loro scopo. Veniva perciò celebrato – attraverso un andamento narrativo da thriller, organizzato attraverso l’alternanza di problemi e soluzioni – il successo delle forze dell’ordine sulla malavita.
Eppure quest’opera assunse notevole importanza nella ricostruzione del contesto cittadino in cui sarebbero stati ambientati i grandi classici del noir, anche in ragione dell’approccio documentaristico che Dassin adottò ottenendo un risultato dotato di straordinario realismo.
Residuava comunque spazio per la finzione ed esso venne colmato attingendo al repertorio del genere: la notte complice del delitto; l’ambizione autodistruttiva; la scoperta di realtà sconcertanti all’esito dell’inchiesta; l’inarrestabile contagio della perversione. Soprattutto, l’attribuzione alla città di personalità propria, sostenendo che possedesse la vocazione a essere il teatro della degenerazione morale dei suoi abitanti, troppo deboli per resistere alle tentazioni a cui erano esposti: la combinazione di luci e di suoni, i traffici continui, la ricchezza di distrazioni e di opportunità le conferivano il fascino irresistibile di una dark lady, capace di esercitare un’attrazione fatale per i più ambiziosi. E Dassin denudò quella femmina seducente e mortale, per svelarne l’anima scura e inquieta.
Là, in mezzo alla strada, sull’asfalto rovente, egli passò in rassegna l’umanità che ribolliva nel calderone metropolitano: i bambini raccolti attorno all’idrante o impegnati a saltare la corda; gli operai sui grattacieli in costruzione; gli automobilisti esausti in coda sulle sopraelevate; fiumi di gente sgorganti dalle rampe degli accessi alla metropolitana. E poi i palazzi slanciati in stile neoclassico, gli enormi caseggiati di periferia, le villette a schiera dei quartieri residenziali; panni stesi nei cortili e scale antincendio: in una parola New York. Un gigante in grado di schiacciare sotto il proprio peso gli animi più deboli e incerti; un galoppo instancabile e sfrenato, indifferente verso chi restava indietro o crollava per il troppo sforzo. Una vera giungla, dove il più debole soccombeva e solo il più forte riusciva a sopravvivere.
Gli interpreti del film vennero invitati a mettere in scena la loro storia – appena «una delle tante» – proprio nel grembo di quella creatura pulsante, che avrebbe intanto raccontato la propria, attraverso la folla brulicante composta non di comparse bensì dei cittadini newyorkesi, dei quali il prologo riconobbe il fondamentale seppur inconsapevole contributo. Le affinità con l’esperimento compiuto dal neorealismo italiano sono evidenti e innegabili, facilmente spiegabili alla luce della comune matrice realista.
Il taglio documentaristico non venne applicato unicamente alle riprese dedicate al funzionamento della città, ma anche a quelle relative alle dinamiche delle indagini di polizia – nel corso di sequenze che possedevano accuratezza equivalente a quella con cui Lang aveva trattato l’argomento in M, il mostro di Dusseldorf (1931) e che Mann avrebbe impiegato in Egli camminava nella notte (1948) – confermando il crescente interesse del pubblico verso la cronaca nera d’inchiesta.
Al di là delle riprese ispirate al puro documentario, la narrazione si mantenne comunque sempre oggettiva e distaccata: non esisteva un vero protagonista del quale approfondire le emozioni interiori, ma una comunità di individui all’interno della quale Dassin indagò le relazioni reciproche – dirigendo con sicurezza molte riprese corali che, nell’insieme, conferirono eccezionale dinamismo al racconto. Nella caccia ai delinquenti da parte delle guardie, a rilevare maggiormente fu la tensione che l’inseguimento sprigionava attraverso la città, il cui skyline, alla stregua di un sipario, apriva e chiudeva l’opera. Il ricorso alla fotografia in controluce le attribuì un’aria crepuscolare e crudele – particolarmente evidente durante la scena in cui i genitori della vittima, giunti dalla campagna per riconoscere il cadavere della figlia, esprimevano l’intenzione di fuggire quanto prima da New York: ai loro occhi era stata proprio la città a condurre la giovane alla morte.
Cane randagio
L’opera di Jules Dassin venne affiancata ad appena un anno di distanza da quella di un grande cineasta: Akira Kurosawa che diresse Cane randagio (1949).
La comparazione di questi due film – e delle due metropoli in essi rappresentate – rivelava che a dispetto del conflitto appena concluso, vincitori e vinti condividevano una simile angoscia, portata a galla in entrambe le narrazioni attraverso l’espediente tipicamente noir dell’inchiesta.
Nel film di Kurosawa, oltre alla rappresentazione del contesto urbano, ebbe carattere noir anche la trama investigativa: come in molti classici hollywoodiani del genere, la ricerca materiale diventava indagine esistenziale e il protagonista, mano a mano che ne veniva coinvolto, scopriva quanto buio e spaventoso fosse l’abisso nel quale la società era sprofondata, sotto il peso del degrado morale che dilagava attraverso le strade della sua città.
Del resto, l’incidente che aveva innescato la ricerca – il furto della pistola subito dal protagonista, un agente di polizia – determinò un coinvolgimento personale degno di quello dell’attacchino in Ladri di biciclette (1948), vale a dire un’altra opera in cui la vicenda individuale si era intrecciata, spesso confliggendo, con quella collettiva: anche in Cane randagio, il poliziotto risentì della diffidenza e dell’ostilità di molti esponenti di quella comunità all’interno della quale tentava faticosamente di riscattare la propria colpa. Da questa un fato beffardo aveva fatto discendere una serie di conseguenze tragiche, la cui responsabilità gravava sulle spalle del protagonista, avvilito e amareggiato quanto alcuni reietti del cinema nero. Kurosawa, che venne spesso accostato a Ford – per la capacità di celebrare l’epica e l’eroismo dei samurai, come il regista americano aveva fatto rispetto ai pionieri del west – operò in questo noir il ribaltamento di prospettiva tipico del western, trasformando l’uomo della legge in un cane randagio, costretto a scendere nella strada e a confondersi in mezzo all’umanità a cui avrebbe dovuto dare la caccia; svestito dell’autorità conferita dalla sua arma, egli si ritrovò a vivere un allucinante incontro con la realtà del disagio, scoprendo che tutti quanti, poliziotti o criminali, erano stati vinti dalla Storia.
Kurosawa affrontò lo spunto noir in maniera estremamente personale, facendo cogliere al giovane e sfortunato protagonista l’occasione per raggiungere la definitiva maturazione: in questo senso, il suo film possedeva anche le caratteristiche del racconto di formazione – il cui genere elettivo è il thriller. L’abbondanza di passaggi articolati sul ricorso alla tecnica sguardo – reazione assicurava l’adesione alla prospettiva soggettiva del personaggio, nella cui condizione di particolare coinvolgimento emotivo qualunque sviluppo procurava un accumulo di suspense e permetteva di isolare le sue reazioni, distinguendole da quelle di coloro che lo circondavano, mettendo così in risalto la solitudine procurata dal senso di colpa. Una condizione che venne lenita da qualche insperato gesto di solidarietà e, soprattutto, dall’interazione con gli esponenti di un’altra generazione: trovava così applicazione il topos del legame virile, nella declinazione maestro – allievo, cara in particolare alla tradizione orientale, in un’ottica di reciproco completamento.
Rispetto alle caratteristiche del thriller, però, Cane randagio presentava due significative differenze: la critica sociale – attraverso cui la tragedia acquistava una dimensione collettiva – e la mancanza di un antagonista monodimensionale. Il ladro di pistole non era meno sventurato del protagonista e di lui non sarebbe stato possibile affermare con certezza che si trattasse di un animo malvagio; al contrario, anch’egli era vittima di un ambiente disgregato, della fame e della disperazione. Affiorava così il tema della doppiezza del carattere umano, inesorabilmente condizionato dalla debolezza della carne: secondo la lezione langhiana qualunque individuo si sarebbe potuto trasformare in un criminale, specie se costretto dalla necessità – e, in tal senso, Kurosawa aveva fatto del suo malvivente, per usare l’immagine di Chandler, colui che «ha un motivo per commettere» il delitto.
Per fornire una spiegazione sociale al suo impulso, il regista raccontò con l’oggettivo distacco proprio del documentario la vita della popolazione di Tokyo, sui mezzi di trasporto, per le strade dei quartieri popolari, allo stadio da baseball, negli alberghi e nei locali notturni, suscitando l’impressione della fatica, del dolore e della sopraffazione, esasperati dall’insopportabile umidità.
Una condizione di insofferenza condivisa anche dal protagonista, i cui passi si trascinavano sempre più stancamente, mentre l’immagine dei suoi occhi si sovrapponeva alle riprese delle caotiche vie cittadine.
La relazione empatica istituita da Kurosawa non coinvolse unicamente l’ambiente urbano, ma si estese altresì a quello naturale e, sulle orme di Munch, cielo e animo si specchiarono l’uno nell’altro.
La 25a ora
La città nuda – vale a dire New York – venne nuovamente indagata attraverso un’opera a tinte scurissime realizzata all’inizio del nuovo millennio dal regista afroamericano Spike Lee, La 25a ora (2002).
Raccontando l’ultimo giorno di libertà di un uomo condannato al carcere – seguendo un andamento narrativo tipicamente noir, organizzato sulla successione di flashbacks e l’inizio in medias res – il film ne confrontò la lenta agonia, sull’orlo del baratro, con la condizione della metropoli, ferita e traumatizzata all’indomani dell’attentato terroristico al World Trade Center.
Anzi, Lee affrontò in maniera esplicita la correlazione tra il senso di straniamento suscitato dalla contemplazione del caos urbano e il cedimento individuale di fronte alla tentazione criminale, nel corso di una suggestiva sequenza che vide il protagonista impegnato in un esame di coscienza di fronte allo specchio.
Documentarista, oltre che regista – primo afroamericano ad aver ricevuto un Oscar alla carriera – Lee passò ai raggi X il disgregato tessuto sociale di New York: scosso dalla follia dell’estremismo religioso e culturale, egli immaginò che anche le diverse comunità etniche della città volessero nella difficoltà isolarsi nella diffidenza verso il diverso. Lo sfogo corrispondeva però al turbamento del protagonista, che nella difficoltà si sentiva abbandonato dalla sua amatissima città. Alla quale il film – il primo che abbia potuto mostrare le rovine delle Torri gemelle, simili a un cratere inquieto, pronto a risucchiare un’umanità ormai irrimediabilmente corrotta e perduta – costituì uno spassionato omaggio da parte di uno dei suoi più celebri cittadini.
A parte questo suggestivo passaggio, l’intero racconto era dominato dal sospetto, soffocante e insopportabile, che grava sulla schiena del protagonista: qualcuno lo ha incastrato. Ma che sia stata la fidanzata portoricana o i malviventi russi per cui lavorava; che sia stato uno dei suoi amici di infanzia, l’esaurito e megalomane broker o il frustrato professore di letteratura; che sia stato il padre assente e alcolizzato o persino l’intera città, violenta e indifferente, sembrò essere del tutto irrilevante.
Forse non si sarebbe mai scoperto, così come mai si saprà tutta la verità sull’attacco dell’undici settembre: quel che contava era piuttosto sovrapporre lo stato di angosciosa incertezza provato dal protagonista con l’isteria nella quale era sprofondata la città, rafforzando il parallelismo tra tragedia individuale e tragedia collettiva tipica del cinema della disperazione.
Del noir, del resto, ricorrevano molti stereotipi: il crimine, la ricerca, l’atmosfera perversa e ossessiva, la polemica contro le istituzioni, il senso della solitudine – accentuato dalla trovata di matrice autoriale di separare in due ogni gesto d’affetto e d’amicizia – la struttura narrativa straniante.
Straniante fu anche il finale del film, a cavallo tra sogno e visione: Lee lasciò aperta la strada a due opposte alternative, quella del carcere e quella della fuga lontano dalla città, alla ricerca di una nuova vita, al riparo dalle colpe del passato. Sarà stato davvero possibile? E, soprattutto, come sopportare la lontananza da New York, verso cui il protagonista poteva aver sfogato la propria rabbia ma alla quale restava incatenato da un amore intossicante?
Il fascino irresistibile del grande colpo
Il racconto noir è sempre incentrato sul crimine e, anche quando non lo commette in prima persona, il protagonista ne resta comunque suo malgrado coinvolto o ne subisce impotente l’attrazione ossessiva.
Le ragioni, di carattere individuale e collettivo, da cui scaturisce la pulsione che lo determina costituiscono uno degli interessi primari della narrazione.
Questa viene condotta alla stregua della pura cronaca, secondo uno stile improntato alla verosimiglianza, quasi quello del rapporto redatto da un detective privato, nel quale il crimine, indagato a trecentosessanta gradi, è raccontato tanto nella fase dell’esecuzione quanto in quella preparatoria, tenendo sempre conto delle emozioni e della tensione provate dai suoi autori: un approfondimento...
Table of contents
- Dal bianco al nero
- Strada e anarchia
- Il compromesso hollywoodiano: sul modello di neutralizzazione della rivolta sociale
- La città nuda
- Le catene della colpa