Autobiografia alcoolica
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Autobiografia alcoolica

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Jack London (pseudonimo di John Griffith Chaney London, San Francisco, 1876) scrive questa Autobiografia alcoolica nei primi mesi del 1912, qualche anno prima della sua controversa e prematura morte, ancora avvolta nel mistero: un'overdose "volontaria" di antidolorifici, un'intossicazione o un definitivo attacco di sifilide? È comunque il momento di una pesante ricaduta nel vizio del bere. Subito dopo un tormentato viaggio a New York, lo scrittore, completamente sbronzo, decide di rasarsi a zero i capelli. Usando le sue parole, quelle stesse della sua autobiografia, John Barleycorn ha ancora una volta la meglio sul povero essere umano che conquista con le sue lusinghe di eterna felicità. Autobiografia alcoolica è l'esempio più maturo delle capacità narrative di London, un racconto intriso di ricordi personali ora tristi e ora dolenti, solo di rado felici e spensierati. Memorabili rimangono gli inizi avventurosi sulle navi dei cacciatori di foche, i postriboli del porto di Oakland, le macabre, oscure anticipazioni di un probabile suicidio a venire. E non meno suggestive sono le parentesi sentimentali, come il primo amore, il primo bacio o il continuo riferimento all'amicizia virile. Un uomo attratto dal nomadismo e dall'avventura, ex operaio e cercatore d'oro, utilizza come chiave di lettura della sua stessa vita il vizio definito "casuale" per l'alcool, la disperata volontà di sfuggire al bicchiere e l'impossibilità autodistruttiva di rinunciarvi. Il suo "bere scientificamente" non salva London dalla schiavitù della bottiglia. Una summa ironicamente alcoolica di tutte le prove letterarie di London, un testo fondamentale per comprendere la sua poetica e mettere a fuoco la sua inimitabile facilità nel narrare la lotta umana per la quotidiana sopravvivenza.

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Jack London
Autobiografia alcoolica

I

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Tutta questa storia risale a un giorno, diciamo così, “elettorale”. In un pomeriggio californiano caldissimo, ero sceso a cavallo dalla mia fattoria nella Valley of the Moon per votare una serie di riforme proposte per cambiare la costituzione dello Stato. Faceva così caldo che avevo bevuto molti bicchieri prima di deporre la mia scheda nell'urna, e molti altri subito dopo. Poi, sempre a cavallo, avevo attraversato le colline coperte di vigne e le praterie del ranch. Per colazione ero di ritorno.
- Come hai votato a proposito del voto alle donne? - mi chiese mia moglie Charmian.
- Ho votato favorevolmente.
Le sfuggì un'esclamazione di sorpresa. Devo dire che in gioventù, malgrado la mia ardente fede democratica, mi ero dichiarato contrario al voto per le donne. Qualche anno dopo, diventato più tollerante, lo avevo accettato ma senza entusiasmo, quasi come un fenomeno sociale inevitabile.
- Spiegami un po' perché hai votato a favore, insisté Charmian.
Le risposi; e le risposi a lungo... indignato. Più parlavo e più mi indignavo. (So cosa pensate: no, non ero ubriaco. È che la giumenta che avevo cavalcato portava il nome, più che giustificato, di Ribelle, ed era ben difficile rimanere in sella). Tuttavia - come dire? - mi sentivo bene, ero allegro, eccitato.
- Quando le donne potranno finalmente votare, - dissi, - voteranno per il proibizionismo. Saranno le mogli, le sorelle, le madri, e solo loro, che inchioderanno la bara di John Barleycorn (letteralmente “chicco d'orzo”, e il termine che indica l'alcool e la birra negli Stati Uniti n.d.t.).
- Ti credevo un suo caro amico... - interruppe Charmian.
- Oh certo, lo sono, meglio, lo ero. Cioè, no. Non lo sono mai stato. Non provo mai così poca amicizia per lui come quando sono in sua compagnia; eppure, lo so, sembra che io gli sia tanto attaccato. È il re dei bugiardi e, insieme, è la sincerità fatta persona. È il compagno regale col quale si passeggia insieme agli Dei. Ma è anche il più intimo amico della Morte. Ti conduce alla nuda verità e alla morte. Inventa le visioni più chiare ma pure i sogni più immondi. È nemico della vita ma possiede una saggezza superiore a quella della vita stessa. È un assassino dalle mani insanguinate, un assassino della giovinezza. Charmian mi guardava, e sentivo che si chiedeva dove avevo preso tutto ciò che le stavo dicendo.
Continuavo a parlare. L'ho già detto, ero eccitato. Nella mia testa i pensieri sembravano prigionieri nelle loro celle, reclusi che aspettavano, nel cuore della notte, il segnale per evadere. Ogni idea era una visione luminosa, un'immagine netta, dai contorni precisi. La fiamma bianca dell'alcool illuminava il mio cervello. John Barleycorn, che rappresentavo, mi confessava i suoi più intimi segreti, in un attacco di traboccante sincerità. I molteplici ricordi della mia vita passata, allineati come soldati in rivista, si mettevano in moto. Non avevo che da prendere e scegliere. Signore del mio pensiero, padrone del mio vocabolario e forte di tutta la mia esperienza, mi sentivo perfettamente capace di padroneggiare i miei ricordi e di esporli in bello stile. Sono queste le furbizie e i trucchi di John Barleycorn: fa sbocciare in farfalla le crisalidi della vostra intelligenza, vi sussurra intuizioni della realtà, e lancia solchi purpurei nella monotonia piatta delle vostre giornate.
Raccontai a grandi linee la mia vita a Charmian e le spiegai come si era formato il mio carattere. Non ero uno di quegli alcoolizzati ereditari che nascono con l'organismo predisposto. Ero, per la mia generazione, un essere normale. Avevo acquisito da me il gusto per l'alcool, non senza fatica, perché dapprima l'avevo trovato ripugnante, e mi nauseava più di qualsiasi medicina. Anche adesso il suo sapore mi dispiaceva: bevevo solo per la sua azione stimolante, cosa della quale non mi preoccupavo molto, fra i cinque e i venticinque anni.
Erano stati necessari vent'anni di allenamento per imporre al mio organismo una tolleranza ribelle e provare nelle profondità del mio essere il desiderio dell'alcool.
Raccontai i miei primi incontri con lui, confessai le mie prime sbornie, insistendo sulla sola cosa che in fin dei conti aveva avuto ragione di me: la facilità di procurarsi quel veleno. Non soltanto era stato sempre accessibile, ma tutte le preoccupazioni della mia giovinezza mi avevano attratto verso di lui. Strillone di giornali per strada, marinaio, minatore, vagabondo in giro per il mondo, ho constatato che dappertutto, dove gli uomini si radunano per scambiarsi idee, millanterie e provocazioni, per ridere, per riposarsi e dimenticare il monotono lavoro delle giornate o delle notti estenuanti, si ritrovavano invariabilmente davanti a un bicchiere d'alcool. II saloon è un luogo di riunione in cui ci si raduna come i fedeli in una chiesa, come gli uomini primitivi intorno al fuoco dell’accampamento o all'entrata della caverna.
Ricordai a Charmian gli hangar per le piroghe, lei non aveva potuto visitarli nelle isole meridionali del Pacifico. I cannibali dalle capigliature crespe ci andavano a divertirsi e a bere fra loro, lontani dalle loro donne. A loro l'entrata nel luogo sacro era proibita, rischiavano la pena di morte. Quando ero giovane, grazie al saloon, mi ero sottratto all'influenza meschina delle donne ed ero entrato nella società ampia e libera degli uomini. Tutte le strade portavano al saloon. Là convergono le mille strade romanzesche dell'avventura e di là divergono verso i punti cardinali.
Riassumendo, - dissi, terminando la mia predica, - è stata la facilità di procurarmi l'alcool che me ne ha dato il gusto. Non sapevo proprio che farmene di questa specie di droga! Anzi, ridevo di lei. Ma eccomi qui, alla fine, posseduto dal desiderio di bere: ci sono voluti vent'anni perché si radicasse in me; e durante gli altri dieci anni che seguirono, questo desiderio non ha fatto che aumentare. Ma, soddisfacendolo, non provo mai alcun beneficio. Per temperamento ho il cuore sano e lo spirito allegro. Tuttavia, quando passeggio in compagnia di John Barleycorn, sto male per tutte le torture che inflegge il pessimismo intellettuale.
- Eppure, mi affrettai ad aggiungere, - (mi affretto sempre ad aggiungere qualcosa) bisogna rendere giustizia a John Barleycorn. Dice apertamente la verità, e questo è il suo male. Le pretese verità della vita sono false. Sono delle menzogne essenziali che la rendono possibile, e John Barleycorn infligge loro la sua smentita.
- Non è a favore della vita ... - disse Charmian.
- Giustissimo, - risposi - Ecco il peggio. John Barleycom lavora per la morte. Per quello oggi ho votato in favore della riforma, per l'abolizionismo. Ho gettato uno sguardo retrospettivo sulla mia vita e ho scoperto che la facoltà di procurarmi l'alcool mi aveva reso un viziato. In una generazione nascono di fatto pochi alcoolizzati: intendo coloro la cui costituzione organica reclama imperiosamente il bere, e li conduce irresistibilmente al male. La grande maggioranza dei bevitori abituali nascono non solo senza desiderio per l'alcool, ma con una reale ripugnanza. Il primo, il secondo, il ventesimo bicchiere, anche il centesimo, non riescono a procurare loro alcun gusto. Hanno imparato a bere proprio come si impara a fumare (benché sia più facile cominciare a fumare che bere), e tutto questo perché l'alcool è così facile da trovare. Le donne sanno benissimo quali sono i suoi effetti: le mogli, le sorelle e le madri. E il giorno in cui voteranno, sarà a favore della proibizione. La generazione futura non ne soffrirà affatto; non avendo alla sua portata l'alcool, e non essendovi predisposta, non ne sentirà la mancanza. Il risultato sarà una salute migliore per i giovani e una maggiore vitalità per le ragazze chiamate a condividere con loro l'esistenza.
- Perché non scrivi queste cose per i giovani? - domandò Charmian. - Perché non insegni in questo modo alle mogli, alle sorelle e alle madri come dovranno votare?
- Le memorie di un alcoolizzato! - dissi ironicamente; più di me fu John Barleycorn che mostrò i suoi denti, perché era seduto a tavola con me e ascoltava la mia piacevole dissertazione filosofica; e uno dei suoi tiri prediletti è quello di trasformare bruscamente il suo sorriso in un ghigno. - No, - disse Charmian, ignorando deliberatamente la volgarità di John Barleycorn, come molte donne hanno imparato a fare. - Tu non sei mai stato un alcoolizzato; tu hai semplicemente preso l'abitudine di bere; hai finito col fare la conoscenza di John Barleycorn, a forza di stare in sua compagnia. Metti tutto nero su bianco, scrivilo, intitolalo “Autobiografia alcoolica”.

II

Prima ancora d'incominciare, vorrei accattivarmi la simpatia del lettore; e poiché questo sentimento si risolve in una reciproca comprensione, desidero che mi si conosca molto bene, fin dall'inizio, per comprendere il personaggio e il tema di questo libro.
Per prima cosa, senza avere un'innata predilezione per gli alcoolici, sono diventato un inveterato bevitore. Non ho il cervello grosso e non ho vissuto senza pudore. Conosco l'arte del bere dalla a alla z; e, nelle mie bevute, ho sempre dato prova di discernimento. Non barcollo mai, e non ho mai avuto bisogno di nessuno per mettermi a letto. In una parola, ho un temperamento medio e normale, bevo secondo una media normale, quando se ne presenta l'occasione; ed è precisamente su un tipo di questo genere che voglio descrivere gli effetti del bere. Non ho assolutamente nulla da dire su quei bevitori esagerati che si chiamano alcoolizzati, perché non dò la minima importanza alla loro mania fuori controllo.
Esistono, parlando in generale, due tipi di ubriaconi: quelli che conosciamo tutti, stupidi, senza fantasia, che, con le gambe larghe e vacillanti, regalano spintoni e sbattono spesso per terra chi incontrano; vedono, nel parossismo della sua estasi, i topi azzurri e gli elefanti rosa. Questi tipi ispirano ogni genere di caricatura umoristica. L'altro tipo d'ubriaco ha fantasia e visioni. Tuttavia, anche nel caso della più potente sbornia, cammina dritto e con un passo naturale, senza mai barcollare né cadere, sapendo esattamente dove si trova e quello che fa. Non è il suo corpo a essere ubriaco, è il suo cervello. Secondo il caso, farà il brillante o si espanderà in cordiali manifestazioni d'amicizia. Forse intravederà degli spettri e dei fantasmi, ma intellettuali, d'ordine cosmico e logico, la cui vera forma è quella del sillogismo. Così, questo ubriaco intellettuale, mette a nudo le più sane illusioni della vita e considera il collare di ferro della necessità scolpito nella sua anima. L'ora è giunta, per John Barleycorn. Metterà tutta la sua astuzia per esercitare il suo potere. L'ubriaco ordinario ruzzola facilmente a terra; ma quale terribile prova, per l'altro, di stare dritto, ben solido sulle sue gambe, e di concludere che nell'universo intero non esiste per lui che una sola libertà: quella di anticipare il giorno della sua morte! Per un uomo così, quest'ora è quella della Logica pura (ne riparleremo più avanti), in cui sa che può soltanto conoscere la legge delle cose, - e mai il loro significato. Un'ora pericolosa, durante la quale i suoi piedi s'incollano al sentiero che conduce alla tomba... Tutto è chiaro ai suoi occhi. Tutte le aspirazioni illusorie verso l'immortalità non sono che i terrori di anime in preda all'idea della morte, e sono tre volte maledette per il loro dono di fantasia. Non possiedono l'istinto del trapasso: manca loro la volontà di morire, quando suona la campana. Si illudono di giocare con la morte, per guadagnarsi un avvenire personale, abbandonando gli altri animali alle tenebre della tomba o all'ardore divorante del forno crematorio. Ma il nostro uomo, in quel momento in cui giudica freddamente le cose, sa che quelle anime s'illudono e sono vittime di se stesse. La fine del dramma è la stessa per tutti. Non c'è niente di nuovo sotto il sole, nemmeno quella fanfaluca dietro la quale sospirano le anime deboli: la solita immortalità. Questo ubriaco, ben piantato sulle sue gambe, non ignora niente. Sa che è fatto di carne, di vino e di schiuma, di atomi solari e di polvere terrestre; è un fragile meccanismo destinato a funzionare per un certo tempo, più o meno lungo secondo i dottori in teologia e i dottori in medicina; per essere, alla fine buttato nella spazzatura. Naturalmente tutto questo è una malattia dell'anima, è la malattia di vivere. È il prezzo che deve pagare l'uomo dotato di fantasia per la sua amicizia con John Barleycorn. Quello imposto all'uomo stupido è più semplice, più comodo. Lui si ubriaca fino a cadere in una sciocca incoscienza; si addormenta, i suoi sogni, se ne ha, sono confusi e inerti. Ma all'essere dotato di fantasia, John Barleycorn invia i sillogismi spettrali e spietati della Logica pura. Viviseziona la vita e tutte le sue futilità con l'occhio incazzato d'un filosofo tedesco pessimista. Intravede tutte le illusioni, trasmuta tutti i valori. Il bene è cattivo, la verità è un inganno, la vita una farsa. Dalle altezze della sua calma demenza, egli considera, con la certezza di un Dio, che tutta l'esistenza è un male. Sotto la luce amara e fredda della sua logica, la moglie, i figli, gli amici, rivelano i loro travestimenti e le loro miserie. Indovina quel che si agita nel loro intimo; e tutto quel che vede, è la loro fragilità, la loro meschineria, la loro anima sordida e compassionevole. Loro non possono più farsi gioco di lui. Sono dei miserabili piccoli egoisti, come tutti gli altri nani umani, che s'agitano nella loro danza effimera percorrendo la strada della vita, privi di libertà, semplici marionette nelle mani del caso. Lui è come loro, e se ne rende conto; ma con questa differenza: lui vede e sa. Lui conosce la sua unica libertà: può affrettare il giorno della sua morte. Tutto questo non conviene troppo a un uomo creato per vivere, amare ed essere amato. Tuttavia il tributo che si deve pagare a John Barleycorn è il suicidio, rapido o lento che sia. Una fine improvvisa o una lunga decadenza. Nessun amico suo sfugge alla fatale, mortale, scadenza.

III

La prima volta che mi sono ubriacato avevo cinque anni. In quel giorno, molto afoso, mio padre lavorava nei campi. Mi mandarono dalla fattoria, che si trovava distante mezzo miglio, a portargli un secchiello di birra. “E stai bene attento a non versarla”, mi raccomandarono prima di partire. Era, per quanto mi ricordo, un boccale molto largo e senza coperchio. Mi allontanai a piccoli passi, ma la birra mi si rovesciava sulle gambe. Camminavo e riflettevo. La birra era un alimento molto prezioso. Pensavo dovesse essere straordinariamente buona; perché, altrimenti, mi impedivano sempre di berla, a casa? I miei genitori mettevano lontano dalla mia portata molte altre cose che avevo trovato eccellenti. Anche la birra doveva esserlo. Ad ogni modo, il boccale era strapieno. Mi imbarazzava e gocciolava sulla polvere. Perché buttare via quel liquido? Nessuno avrebbe capito se ne avessi bevuto o solo rovesciato un po'. Ero così piccolo che per bere dovetti sedermi per terra e mettere il recipiente sulle ginocchia. La schiuma, che assaggiai per prima, era disgustosa. Il sapore così tanto prezioso della birra mi sfuggiva. Evidentemente non risiedeva nella schiuma, il cui gusto era tutt'altro che buono. Allora mi ricordai di aver visto le persone grandi soffiare sulla schiuma prima di bere. Affondai il viso nel recipiente e aspirai il liquido che le mie labbra toccavano. Era tutt'altro che buono ma continuai a bere. I grandi sapevano quello che facevano. Continuai a bere senza sapere quanto, come se trangugiassi una medicina, in fretta, per terminare presto la prova. Quando ripresi a camminare fui preso dai brividi. Pensando che il buon gusto della birra mi si sarebbe rivelato in seguito, feci parecchi altri tentativi, durante quel lungo, interminabile mezzo miglio. Poi, allarmato dal fatto che la quantità era sempre meno, mi ricordai come si faceva per far spumeggiare di nuovo la birra riposata; presi un bastone e agitai forte, fino a che la schiuma non raggiunse l'orlo. Mio padre non si accorse di niente. Vuotò il boccale con la sete terribile del lavoratore, me lo restituì, e riprese il suo posto dietro i cavalli. Io mi sforzai di camminare al loro fianco. Mi ricordo che vacillavo, che caddi fra le loro zampe, davanti all'aratro, correndo il pericolo di rimanere schiacciato. Mio padre tirò violentemente le redini. Mi disse poi che per poco non avevo corso il rischio d'essere fatto a pezzi. Ma ricordo pure vagamente che mi trasportò in braccio verso gli alberi che si trovavano all'entrata del campo; che tutto girava intorno a me, e che ero preso da orribili nausee, alle quali si aggiungeva la costernazione per la colpa che sapevo d'avere commesso. Passai il pomeriggio a dormire sotto gli alberi, e quando mio padre mi svegliò, al tramonto, mi sentii come un bambino molto malato, che si trascina penosamente fino a casa. Ero sfinito, oppresso dal peso delle mie braccia e gambe, e nello stomaco sentivo una vibrazione simile a quella di un'arpa, che mi saliva alla gola e alla testa. Il mio stato somigliava a quello di uno avvelenato. In realtà ero davvero intossicato, perché quella birra, come, in genere, tutta la birra americana, era molto alcoolica. Durante le settimane e i mesi che seguirono, ebbi per la birra lo stesso interesse che si può avere per un fornello quando si è rimasti scottati. Le persone grandi dicevano il vero: la birra è cattiva per i ragazzi. La bevevano senza ripugnanza ma facevano così anche per le medicine e l’olio di ricino. Quanto a me, potevo continuare a farne a meno senza il minimo inconveniente. E fino al giorno della mia morte sarei di sicuro riuscito a farne a meno, se le circostanze non avessero disposto in maniera diversa; se in ogni angolo del mondo in cui vivevo, John Barleycorn non mi avesse aspettato e chiamato, senza che ci fosse il modo di evitarlo. Ci volle un'intimità di vent'anni, durante i quali gli resi gentilezze su gentilezze, e non lo lasciai mai senza avere la lingua ardente, prima ...

Table of contents

  1. I
  2. XVI
  3. XXXIII