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Il commissario De Vincenzi. Quattro inchieste
About this book
Quattro inchieste del famoso Commissario milanese: La barchetta di cristallo, Il banchiere assassinato, Giobbe Tuama & C., Il mistero di Cinecittà. Carlo De Vincenzi indaga fra le brume del capoluogo lombardo e, in un'occasione, anche tra le star del cinema nella Capitale. Secondo di una serie di volumi dedicati al Commissario della Mobile milanese.
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Information
Topic
LiteraturaSubtopic
Clásicos
Augusto De Angelis - Il commissario De Vincenzi – Quattro inchieste
LA BARCHETTA DI CRISTALLO
Parte prima - Il quadrante tragico
Prologo
Lunedì
(Sincronia)
ORE 21
Margaret traversò piazza della Scala troppo in fretta, e molti passanti cercarono dietro di lei, per vedere se fosse inseguita. Ma era bella e subito tornavano con lo sguardo al suo corpicino sottile e agile, stretto nella pelliccia corta.
Investito dalla luce cruda delle lampade della Scala, il volto della ragazza apparve talmente bianco, che le labbra tinte erano una ferita, i capelli d'oro un'aureola. Nulla di strano che fosse senza cappello, se andava a teatro. Mefistofele. Le automobili facevano coda. Il portiere in polpe bianche apriva gli sportelli, maestosamente.
Ma la ragazza non andava a teatro.
Quando ebbe voltato per via Verdi, fece alcuni metri proprio di corsa. Poi tornò a camminare. Poi a correre di nuovo. Stringeva la borsetta di coccodrillo contro il petto. Voltò ancora per via dell'Orso, ma evidentemente aveva sbagliato cammino o ebbe un pentimento, perché si fermò, ritornò sui suoi passi, tagliò diritto per via Brera.
Un giovanotto in frac e gibus, che procedeva lentamente sul marciapiede opposto, calzandosi i guanti bianchi, la vide, fece un gesto di sorpresa, traversò rapido la strada, la seguì, chiamandola: «Margaret!».
Lei rallentò. Non si volse. Attendeva che la raggiungesse.
Nella penombra della piazzetta, l'uomo le fu a fianco. «Perché?».
«È necessario».
«Ma è una pazzia! Pensate a voi stessa».
«E poi?».
Riprese a correre. L'uomo si fermò. La guardò allontanarsi. Scosse il capo. Alzò le spalle e si voltò per riprendere la sua strada, terminando d'infilarsi i guanti.
Margaret piegò per via Fiori Oscuri.
ORE 21
Perché ogni volta il cuore le faceva quello scherzo? Proprio una spugna che si strizzasse, cacciando dai pori tutta l'acqua. Effetto nervoso. Doveva dominarsi. Un po' anche il busto che la stringeva, contenendo il seno. Era ridicolo portare il busto, quando tutte le altre oramai, anche vecchie, portavano la fascetta. Ma lei era troppo grassa. Che gliene importava d'esser grassa? Un'altra decadenza la martoriava, non quella del corpo.
Sedette. Era lei sola al tavolo quadrato, davanti al tappeto verde. Nell'angolo opposto già due tavoli erano occupati: i fanatici del bridge. Il resto della sala era vuoto.
Mise le mani grassocce sul tappeto. Ne tese una per prendere il mazzo delle carte, già pronte, accanto alle colonnine degradanti dei gettoni. Ma si fermò. Non doveva toccare le carte, prima che fossero giunti gli altri. Perché pensò a questo? Ecco! Si volse verso la porta. Lo sapeva, lei! Il cavaliere l'osservava, ritto sulla soglia, con quel suo sorrisetto mellifluo, fregandosi le mani. Non trovò altro che fargli anche lei un sorriso di saluto. Lui si avvicinò, a passettini cauti, deponendo con circospezione i piedi dolenti sul pavimento. E continuava a fregarsi le mani. «La prima, questa sera, contessa!». E le diceva contessa, pur sapendo che lei non lo era, che non lo era mai stata, perché il conte era morto senza sposarla, lasciandole per tutta eredità due figli e quella irrisione di sentirsi chiamare con un titolo, che lui non aveva voluto darle, come non le aveva lasciato il palazzo e i denari dell'eredità.
Le si accesero le gote flaccide. Il cuore! Sempre il cuore. Difetto di circolazione. Macché! Le stecche rigide del busto, invece...
«Sua moglie non è ancora venuta, cavaliere?».
Lo era, poi, cavaliere, lui? Segretario del circolo era, e marito della presidentessa, ma cavaliere! Chi ce lo aveva fatto, se dall'Oriente erano arrivati a Milano da tre anni appena? E in Oriente, che facevano quei due?
Già! La presidentessa stava scrivendo un libro sulla Cina. Liù, fior d'acanto. Liù? Fior d'acanto? Una beffa! Il libro non era mai terminato e nessuno ne aveva letto una pagina...
«Mia moglie viene sempre assai tardi... Vincerà stasera? Oh! certo! Deve vincere...».
Maledetto! E continuava a stringersi le mani, a fregarsele, come se spremesse qualcosa.
Sicuro che doveva vincere! Pensò ai due biglietti azzurri chiusi nella borsetta di raso amaranto, che teneva in grembo.
E se li avesse perduti? Il cuore le dette una fitta acuta.
«Ecco i suoi compagni, contessa!».
Li aveva sentiti arrivare, perché non s'era voltato neppure. Entrarono: Nennele Baroncelli, Delia Vitelleschi marchesa del Verbano, Carletto Vinci.
La Vitelleschi aveva tutti i suoi brillanti. Oh, le sarebbe bastato uno di quei brillanti, quello di centro alla collana, enorme! Perché portarli indosso, tutti, ogni sera? E il cuore le si strizzava come una spugna, dentro il busto.
ORE 21
«Buona sera, signor Marco!».
Il vecchio non rispose, come al solito.
«Che ora è?» chiese dall'interno dello sgabuzzino mal rischiarato la voce arrochita del marito.
«Sono le nove: è uscito adesso il "matto del secondo piano"...» rispose la portinaia, accarezzando il gatto bianco, che le dormiva sulle ginocchia.
Il signor Marco era già lontano e voltava da via Fiori Oscuri per via Borgonuovo, verso il Naviglio, col rumore ritmico del bastone sul lastricato. Il cappello rotondo, a staio, di quelli che si portavano cinquant'anni prima, mandava riflessi, quando l'uomo passava sotto i fanali.
Traversò la piazza, davanti al sagrato della Chiesa, costeggiò il Tombone, proseguì lungo il parapetto del canale. L'acqua era nera, fonda, gorgogliante. Fece tutta la via San Marco, fino ai Bastioni. Fu a Porta Nuova che si incontrò con l'uomo che l'aspettava davanti alla casettina disabitata del Vecchio Dazio.
«Andate adesso?».
«Ne parleremo. Non son cose da discutersi mentre si passeggia al chiaro di luna...».
In quel momento la luna usciva un poco di tra le nubi gonfie.
«Come farete?».
«Eh!...».
Si abbottonò il pastrano turchino, appoggiandosi al bastone. Osservava il suo interlocutore, che doveva apparirgli vestito con un'eleganza troppo vistosa, così massiccio e tozzo, col petto sporgente, le spalle quadre, la vita stretta. Lo osservava dal sotto in su, sollevando le palpebre illividite sulle sue pupille acute e beffarde. «È presto... Andiamocene a giocare a scacchi!».
L'uomo contenne una bestemmia. «Lo sapete che non so giocare!».
«Ma so giocare io! E gli scacchi è l'unico gioco che uno può fare da solo...». S'incamminò. «A ben pensarci, è meglio andare subito... Alle dieci chiudono il portone».
L'altro gli si teneva al fianco, sovrastandolo: il vecchio, con tutta la sua tuba, gli arrivava alla spalla.
Per il bastione deserto, sull'asfalto, si sentì lo scricchiolio delle suole nuove del giovane e il ritmo cadenzato del bastone col puntale d'acciaio.
ORE 21
Fissava a occhi sbarrati l'immagine del proprio volto riflesso nello specchio. Si era trascinato a fatica dalla poltrona alla mensola dorata e vi si appoggiava, curvo verso la specchiera. Era come se si fosse guardato nell'acqua verde di uno stagno.
L'immagine del volto gli appariva livida, cadaverica, fantomatica. La specchiera era antica, autentica. Tutto autentico nel suo palazzo, e tutto antico. Come la sua nobiltà, come il suo enorme corpo anchilosato, con le vene indurite dall'arteriosclerosi. Tutto? No. Una cosa c'era che non era antica e che non era autentica. Né nobile. Sua moglie!
«Il signor marchese vuole coricarsi? Il signor marchese vuole il suo decotto? Il signor marchese ha ordini per domani? Domani è il giorno del Gran Premio...».
Si volse. Pietro stava immobile in mezzo alla stanza.
«Domani mi farai portare uno specchio nuovo! Un vero specchio, capisci? Nel quale sia possibile vedersi... Andrai tu stesso a comperarlo».
«Il signor marchese sarà servito».
«È inutile che tu lo dica alla marchesa!».
«Naturalmente».
«E poi telefonerai al dottor Narboni... il notaio... il mio notaio... di venire alle undici da me... Che non manchi!».
«Sta bene, signor marchese».
«E anche di questo è inutile che tu parli a mia moglie».
«Naturalmente, signor marchese».
«Dammi il decotto».
Tornò alla poltrona, vi cadde a sedere, sospirò.
Mentre il cameriere si dirigeva alla porta, per andare a prendere il decotto, trasse dalla tasca della veste da camera una lettera e la tenne tra le mani, contemplandola. Il volto gli si era orribilmente contratto in una smorfia di nausea dolorosa. Volse lo sguardo verso la fiamma del caminetto. Lentamente tese la mano sul fuoco, aprì le dita, la lettera cadde sul ceppo. Il foglio s'annerì, si accartocciò, divampò...
Pietro entrava col vassoio d'argento.
1
Martedì
(Due cadaveri tra le sfere)
ORE 1
L'aria della sala da gioco del Decamerone cominciava a farsi irrespirabile. Sette tavoli erano ancora in opera, quattro di bridge e tre di poker.
Ventotto persone, di cui più della metà donne, giocavano e fumavano.
Liquori verdi, bianchi, gialli nei bicchieri di cristallo.
Gettoni bianchi, neri, rossi, a mucchi, a colonnine, a file serpeggianti, presso le scatole delle sigarette, ai portasigarette, alle borsette d'oro, di raso, di cuoio, di velluto, d'avorio.
Pupille verdi, grigie, azzurre, castane, nere; acquose, arse, brillanti, spente, allucinate, dilatate; immobili, guizzanti, fisse, danzanti.
Sorrisi, ghigni, smorfie.
Spalle: nere, grigie, turchine degli uomini; bianche, arrossate, carnose, flaccide, sode, opulente, ossute, frementi, al bianco di Spagna, alla cipria di Coty, al talco di Rimmel, delle donne. Spalle curve, spalle immobili, spalle convulse.
E mani: l'eloquenza ingannevole di quelle mani coi cartoncini di bristol fra le dita!
«Passo».
«Apro».
«Cento».
«Duecento».
«Piatto».
«Vedo!».
Rumore di gettoni. Silenzio. Il silenzio, in una sala da gioco, ha sempre qualcosa di formicolante, di viscido; è sempre colmo di fermentazione molecolare, come il silenzio di una notte illune sopra uno stagno melmoso. Un riso breve, saltellante. Una parola mozza. Una frase tagliente. Rumore di gettoni. Fruscio di un foglio gualcito nervosamente. E poi di nuovo il rosario monotono delle parole convenzionali, ermetiche e grottesche come il gergo d'una confraternita segreta.
«Ah! il cuore, che mi si strizza come una spugna... Ho già tolto i due fogli azzurri dalla borsetta di raso... Li ha lei, li ha lei! E ride!...».
«Perché si comprime il petto a quel modo, con le balene del busto?! Ma è folle... Spera, forse, che la sua grassezza oscena non si veda? E gioca e perde... Davvero potevo fare a meno di mettere...
Table of contents
- *
- 7
- 14
- 6. «Non so!... Non so nulla!»
- 13. Tentativi
- Capitolo VI
- Capitolo XII
- 10. Intervallo
- 23. Il fazzoletto colorato