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L'Inquisizione e i Calabro-Valdesi
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«Questo libricciolo racconta, premesso un rapido sguardo sul risorgere dell'Inquisizione, una storia caduta dalla memoria degli uomini, l'umile storia di alcune migliaia di semplici agricoltori, che non si occuparono mai di politica, non furono rei d'avere mai scritta una pagina, non contesero ad alcuno nemmeno col pensiero le signorie della terra, contenti al governo delle mandrie, al lavoro ed al frutto dei campi, adorando Dio Padre secondo le tradizioni dei loro antenati e la loro coscienza». (F.D.B.)
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Information
Topic
Theology & ReligionSubtopic
ReligionL’INQUISIZIONE E I CALABRO-VALDESI
CHE SI PROPONGA L’AUTORE
Questo libricciolo racconta, premesso un rapido sguardo sul risorgere dell’Inquisizione, una storia caduta dalla memoria degli uomini, l’umile storia di alcune migliaia di semplici agricoltori, che non si occuparono mai di politica, non furono rei d’avere mai scritta una pagina, non contesero ad alcuno nemmeno col pensiero le signorie della terra, contenti al governo delle mandrie, al lavoro ed al frutto dei campi, adorando Dio Padre secondo le tradizioni dei loro antenati e la loro coscienza. Questo è l’unico delitto dei Calabro-Valdesi; questo li fece sacri alla morte, dietro una legge non ancora sconfessata, da un tribunale che ancora sussiste. La storia quasi sempre non va visitando le sepolture che per riavvolgere nel suo manto illustri cadaveri, sui quali pesano il più di soventi rimembranze di sociali sciagure e di grandi colpe. Non sdegni una volta l’umile fossa di chi oscuro, ma onestamente vissuto, per avere obbedito alla propria coscienza, non poté nondimeno sfuggire alla gelosia di fierissima istituzione, la quale, facendosi giustiziera di Dio, ha devastato la terra, l’ha coperta di sangue e di notte, poiché uccidesse i corpi per salvare le anime.
Innamorato della mia patria, alle sue sorti devoto, da più anni mi affaccendo nel tessere il lungo e negletto martirologio della coscienza italiana, perché gli Italiani sappiano quanto sia preziosa e cara la libertà , quante lagrime e quanto soffrire ci costino le speranze presenti, sebbene commiste ad ineffabili angosce, e come sia grave in tutti ma inesorabile l’obbligo di sollevare baluardi non superabili tra noi ed il passato, fra la libertà che dobbiamo assicurare a qualunque costo e le vecchie tirannidi, che minacciano sempre - siano queste politiche o religiose, siano cadute o cadenti, funestissime tutte, ma pessime le seconde senza contrasto. La vita or piena di cure e le circostanze poco serene negandomi l’agio di subito compiere e pubblicare sì arduo lavoro, perché imbelle ed ozioso contro il vero nemico della libertà universale, della patria italiana e delle anime, un solo giorno non volga, insieme composi e ordinai queste note, forse peregrine soltanto per la luce che l’una dall’altra ricevono. E cosi aggiungo una trama alla tela del nostro martirologio.
Benché prema l’urgenza della questione di Roma, ignoro pur sempre, e ne sento angoscia, se vogliano le menti italiane occuparsi di siffatti argomenti, che sono i vitali. Larghe suonano le parole; per gli effetti, io ne dubito. Perché l’Italia nulla ha potuto finora contro la potestà temporale di Roma? Questa sola domanda altre molte ne include e tutte gravissime, che meriterebbero una profonda attenzione. Le sorti dei popoli sono scritte nella loro coscienza, e la nostra fu appena sfiorata. Benché non sia certo d’essere grato ai miei concittadini, scongiurandoli a meditare sul religioso problema, che per noi si confonde a quello politico, io non intendo meno compiere all’obbligo mio dalla corteccia politica richiamandoli sempre all’interna sostanza, al midollo, ai motivi che ci fanno tremare sulle prossime sorti della nostra emancipazione. Noi abbiamo finora scosse ed in parte infrante le catene delle mani e dei piedi. Ma siamo per questo liberi noi? Siamo sì poco liberi che disdegniamo, se non ignoriamo, le condizioni della nostra libertà . Le catene che stringono tra i loro invisibili anelli le forze dell’anima, l’anima stessa, vera fonte di tutto, durano intatte. E sono pur esse le adamantine, le possenti catene che per servile consuetudine portiamo non avvertite in tutte le cose spirituali; inceppano, non che individui, generazioni e popoli, estinguono ogni volontà iniziatrice, spogliano l’anima d’ogni morale fierezza, traggono insensibilmente entro abissi che non han fondo e innamorano delle sterili voluttà della morte, onde si muore e non si sa di morire.
Quando a sveglia non valgano i nudi e severi ragionamenti, talvolta sussidiano le patite sperienze. Ricordiamo adunque! ricordiamo sempre! almeno ricordiamo, quando si voglia misurare i tristissimi effetti delle dottrine di Roma! Le quali, forse benefiche un giorno, oggi sono la nostra pietra d’inciampo. Mentre condannano tutti quelli che han sete di verità e di giustizia; mentre disseccano tutte le fonti della vita morale, e contraddicono alle stesse nozioni di libertà , di famiglia, di patria, pure continuano a governare; anzi ne son governati quei medesimi, che si vantano di sfuggirle o combatterle. Giacché per usi radicati da secoli, per tradizionale persuasione cui niuno nemmeno pensa di sottoporre ad esame, per grandi monumenti, di cui han coperto la terra, queste dottrine sono commiste al sangue, han filtrato lo spirito loro e il loro veleno nelle più intime fibre socievoli del paese: onde i popoli le assorbono nascendo, le respirano coll’atmosfera, se ne nutricano ad ogni modo, studiando, conversando, anche nei piaceri, perfino guardandosi intorno. Né valga addurre la scienza, ch’è tutta laica, tutta umana, emancipata da essa interamente nei suoi principii, nei suoi metodi e nelle sue conseguenze. La scienza non ha potuto ancora impregnare lo spirito delle moltitudini e commuovere il sentimento, come lo può, come lo deve e come sarà . E qui si noti che il sentimento governa la donna nelle credenze e negli atti. Mentre lo sposo, il fratello o l’amante si agitano nelle lotte del secolo nostro, la donna vive ancora nella religione semibarbara dei mezzi tempi, straniera se non ostile al moto che seco trae irresistibilmente le comunanze civili, guardiana gelosa delle più assurde tradizioni sotto il domestico tetto; perciò la donna col fascino delle sue grazie e della sua affettuosa ignoranza, per debito di coscienza, oltre che essere nelle case nostre l’orecchio e l’occhio dell’inimico, conserva ed alimenta nella società intera una dualità funestissima, una guerra intestina. Roma in Italia possiede ancora la donna, cioè il focolare. Quindi, non che gli Italiani possano conquistar Roma, anzi tutto dovrebbero a questa riprendere il loro santuario domestico.
La Chiesa tanto comprende questa sua forza, che nella donna ora colloca la somma della propria vittoria o della sconfitta. E tutta si adopera per esaltarne l’entusiasmo, per vie più accaparrarsene l’anima. Che importa alla Chiesa, se meglio diventi ogni giorno l’antitesi della scienza, esagerando quella parte ascetica delle cristiane dottrine, che la natura direttamente combattono e formano un meditato e paradossale rovesciamento del senso umano, quando ciò le giovi ad agire sull’animo femminile? Chi non studia a fondo queste condizioni e necessità della Chiesa, nulla potrà comprendere nel suo moderno atteggiarsi anche di faccia al dogma. Roma insiste puramente e seccamente sui dogmi scolastici della Trinità , della duplice natura e via dicendo; non mai vi si arresta non vi s’inspira, non vi desume il suo metodo o la sua pratica forza d’azione. Nondimeno a quei dogmi, egli non è molto, essa ve ne aggiunse un altro, sul quale preme in ogni maniera, adoperando a proselitismo la parte meno razionale del suo cristianesimo. E perché? Perché sa che il femminile sentimento di questo modo la segue. Giovandosi dell’estatiche creazioni o dei santi furori di Teresa di Gesù, di Caterina da Siena, di Maddalena dei Pazzi, feconda le sue teorie sul sacrificio e sulla pietà cristiana, affascinando con quelle felicità che insegna riposte nel contrario della felicità , moltiplica le strane divozioni del Sacro-cuore, fa salire più alto il culto di Maria. Perciò la Chiesa, poco badando alle sue decisioni e indecisioni, in quest’ultimi anni volle coronare gli ardenti voti di tutti gli asceti del medio-evo, ed ha proclamato il trionfo dell’elemento femminile nel seno istesso di Dio, tra il Padre e il Figliolo facendo sedere regina la Madre. Dopo siffatta invasione di Maria nella Trinità , questo dogma è modificato nella sua natura, nella sua forza; poiché, se non vi fosse altro, la terza persona, lo Spirito Santo, giace obliata senza amanti né adoratori; ed è rotta quella catena di successione del peccato originale, onde chi nasce uomo è gravato dalla prima ed eterna maledizione di Dio.
Anch’esse le moltitudini del contado, somigliando in più cose nella indole loro alla donna, sono per lo più possedute da Roma, che con identico sistema le governa non liberandole dalla loro miseria, anzi condannandovele ma porgendo loro nel calice stesso della miseria soavi speranze e magiche consolazioni per una altra vita. Le immagini che per le chiese delle nostre campagne muovono gli occhi e piangono, sono sempre di Maria. Gesù vi è appena conosciuto di nome; i precetti del quale per i contadini si perdono in un vago luminoso, confusi in tutto e per tutto a quei della Chiesa. Ora lusingati, ora atterriti nei sensi, la morale ed il rito diventano per essi una cosa sola, discendono tanto da essere i pagani dei nostri giorni, e adorando la Chiesa credono adorar Dio. Che ne verrebbe se fosse dato di far loro toccare le immense contraddizioni che passano tra il fondatore del cristianesimo e i pretesi suoi successori?
Questo libro ne indica una, dimostrata le mille volte. Gesù ripugnava assolutamente dall’uso della forza materiale sulla coscienza; poiché quel rivelatore dell’anima umana credeva non solo la forza impotente contro la semplice idea, contro la pura bellezza della verità , ma ergeva le cose morali dell’anima in un regno sovrano, creava nel cielo, nel regno spirituale per eccellenza, in Dio Padre, com’egli si esprimeva, la libertà . Tutta in ciò si racchiude la redenzione del genere umano. La chiesa di Roma, abdicando a questo regno, non poté sottrarsi a naufragio ed a morte che con la forza; introdusse quindi nella sua religione il terrore, lo confuse persino all’idea della religione; ed è non solamente lontana per infinita distanza dal Cristo, ma è fuori d’ogni verità e d’ogni giustizia, poiché contraddica alle leggi immutabili della natura, cioè della vita.
GIOVANNI VALDES A NAPOLI
A chi percorre superficialmente la storia nostra, o la studia con gli occhi della letteratura ortodossa, sembra l’Italia un paese, ove sulle dottrine di Roma in ogni luogo ed in ogni tempo fu pieno e sincero consentimento, ove l’intelletto di molti non ardì mai ribellarsi alla fede, e il regno spirituale del papa durò incontrastato e sicuro dagli anni dell’apostolo Pietro, che non vide mai Roma, fino ai dì nostri. Qui non occorre rispondere che quanto importa al subietto nostro: per la prima metà del secolo decimosesto, il vero sta nella contraria sentenza.
La maggioranza degli uomini còlti, anche nella Chiesa, discordava affatto dalla chiesa papale, e batteva un cammino che per alcuni traeva alla riforma germanica, per altri, precursori dei moderni ardimenti, al filosofico impero della ragione. Anche le nuove religiose dottrine di Alemagna e di Svizzera non erano in parte che naturale frutto dell’italiano risorgimento, dell’universo impeto nell’esaminare le fondamenta e il passato d’ogni istituzione, d’ogni studio, d’ogni legge. La riforma non era in fondo che una restaurazione delle antiche dottrine cristiane, prima che subissero le modificazioni volute dalle necessità e dalla barbarie dei mezzi tempi, suscitate dalla turpitudine dei romani disordini. E la riforma, se non fosse altro, valse all’Europa che in qualche luogo almanco si mantenesse la libertà degli studi e delle opinioni, cioè il germe prezioso d’ogni libertà . Anzi nel settentrione della penisola nostra, lungo le alpi, si conservò più lungamente che altrove la indipendenza religiosa da Roma, in quella gran Diocesi d’Italia, che aspetta sempre uno storico. Dal 1100 andò restringendosi rapidamente, finché tra i marosi dell’oceano invadente romano non sopravvissero liberi e incontaminati, come isola ignota, che alcuni gruppi di montanari, i Valdesi.
Il terreno era dunque preparatissimo dappertutto a ricevere i semi della riforma. Essi avevano cominciato a diffondersi fin sotto Leone X. Il disegno di questo lavoro vietandoci un lungo discorso sulla propaganda evangelica, basterà qualche cenno su Napoli; e poi sarà necessario dipingere il trasmutarsi severo dell’Inquisizione romana sotto Paolo III, perché sia più facile comprendere le fiere cose che seguiranno.
Ei sembra che i primi germi di tali opinioni siano stati fra il popolo napoletano diffusi dai due mila cavalieri e sei mila fanti circa, i quali dopo il sacco di Roma vennero a pugnare il Lotrecco, insegnando con i fatti il disprezzo alla Chiesa [1] . Nell’alte classi, già molti quasi inconsciamente le dividevano; e per opporsi all’invasione dell’eresia Gaetano da Tiene e Giampetro Caraffa, indi Paolo IV, fondavano a Napoli nel maggio dell’anno 1533 una casa di Teatini.
Quegli però che più valse a diffondervi le idee riformate, fu lo spagnolo Giovanni Valdes [2]. Gentiluomo di Cuenca nella Nuova Castiglia, nacque ad un parto con Alfonso, segretario del grancancelliere imperiale Mercurino Arborio di Gattinara, poi di Carlo V; ed Alfonso fu dagli storici il più delle volte confuso con Giovanni. Questi, fin dal 1528 col fratello difensore ed amico di Erasmo, collegò di buon’ora l’eleganza delle lettere alla pietà cristiana, un instancabile amore per lo studio alle idee riformate. Venuto di Roma a Napoli nel 1533, segretario particolare, egli sembra, del viceré don Pietro di Toledo, non lasciò più questi luoghi; e meritò che il Curione lo dicesse nobilissimo cavaliere di Cesare, ma vieppiù onorato e splendido cavaliere di Cristo. Dotto nel greco e nell’ebraico, scrittore spagnolo di rara eleganza, onde il suo dialogo sulla lingua gode ancora di classico nome per le cose e per la forma, professò di buonora, come tanti altri uomini letteratissimi, vescovi, cardinali ed anche inquisitori, il domma della giustificazione per la fede, ch’è il fondamento e la chiave delle idee riformate; poi imprese a sostenerlo e a propagarlo colla penna e colle opere. Tradusse ed espose i salmi dall’ebraico, volse dal greco e commentò largamente l’epistola ai Romani e quella prima ai Corinti; dichiarò nel suo libro delle Cento e dieci Considerazioni gli uffizi dell’uomo cristiano; ed altre pie cose scrisse che in parte sono smarrite. Era di bello e placido aspetto, di modi gentili e dolci; aveva ineffabile soavità nel parlare; onorato per il grado, per l’intelletto e per la santità della vita, egli sembrava nato pastore di persone nobili e illustri, benché fosse di tutta benignità e affetto verso ogni piccola e rozza creatura, ch’ei sperasse guadagnare a più pura fede. Viterbo di cui era vescovo il cardinal Polo, Ferrara per la corte della duchessa Renata e la casa del Valdes sono i tre massimi centri della riforma in Italia, per cui sursero tante chiese evangeliche, dalle quali si sentì minacciata un momento quella di Roma. Il Valdes fu legato con tutti i più chiari novatori del tempo; esso, l’Ochino ed il Martire furono detti a ragione il triumvirato della chiesa napoletana.
Era a quei giorni preposto nell’agostiniano collegio di san Pietro ad Aram, il fiorentino Pier Martire Vermigli, che vinto a sedici anni da religioso fervore, e messosi in un convento di Fiesole, ben presto saliva in gran fama di virtù e di sapere. Appena in Napoli stretta col Valdes una profonda amicizia, questi lo sostenne nelle sue lotte col dubbio e lo determinò per la nuova dottrina; poiché il Martire non avesse trovato nel suo ordine e nella Chiesa che i sembianti della pietà e non la pietà vera, turpi costumi, cadente ogni forma ed accanita opposizione a qualunque rimedio. egli gli dipinse qual fosse la riforma germanica; gli fornì molti libri delle Zwinglio, del Bucero e del Melantone già sotto infiniti nomi volgarizzati, e lo trasse al domma dell’umana giustificazione per la grazia.
Subito corse rumore che a Napoli i protestanti abbondassero; e in sull’aprirsi dell’anno 1536 Carlo V bandiva rigoroso editto contro di loro in tutti i suoi regni. Il quale però a Napoli non condusse persecuzione alcuna, o perché quei sapessero con arte occultarli, o perché il Valdes efficacemente valesse a proteggersi, meglio perché non ancora la chiesa di Roma avesse avvertito il pericolo e nell’Inquisizione medesima non mancassero i seguaci della riforma. Certo è che in quell’anno d’intorno al gentiluomo spagnolo incominciò ad aggrupparsi un eletto nucleo, che poi diventò veramente una chiesa; nella quale in poco volger di tempo entrò il fiore di quella cittadinanza, sì per nascita, che per dignità e per intelletto. Fin sulle prime vi ritroviamo Gian Francesco d’Alois di Caserta, che vi trasse Galeazzo Caracciolo, marchese di Vico, nipote al Caraffa che fu poi Paolo IV, e altri gentiluomini. Intorno al Valdes convenivano pure i più dotti ed illustri uomini che inclini alle nuove idee capitavano a Napoli. Vi s’incontra nel 1538 l’imolese Marcantonio Flaminio, il principe a quel tempo delle latine eleganze, che per causa di salute vi dimorava fino al marzo del 1541. Vi s’incontra Jacopo Bonfadio, la di cui tragica e calunniosa morte a Genova non è ancora chiarita; e per chiudere l’enumerazione, monsignor Pietro Carnesecchi, parente dei Medici, prediletto a Clemente VII, quegli che con l’operosità della vita e con l’estese sue relazioni impresse quasi unità al moto riformatore italiano.
Perché al fascino e all’efficacia del nobile drappello nulla mancasse ne formavano parte le gentildonne, fiore d’Italia per la bellezza dell’animo e delle forme, sospiro ed ammirazione di quel secolo. Basti nominare la marchesana di Pescara, Vittoria Colonna, che dalle delizie della sua vedovile solitudine in Ischia si recava di sovente a Napoli, s’innamorava delle nuove dottrine, ella, la regina del cuore di Michelangelo; Isabella Manricha di Bresegna, sì altamente riverita dal Caro, la quale per la sua fede sofferse l’esilio; e infine la vedova di Vespasiano Colonna, duchessa di Trajetto, Giulia Gonzaga, la più bella donna d’Italia a cui Valdes dedicava i suoi commentarii sulle lettere paoline e sui salmi. Costei, imperatrice sui poeti e su quanti amavano l’eleganza delle umane lettere e della vita...
Table of contents
- Copertina
- L’INQUISIZIONE E I CALABRO-VALDESI
- Indice
- Intro
- A LUIGI MICELI
- L’INQUISIZIONE E I CALABRO-VALDESI
- DOCUMENTI
- Ringraziamenti