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Biografia e rivista critica delle opere di Francesco Domenico Guerrazzi
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Biografia e rivista critica delle opere di Francesco Domenico Guerrazzi
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Francesco Domenico Guerrazzi (Livorno, 12 agosto 1804 – Cecina, 23 settembre 1873) è stato un politico e scrittore italiano.
Fu un intellettuale organico della media borghesia produttiva e democratica del primo Ottocento di cui, muovendo dal particolare angolo visuale dell'ambiente livornese, interpretò le esigenze e le aspirazioni nel campo politico–economico come in quello culturale. Svolse l'attività di politico e scrittore nel movimento risorgimentale. Ferdinando Bosio (Castiglione delle Stiviere, 1824 – Milano, 1879) è stato un religioso, insegnante e patriota italiano.
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Information
eBook ISBN
9791220215374Biografia e rivista critica delle opere di F.D. Guerrazzi
I.
Enrico Politti, con nuovo e certamente lodevolissimo esempio, si propone di sviare l'Italia dai leggeri, artifiziosi e soverchiamente da noi avuti in pregio romanzi francesi, e richiamarla, anco in cotesto genere di letture, alle ricchezze di casa. E, fra i maggiori nostri novellatori sceglie pel primo il Guerrazzi, e ne ristampa le opere, non meno a diletto e ammaestramento del popolo che ad esempio di altri scrittori della penisola.
Pur troppo! noi siamo da qualche tempo venuti in così bassa miseria che, ormai spenti o vicini a spegnersi i migliori de' vecchi, non si discuopre ancora fra i giovani chi prometta pigliare il posto di que' primi e tener salda in sul capo alla gloriosissima patria nostra quella corona che mai non le fu contesa per lo addietro. Dunque non sarà inopportuno nè vano il ricercare, nei pochi veramente illustri che tuttavia ci rimangono, le cose belle e da imitarsi: perocchè, a rifare la tempera degli ingegni, niun mezzo si reputa migliore che il meditare sugli scritti dei nostri grandi e studiare le cagioni per cui si levarono sopra il comune degli scrittori.
Il Guerrazzi, poi, specialmente è notevole per avere, più di ogni altro, anche in una maniera di scritti che parrebbe potersene facilmente allontanare, continuate le gloriose tradizioni di Dante e di Machiavello e degli altri luminari nostri. E appartiene a quella generazione di scrittori che non trattarono l'arte per solo amore di essa, ma la volsero in bella interprete e stromento dell'anima feconda di generosi portati; e, quando ne venne il destro, si studiarono praticare le teorie loro, delle quali se altra potè mai sembrare più opportuna e più savia, niuna fu ispirata da più vivo desiderio del bene. Costoro solamente ripigliarono la penna quando, più non si potendo operare le fortissime cose, il buon cittadino almanco si procaccia la consolazione di scrivere.
Dunque ci giova studiare le opere del Guerrazzi. Ma perchè, come ne avverte il Foscolo nel commento sopra la Divina Commedia, «gli egregi lavori del genio dell'uomo non saranno mai giustamente stimati da chi guardi il genio diviso dall'uomo, e l'uomo dalla fortuna della vita e dei tempi,» sarà pregio, per avventura, dell'opera anche il toccare alquanto, man mano che se ne porga il destro e in ciò che possa aver relazione col suo ingegno e con la sua dottrina, della privata vita e de' tempi di cotesto scrittore del quale il Politti ripubblica e noi torniamo a raccomandare (cosa, del resto, soverchia) i lavori divulgatissimi.
II.
Nato nel 1805 in Livorno da gente antica e popolona, la quale dal contado erasi condotta in città, egli ebbe educatore il padre, intagliatore di bella fama e di maggiore virtù; ammiratore degli antichi tempi e di quelli che agli antichi si assomigliavano, studioso solamente di libri raccontatori di grandi, e magnanime gesta, un uomo da natura scolpito nel porfido, per usare una frase del figlio, con volontà di ferro; anzi Romano del secolo di Catone e di Bruto che Toscano del XIX; vivente a foggia tutta propria, schifo dei volgari costumi, piuttosto cupo che melanconico, per lo più in casa appartato dalla famiglia, e con ciascuno de' suoi sovente volte taciturno la giornata e il mese intero.
L'ebbe a educatore, per modo negativo, s'intende, perocchè la sua educazione consistesse nel lasciar correre e far da sè la natura. La quale, in Francesco Domenico, novissima e fierissima, poteva camminare a sua posta per vie men frequentate e sole, agitata (quasi presentimento dell'avvenire) dagli impeti strani e dai singolarissimi tormenti che le anime eccelsamente poetiche ebbero mai sempre compagni ed avranno, se prima non si dissolva l'universo.
Per maestro gli toccò il barnabita Spotorno, che, più tardi, quando egli fu adulto e chiaro nelle lettere, anche gli si dimostrò critico severo e intollerante; letterato di qualche grido in que' tempi, non privo di certa dottrina, ma solennissimo pedante da spegnere, come acqua gelida, ogni fuoco di genio e da ridurre alla disperazione i suoi migliori discepoli con le prose del Cavalca e le poesie della Bella mano, il Pandolfini, il Castelvetro, lo Speroni, fatti trangugiare a dosi doppie, con il Bembo e il Della Casa, colonne d'Ercole, per suo avviso, così del pensare come dello scrivere.
Il giovinetto, non ostante la eccellente natura, cresceva disattento, svogliato, pigro e fannullone. Meglio avvisato del maestro, gli soccorse allora il padre, donandogli a un tratto e accennandogli, con brevi parole e tronche, di aprire tutta una cassa di libri d'ogni ragione e stampo, salva sempre la morale. E fu un vero rivolgimento; perocchè gli si accese furiosissima addosso la passione di empirsi cupidamente e subito le bolge e il seno di cotesto suo nuovo curiosissimo tesoro, leggendo di sera e di mattino, di giorno e di notte, in qualunque tempo potesse rubare ad altri doveri e sottrarsi alla vigilanza della famiglia inquieta della sua salute. Coteste immense e diversissime letture non giovarono poco a sviluppare la naturale sua virtù e fornirgli in parte quella grande varietà e splendore di forme e ricchezza di tavolozza ch'egli sfoggiò più tardi in ciascheduna delle opere sue. E anche, per il modo con cui le fece bevendo, se corre il vocabolo, e ribevendo l'uno su l'altro e senza molto ordine i libri avuti dal padre, spiegano quel certo «impasto di appassionato e di fantastico, di fidente e di scettico, di dommatico e di analitico, di pauroso e di intrepido, di lusso orientale d'immagini e di formole severe di raziocinio, di esitanza e di impeto, di scoraggiamento e di forza convulsa, e di altre moltissime qualità non contrarianti, ma in antitesi fra loro che hanno colorati i fantasmi usciti dal suo cervello.» Certo il genere stesso delle cose che egli prendeva a descrivere e dipignere ne' suoi libri e l'indole della poesia immensa e varia che gli ribolliva nel cuore e nella mente gli somministrarono le squisite e svariatissime forme; ma furono i modi sopraccennati, come a dire, di varia ragione gemme ch'egli seppe opportunamente incastonare in un anello di foggia tutta sua, a renderlo più brillante e fra gli altri singolare.
Educatore e maestro un giorno non ebbe più che sè stesso. Erasi venuti, per diverso sentire circa un fitto delle terre, a contesa di parole in famiglia; cocciuto il padre e cocciuto anche più di lui il figliuolo, non ci fu modo che l'uno cedesse all'altro. Minacciato, il giovinetto uscì di casa, stranamente deliberato di non rientrarvi più. Ma consumati in un giorno que' pochissimi soldi che aveva seco, e trovatosi la domane al verde e bisognoso d'ajuto, se ne procacciò insegnando a giovani più adulti di lui, rivedendo stampe e traducendo da lingue straniere; perocchè, pure in quell'età piuttosto prossima che superiore alla adolescenza, era dotto di quattro letterature. E giovava per avventura a' suoi studj, come confortava con la mutua dimestichezza e fiducia i suoi affetti, la conoscenza o, meglio, l'amicizia tenerissima in quel torno fatto con Carlo Bini, «anima santa con tanto tesoro d'amore da benedirne una intera generazione,» e giovane d'ingegno grande e novissimo, e di vasta dottrina superiore a gran pezza alla età; il quale conosceva molte lingue e compiutamente la letteratura antica e la moderna di quasi tutta Europa. Erano fatti l'uno per l'altro; e l'affetto del Guerrazzi per l'amico sopravvive alla sua tomba.
Tornato finalmente nelle braccia del padre, che, primo e spontaneo, con miglior senno muovendogli incontro, gliele apriva, indi a non molto toccando i quattordici anni fu condotto allo studio di Pisa per adottorarvisi, col tempo, in legge. Ma degli studj forensi, per gli uomini che gl'insegnavano e per la non troppa disposizione che vi aveva dalla natura, subito infastidì; tanto solamente vi attese da squadrarne il cervello e buscarsi alla debita ora, l'esame. Meglio, anzi appassionatamente, si applicò, libero uditore delle lezioni di Vaccà e di Pacchiani, alla scienza medica. A tutto preferì la letteratura, la poesia; e si travagliava in letture assidue e meditazioni profonde di questa ragione cose. Quand'ecco a Pisa capitare lord Giorgio Byron, con un fardello di fama, non monta se trista o se buona, ma certamente per uomo e scrittore grandissima, straordinaria e quanta al mondo veruno ebbe mai. Guerrazzi invogliatosi di leggerne le opere, le ebbe in presto da Lavinio Spada. La contemplazione di quell'anima immensa dello inglese poeta produsse in lui tale uno sbigottimento da non potersi paragonare con altro qualesivoglia prodotto da più grandiosi o terribili spettacoli della natura, dalla cascata del Niagara allo scoppio di un fulmine a due passi distante, in tempo di furiosissima tempesta. La cagione ne fu l'aver scoperto e ravvisato esser quella una nuova poesia ch'egli stesso, fra tormenti e studj e ricerche d'ogni maniera, aveva gran tempo sospettata, presentita, ma non saputa definire. Byron fu allora, e per molti anni dappoi, la sua musa e il suo Dio; e anche direi, se non fosse bestemmia, qualcosa più che non gli potesse, nelle condizioni dell'anima sua, essere Dio. E comechè più tardi si temperò considerando uomini e cose a traverso un'altra lente che non era la byroniana, questo nondimanco dello antico culto in lui rimase, che, sebbene professi sinceramente democrazia e ne sia uno dei più valenti difensori e apostoli in Italia, ponga, a nostro credere, soverchia fiducia nella azione individuale, assoluta, del genio.
III.
Non dirò ispirato, ma consigliato alla lettura dei poemi e delle tragedie di Byron, tu cominci a sentire il dramma dei Bianchi e Neri scritto nel primissimo fiore degli anni e rappresentato, al teatro Ludovico, in Livorno. Del quale non si potrebbe nè, potendosi, tornerebbe spediente dare una compiuta analisi: invero esso men si distingue per la novità dei casi e dello intreccio o per la singolarità delle persone chiamate in su la scena che per la passione cui sa trarne l'autore. E neanco le persone, nel contrasto dei diversi loro affetti, o biechi o generosi, si possono ritrarre con altre parole se non con quelle che nel dramma profferiscono, chi volesse spiegar chiaramente il concetto o letterario o morale o politico del lavoro. Di cui fu scopo, o volontariamente concepito o raggiunto istintivamente per intuizione di genio, un commento in azione a quella sentenza del segretario fiorentino, con la quale si prova dai privati dissidii fra cittadini derivare, fatale conseguenza, la pubblica rovina della città. E il tema storico, infatti, n'è l'origine di quelle due fazioni in Pistoja, cagionata da rancori e offese vicendevoli di famiglie congiunte di sangue. Il dramma offriva, senza dubbio, maggiori speranze per l'avvenire che merito vero in presente; a cagione di esempio, la verseggiatura non curata abbastanza, la frase a volte soverchiamente dilavata, massime per poesia drammatica, un certo studio e stento troppo apparente non lasciavano ancora presentire la mirabile concisione, la concentrata energia della futura prosa guerrazziana. Nondimanco, oltre il fine bello e generoso, occorrevano scene e concezioni di personaggi non indegne di Guerrazzi più maturo; e avrebbero dovuto meritargli accoglienza migliore dagli spettatori suoi concittadini, cui sarebbe toccato sorreggere benevoli i primi passi di un giovane ingegno ond'era da aspettarsi, col tempo, non piccolo onore alla sua terra. Ma essi non furono con lui, in quella occasione, benigni, nè savj; e gli diedero una fiera percossa, che, per buona ventura, l'anima sua fortissima nobilmente sopportò. Solamente, non considerando che a parecchie prime opere di potentissimi ingegni era toccata e toccherà, pur troppo! la medesima fortuna, egli venne nel doloroso proposito di renunciare per sempre a scrivere per il teatro, cui pure si sentiva chiamato. Nè più valsero a rimuovernelo conforti e preghiere di amici, nè laudi di critici benevoli. Ora, di certe amarezze e sdegni e suoni terribili che soverchiamente incupiscono, a quando a quando, le opere sue fatte di poi, non è forse da credersi che in qualche parte se ne possa accagionare quella prima impressione di dolore e d'ira, rimasta incancellabile nell'animo? Perciocchè ogni cosa passa quaggiù, non mai intera la memoria delle primissime sensazioni della fanciullezza e della adolescenza. Oh quanto ci dovrebbero qualche volta pensare i compaesani e concittadini di giovani d'ingegno, studiosi e ben promettenti di sè!
E amarezze e sdegni e terribili suoni e colori soverchiamente cupi, quali non soglionsi avere a vent'anni, sono nel suo romanzo la Battaglia di Benevento, da lui dettato e pubblicato la prima volta in patria; dove, dopo laureatosi in Pisa e vinta a forza la propensione naturale che ad altre cose e ad altri studi lo traeva, erasi dato all'avvocatura con utile non piccolo suo e piacere grandissimo del padre, il quale sempre ne avea mostrato desiderio. Ma che libro egli era mai cotesto con cui il fiero giovine non pure sfogava la immensa, nobilissima passione di un'anima gigante, ma provava, a un tempo, non potere le ingratissime forensi quisquiglie spegnere nè tampoco sminuire la fiamma di amore ond'egli ardeva per le lettere e per la gloria?
La Battaglia di Benevento è racconto, in stupenda prosa poetica, della calata di quel funestissimo a noi Carlo d'Angiò conte di Provenza e di quella ambiziosa sua moglie Beatrice, quarta delle figliuole di Raimondo Berlinghieri, e non ancora, come le maggiori sorelle, regina: i quali il pontefice Clemente IV, gelosissimo nemico e odiatore acerrimo della illustre casa di Svevia, e i baroni di Napoli traditori chiamarono in Italia nel 1264 a cignervi la corona di Sicilia in danno del re Manfredi, figliuolo di Federigo II. Il romanziere descrive con molto affetto la nobile intelligenza, l'indole veramente regale, le magnanime opere, i generosi conati, il valore infelice di Manfredi e la sua morte gloriosa a Benevento; ma, contro l'opinione stessa di Giambattista Niccolini, il quale dicono ne abbia italianamente restaurata per intero la fama nella sua storia della famiglia di Svevia, mantiene, sopra quel principe l'accusa di parricidio e fratricidio mossagli da storici forse mal prevenuti o indettati dai partigiani de' papi, de' quali egli fu il grande e costante nemico, giusta le tradizioni della sua casa e il cómpito di essa in Italia.
E come se non bastassero tuttavia i delitti molti e diversi di cui gli avversarj soventi volte perfidiando lo caricarono, il romanziere ne trova e gliene appone di nuovi; e si ferma con viva e soverchia compiacenza a colorirli; e della pittura dei rimorsi e delle agitazioni e delle rovine cagionate da essi pare che si inebrii come di un quadro del quale non sappia immaginare altro più bello. La parte buona dell'uomo e del principe, quel tanto di lodevole e glorioso che vi è nella sua vita, il poco di felicità che egli ha meritata e che gode nella sua famiglia tra le braccia della moglie Elena e le carezze della figlia Yole, accanto alla culla del piccolo erede del trono, Manfredino, quasi dilenguansi dietro la tela ov'è dipinta la parte brutta e cattiva; sebbene vi abbiano creazioni stupendamente dilicate e patetiche, come, ad esempio, quella di Yole che altri già disse somigliare un angelo trabalzato dal cielo in mezzo a uno inferno; e scene morali, sublimi, sentite e ritratte con la potenza di Shakespeare. Il figlio di Federico II, del quale forse Guerrazzi con liberale proposito intendeva fare, come per avventura fu, un generoso e grande Italiano, finisce col procacciarsi maggior pietà che ammirazione. Alquanta di questa gli vien conservata perchè, non manco di lui, sono rappresentati con foschi colori i suoi nemici. A costoro, il lettore, tratto dalla virile efficacia della dipintura, non può a meno di maledire. Ma il racconto opprime il cuore, non lo solleva.
Invero, anco gli amori, che per lo più nei romanzi sogliono essere messi a temperare con la soavità loro, la soverchia asprezza di altri affetti, qui compariscono vituperati di colpe e maculati di sangue. A esempio, quello di Manfredi con madonna Spina, madre poi di Ruggero, si conchiude con un colpo di stile che fende a tradimento il cuore di codesta sagrificata sposa del futuro traditore conte di Caserta; e l'altro di Yole con Ruggero, ardente e dilicato amatore che una volta il romanziere stupendamente ti dipinge vegliante sui sonni della angelica amata, più ti abbrividisce che non ti commova quando scuopri che entrambi, amante e amata, hanno un medesimo padre, Manfredi.
Non parrebbe egli codesto un preludio di quella singolare virtù di sarcasmo che il grande Livornese spiegò più tardi maggiormente a parole e in iscritti contro i feroci nemici o i tiepidi amici della libertà e della nazione italiana? Ben è vero che cotesta narrazione comparisce mirabilmente fatta; e agita e scalda nelle vene anco ai più freddi il sangue; e, leggendo, ti senti pieno di terribile commozione il petto e di fiere lagrim...
Table of contents
- Copertina
- Biografia e rivista critica delle opere di F.D. Guerrazzi
- Indice dei contenuti
- Biografia e rivista critica delle opere di F.D. Guerrazzi