Prima di me, arrivò in India il gruppo di Phoenix. Secondo quanto era stato prestabilito, io avrei dovuto precederlo, ma le preoccupazioni avute in Inghilterra per la guerra avevano mandato a monte tutti i nostri piani. Non appena mi ero reso conto che avrei potuto essere trattenuto in Inghilterra per un tempo indeterminato, avevo visto la necessità di trovare un luogo per installarvi i membri del gruppo di Phoenix. Volevo che continuassero a rimanere uniti, se possibile, e facessero la stessa vita che conducevano a Phoenix. Non sapevo però indicare loro una istituzione religiosa, cioè un Ashram dove potessero andare, perciò telegrafai loro di incontrarsi con Andrews e di seguire il suo consiglio.
Così essi furono prima condotti al Gurukul di Kangrii, dove Mahatma Munshiram li trattò come proprî figli . Dopo furono mandati al Shantiniketan Ashram dove il poeta Rabindranath Tagore e la sua gente furono altrettanto ospitali. Le esperienze fatte in questi due luoghi furono di grande vantaggio a loro e a me. Il poeta Tagore, Mahatma Munshiram e Sushil Rudra formavano, come io dicevo scherzando a Andrews, la sua trinità. Nell’Africa del Sud quest’ultimo non si stancava mai di parlare di essi. E i più dolci e vividi ricordi del Sud-Africa sono proprio quelli delle conversazioni che Andrews, di giorno e di notte, mi teneva intorno a questa grande trinità. Perciò Andrews mise in contatto il gruppo di Phoenix con Sushil Rudra. Rudra non aveva un Ashram proprio, ma possedeva una casa che mise subito a disposizione dei membri di Phoenix, ed egli e i suoi furono tanto cordiali ed ospitali con i nuovi arrivati, che questi dopo un giorno si erano già ambientati e non sentivano la nostalgia di Phoenix. Fu soltanto allo sbarco a Bombay che appresi che il gruppo di Phoenix era a Shantiniketan. Ero quindi molto impaziente di rivederne i componenti, appena possibile, cioè dopo aver visto Gokhale.
Appena arrivato a Bombay ricevetti da Gokhale un messaggio in cui mi diceva che il Governatore desiderava vedermi e che sarebbe stato necessario che io accettassi l’invito prima di andare a Poona. Allora mi recai da Sua Eccellenza, il quale, dopo i soliti convenevoli, mi disse:
«Ho una preghiera da farvi. Vorrei che per l’avvenire veniste prima di tutto da me, se avrete intenzione di fare qualche passo che riguardi il Governo».
Risposi: «Posso facilmente darvi questa promessa poiché è mia regola, come satyagrahi, di rendermi conto del punto di vista della parte avversaria, e cercare di accomodarmi con essa in quanto mi sia possibile. Ho osservato nel Sud-Africa questa regola e altrettanto farò qui».
Lord Willingdon mi ringraziò e mi disse: «Potete venire da me quando vorrete e vedrete che il mio Governo di proposito non fa mai nulla di male».
Risposi: «È questa fede che mi sostiene».
Dopo di che andai a Poona. Non mi è possibile ricordarmi esattamente di quel tempo prezioso. Gokhale e i membri delle Servants of India Society, mi colmarono di affetto. Gokhale per ricevermi aveva convocato una riunione della Società, alla quale tenni un franco discorso sui varî argomenti. Gokhale desiderava che io pure mi associassi e questo era anche il mio desiderio, ma i membri furono del parere che essendovi tanto divario tra le mie idee, i miei metodi di lavoro e i loro non conveniva che io facessi parte della loro Società. Gokhale credeva invece che ad onta della mia fermezza nel proclamare i miei principî, io fossi ugualmente pronto e capace di tollerare i loro.
«Ma» egli aggiunse, «essi non hanno ancora compreso la vostra disposizione a transigere e sono tenaci nei loro principî. Spero che finiranno con l’accogliervi; però, se non lo faranno, voi non dovrete nemmeno per un momento pensare che ciò sia per mancanza di rispetto ed amore verso di voi. Esitano solamente a correre un rischio, per tema di mettere a repentaglio l’alta considerazione che hanno di voi. Ma siate o no della Società, io vi considero da ora come se lo foste».
Informai Gokhale delle mie intenzioni. Anche se non fossi stato ammesso a far parte della Società, io avevo bisogno di un Ashram in cui ospitare il gruppo di Phoenix, e preferibilmente nel Gujarat, perché avevo sempre pensato che avrei servito meglio il mio paese servendo il Gujarat. Gokhale approvò quest’idea: «Avete ragione. Qualunque cosa si decida in queste discussioni, voi dovete ricordarvi che considero a mio carico le spese per tale Ashram».
Il mio cuore si gonfiò di gioia. Mi era di gran sollievo sapermi liberato dalla preoccupazione della ricerca dei fondi e non sentirmi solo davanti a questo grande compito. Ora, dinanzi a qualsiasi difficoltà avrei potuto contare su una guida sicura. Fu dunque chiamato il dottor Dev e fu pregato di aprirmi un conto su i registri della Società e di darmi tutto ciò che avrei domandato per l’Ashram e per le altre spese per la causa comune.
Proseguii poi per Shantiniketan. Maestri e studenti mi dimostrarono il loro affetto. Il ricevimento fu un magnifico spettacolo di semplicità, d’arte e d’amore.
Al gruppo di Phoenix furono assegnati dei locali separati a Shantiniketan. Maganlal Gandhi ne era il capo e si era assunto il compito di far osservare scrupolosamente le regole dell’Ashram di Phoenix. Io constatai che per merito del suo amore, della sua sapienza e della sua perseveranza, l’influsso emanante dal suo gruppo si risentiva in tutto Shantiniketan.
C’erano anche Andrews e Pearson. Tra i maestri bengali, facemmo la conoscenza di Jagananda Roy, Nepal Chandra Roy, Santosh Mozumdar, Kshitimohan Sen, Nagen Ganguly, Sarat Roy e Kalimohan Ghose. Come è mio costume, presto mi affiatai con maestri e studenti e iniziai delle discussioni sull’arte di fare da sé. Ai maestri suggerii che se essi e i loro studenti avessero fatto a meno dei servizî dei domestici pagati e avessero preparato da sé il loro cibo, questa innovazione avrebbe permesso loro di controllare i cibi dal punto di vista della salute fisica e morale dei loro studenti, oltre che avrebbe offerto a questi una lezione pratica per fare da sé.
Alcuni scossero la testa davanti a questo mio progetto, ma la maggior parte approvò energicamente. I ragazzi fecero buon viso alla proposta, non per altro, forse, che per l’istintivo gusto che hanno i giovani per le novità. Così tentammo l’esperimento. Quando invitai il poeta Tagore ad esprimere la sua opinione, egli disse che non aveva nulla da obbiettare, se i maestri si mostravano favorevoli. Ai ragazzi disse: «Questo esperimento vi darà la chiave dello Swaraij», cioè dell’indipendenza.
Pearson si prodigò con ogni zelo perché l’esperimento trionfasse. Una squadra fu incaricata di preparare i vegetali, un’altra di pulire i cereali. Altri si occuparono della pulizia della cucina e degli annessi. Era una gioia per me vedere lavorare con tanto entusiasmo. Ma era troppo pretendere che studenti e maestri si adattassero improvvisamente e tanto facilmente a queste fatiche fisiche. Così ogni giorno sorgevano delle discussioni.
Qualcuno cominciò presto dar segni di stanchezza, ma Pearson non era uomo da scoraggiarsi. Lo si poteva vedere in qualunque momento, ilare a sfaccendare in cucina. Si era preso l’incarico della pulizia dei più pesanti utensili. Un gruppo di studenti suonava il «sitar» dinanzi ai compagni che pulivano per distrarli dalla noia del loro lavoro. Tutti si misero all’opera con gioia, e Shantiniketan divenne un alveare operoso.
Avevo deciso di fermarmi qualche tempo a Shantiniketan, ma il destino volle altrimenti. Ero lì da appena una settimana quando ricevetti da Poona un telegramma che mi annunciava la morte di Gokhale. Shantiniketan fu immersa nel lutto. Tutti i suoi membri vennero a esprimermi le loro condoglianze. Una riunione speciale fu convocata al tempio dell’Ashram per commemorare questo lutto della nazione. La funzione riuscì solenne. Lo stesso giorno partii per Poona con mia moglie e Maganlal. Gli altri rimasero tutti a Shantiniketan.
Andrews mi accompagnò sino a Burdwan.
«Credete» mi disse «che verrà il tempo per il Satyagraha in India? E, in caso, avete un’idea di quando potrà avvenire?»
«È difficile dirlo» risposi. «Ma per un anno in ogni modo non si può far niente. Gokhale mi aveva fatto promettere che avrei girato per l’India per accumulare esperienze e che non avrei espresso le mie opinioni su questioni politiche prima di aver compiuto questo periodo preparatorio. Ma nemmeno alla fine di questo anno avrò fretta di parlare e d’esporre le mie idee. E suppongo che per almeno un periodo di cinque anni non sia il caso di pensare d’organizzare un Satyagraha».
A Poona, dopo le cerimonie funebri, ci mettemmo a discutere dell’avvenire della Società e la questione era se io dovessi o no entrare a farne parte. Tale discussione era per me molto delicata. Finché Gokhale viveva io non avevo bisogno di cercare di venire ammesso. Dovevo solo obbedire al suo desiderio; cosa che amavo fare.
Per lanciarmi nel tempestoso mare della vita pubblica indiana avevo bisogno di un esperto pilota. Prima l’avevo in Gokhale e sotto la sua guida mi sentivo sicuro. Ora che egli non c’era più, dovevo contare solo su me stesso e comprendevo che era mio dovere sollecitare questa ammissione.
Molti membri della Società erano a Poona in quel momento. Cercai di perorare la mia causa e di disperdere i loro timori a mio riguardo, ma vidi che non erano tutti concordi fra loro. Un gruppo vedeva di buon occhio la mia ammissione, un altro invece fortemente l’avversava. Sapevo che tanto gli uni che gli altri mi erano ugualmente affezionati, ma forse negli avversarî era più forte il sentimento di lealtà verso la Società: sentimento, in ogni caso, non minore dell’amicizia che potevano avere per me.
Tutte le loro discussioni erano prive di asprezza e riguardavano esclusivamente le questioni di principio. Certe questioni essenziali erano, per esempio, considerate in modo perfettamente opposto da me e dal gruppo avversario, il quale sosteneva che la mia ammissione avrebbe messo in serio pericolo gli scopi per cui la Società era stata fondata. E naturalmente i membri di essa non potevano accettare una condizione simile. Ci dividemmo dopo prolungate discussioni rimettendo la decisione a più tardi.
Ritornato a casa mi sentivo seriamente preoccupato. Era giusto che fossi ammesso nella Società per voto di maggioranza? Sarebbe stato questo atto conforme al mio dovere verso Gokhale? Vidi chiaramente che, poiché l’argomento creava una scissione così violenta tra i membri della Società, la miglior cosa che mi restava da fare era di ritirare la mia domanda. Così pensavo di agire lealmente verso la Società e verso Gokhale.
Questa decisione mi si formò all’improvviso e immediatamente scrissi a Shastri chiedendogli di non convocare più la riunione che era stata solo aggiornata. Coloro i quali avevano avversato la mia ammissione approvarono pienamente questa decisione che li toglieva da una incresciosa situazione e che strinse maggiormente i legami della nostra reciproca amicizia. Il ritiro della domanda d’ammissione mi rese moralmente membro della Società. L’esperienza ora mi dice che fu bene che io non vi entrassi formalmente e che gli avversarî avevano ragione. L’esperienza ha dimostrato anche che i nostri principî erano troppo divergenti. Ma il riconoscimento di questa differenza tra noi non provocò né allontanamento, né asprezza. Rimanemmo come fratelli e la casa della Società a Poona fu sempre per me come la mèta di un pellegrinaggio.
È vero che non divenni un membro effettivo della Società, ma ne sono sempre stato membro in ispirito. Le relazioni spirituali sono più preziose di quelle fisiche. Le relazioni fisiche senza quelle spirituali, sono come un corpo senz’anima.
Quell’anno 1915 era l’anno della fiera di Kumbha , che ha luogo ad Hardwar una volta ogni dodici anni. Io non ero molto desideroso di recarmi alla Fiera, ma volevo incontrarvi Mahatma Munshiram che era nel suo Gurukul. La Società di Gokhale aveva mandato un grosso gruppo di volontarî per il servizio alla Kumbha Mela. Pandit Hridayanath Kunzru era il loro capo e il dottor Dev l’ispettore sanitario.
Io fui invitato a mandare il gruppo di Phoenix ad aiutarli, così che Maganlal Gandhi mi aveva preceduto.
Il viaggio sino ad Hardwar fu piuttosto faticoso. Molti scompartimenti nei treni non erano illuminati. A Saharanpur fummo trasbordati in vagoni merci e bestiame, che non avevano tetto e così con il sole scottante di mezzogiorno sopra la testa e il pavimento di ferro arroventato sotto i nostri piedi, finimmo quasi per arrostirci.
Le torture della sete causata dal viaggio non riuscivano a indurre gli Indù ortodossi a bere acqua, se era «musulmana». Essi ne sopportarono la privazione sino a che poterono avere dell’acqua «indù». Questi stessi Indù, va notato, non si peritano però, in caso di malattia, di seguire il consiglio medico che prescrive vino o brodo e bevono l’acqua offerta loro da un cristiano o musulmano.
Il dottor Dev aveva fatto scavare due fossi che avrebbero servito da latrine. E avrebbe dovuto per la loro pulizia pagare degli operai. Questo era un lavoro per il gruppo di Phoenix. Dev accettò molto volentieri l’offerta. La proposta naturalmente era partita da me, ma doveva essere eseguita da Manganlal Gandhi. Il mio compito era specialmente quello di restarmene seduto sotto la tenda, tenendo discussioni religiose con i numerosi pellegrini che venivano a visitarmi. In breve non ebbi più un minuto libero per me. Fu ad Hardwar che io compresi la profonda impressione che la lotta ingaggiata nel Sud Africa aveva prodotto in tutta l’India. Ma la mia non era una posizione invidiabile. Mi trovavo tra l’incudine e il martello. Quando ero ignoto fra la folla dovevo sottostare a tutti i disagi di cui soffrivano milioni di poveretti in India, come il viaggiare disagevole. Ma da quando ero circondato da coloro che avevano sentito parlare di me, ero vittima di questa follìa per il «darshan» . Non ho mai potuto capire quale delle due condizioni fosse più degna di pietà.
Il giorno della Kumbha era giunto. Non ero andato ad Hardwar con i sentimenti di un pellegrino. Non ho mai pensato di frequentare luoghi di pellegrinaggio per trovarvi la pietà. Ma i due milioni di uomini che si diceva vi fossero stati non potevano essere tutti ipocriti o semplicemente curiosi. Non dubitavo che moltissima gente fosse andata a Hardwar per devozione o per purificazione. È difficile, se non impossibile, dire quanto questo genere di fede eleva l’anima. Passai dunque l’intera notte immerso in profondi pensieri. Vi erano delle anime pie in mezzo agli ipocriti ed esse sarebbero state riconosciute pure di ogni colpa dal Creatore. Se la visita ad Hardwar era un peccato in sé, io dovevo protestare pubblicamente e lasciare Hardwar il giorno stesso della Kumbha. Se il pellegrinaggio ad Hardwar e la Kumbha non erano un peccato, io dovevo impormi qualche sacrificio per espiazione dell’iniquità che vi dominava, e così purificare me stesso.
Questo era per me affatto naturale. La mia vita è basata su delle risoluzioni di disciplina. Pensai all’inutile disturbo che io avevo recato sin qui ai miei ospiti in India che mi avevano accolto con tanta generosità. Perciò decisi di limitare gli alimenti della mia dieta e di fare l’ultimo pasto della giornata prima del tramonto. Ero convinto che se non mi fossi imposto queste limitazioni avrei messo i miei futuri ospiti in serî imbarazzi obbligandoli a servire me, mentre avrei dovuto io servire loro. Così giurai a me stesso, che mai, finché fossi rimasto in India, avrei preso più di cinque qualità di cibo nelle ventiquattr’ore e non avrei mai mangiato dopo il tramonto. Considerai le difficoltà che dovevo affrontare, ma non volevo lasciarmi alcuna scappatoia. Mi domandai che cosa mi sarebbe successo in caso di malattia, se avessi contato le medicine tra quei cinque alimenti giornalieri e se non avessi fatto eccezione per speciali cibi. Venni nella decisione che non avrei ammesso eccezioni per nessuna ragione.
Da quindici anni io mantengo questi voti, che sono stati per me una dura prova, ma anche il mio scudo di difesa. Hanno prolungato di qualche anno la mia vita e mi hanno salvato da molte malattie.
Mi fu di grande sollievo arrivare al Gurukul e trovarvi il Mahatma Munshiram con la sua mole gigantesca.
Sentii subito il meraviglioso contrasto tra la pace del Gurukul e lo schiamazzo e la confusione di Hardwar. Il Mahatma mi colmò di affetto. I Brahamachari erano pieni di attenzione.
Qui fui per la prima volta presentato all’Acharya Ramadevji e potei immediatamente constatare quale forza e potere emanassero da lui. Avevamo idee differenti su molte cose, ma tuttavia la nostra conoscenza si mutò presto in amicizia. Ebbi lunghe discussioni con Acharya Ramadevji e con altri professori sulla necessità di introdurre una scuola industriale al Gurukul. Quando venne il momento di partire, il distacco fu per me doloroso. Proseguii per Hrishikesh.
Molti sannyasi vennero a cercarmi appena giunsi; uno specialmente si sentiva attratto verso di me. Il gruppo di Phoenix era ospitato là, e la sua presenza suggerì allo Swami di rivolgermi molte domande. Avemmo delle discussioni in materia religiosa ed egli constatò che io sentivo le questioni religiose profondamente. Mi vide tornare a testa scoperta e a torso nudo dopo aver preso il bagno nel Gange. Gli dispiacque di non vedere sulla mia testa lo shikha (ciuffo di capelli) e il cordone sacro intorno alla mia vita e disse: «Mi duole di vedere che un credente indù come voi non abbia il cordone sacro e lo shikha. Sono i due simboli esterni dell’Induismo e ogni Indù dovrebbe portarli».
Ma ecco un aneddoto a questo riguardo. Quando ero ancora un monello di dieci anni, invidiavo ai ragazzi bramani i mazzi di chiavi appesi ai loro cordoni sacri e desideravo poter fare altrettanto. L’uso di cingersi del cordone sacro non era allora comune nelle famiglie Vaishya a Kathiawar. Ma si era iniziato proprio allora un movimento per renderne obbligatoria l’adozione nelle prime tre caste. Il risultato fu che parecchi membri delle famiglie Gandhi l’adottarono. Un bramino ci vestì di questo sacro distintivo e sebbene io non possedessi un mazzo di chiavi da attaccarvi, ne ebbi uno e cominciai a farne mostra. Più tardi, quando il cordone sacro fu logoro, non ricordo se ne sentii la mancanza. Ma ricordo che non mi preoccupai di averne un altro. Adulto, molti tentativi furono fatti sia in India che nel Sud-Africa per investirmi di nuovo del cordone sacro, ma senza successo. Se la casta dei Sh...