Scene di vita italiana
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Scene di vita italiana

Traduzione di Stefano Franchini

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Scene di vita italiana

Traduzione di Stefano Franchini

About this book

Scene di vita italiana è la traduzione del racconto del viaggio fatto in Italia nel 1834 da Joseph Méry (1797-1866). Méry fu scrittore, poeta, giornalista e librettista di famose opere, tra le quali il Don Carlo musicato da Verdi. L'autore venne ricevuto da diversi parenti di Napoleone, esuli a Firenze e a Roma.

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Information

SCENE DI VITA ITALIANA


Genova - Gênes

Il piroscafo Sully 8 fa la spola da Marsiglia a Napoli con scalo in tre porti italiani.
Il Sully è come un ponte a tre arcate gettato tra Marsiglia e Vesuvio. Puoi fare la traversata stando a letto, se hai il mal di mare. Male questo che non fa morire. Anzi è il buon Mediterraneo a procurartelo, quale purga naturale. La partenza assomiglia a una festa. La tenda è stesa sul ponte, 9 l’argano coperto di fiori, la vela scintillante di sole. È come l’imbarcazione delle deputazioni votive che andavano dal Pireo a Delos. Il mare è calmo tra due solchi di schiuma.
Coi visi sereni, gli occhi rivolti a sud, tutti parlano dell’Italia che è tanto vicina.
Nessuno è preoccupato per la traversata. Da Marsiglia a Genova è come attraversare un canale. È il più bel tragitto che ci sia!
Non c’è pellegrino che sia partito per l’Italia sentendo più di me quella forte emozione che si lega a tanti imponenti ricordi classici. Io non andavo a visitare l’Italia degli altri. Io cercavo la mia. L’Italia dei miei giovanili studi, dei miei sogni di collegiale. 10 L’Italia di Menalca e Palémone, di Eurialo e Niso. 11
Il Lazio di Giano: terra di Lavinia. E l’Italia dei miei studi successivi: Antonini, Sisto quinto, Leone decimo. E quella di Dante, Giotto, Michelangelo, Raffaello. Nomi e sensazioni cui avevo, fin da bambino, collegato immagini sentimenti, figure. Mi appartengono, impressi nella mia mente, i colori di quei luoghi. Nessun’altra avventura di viaggi li aveva cancellati o modificati. Avevo anche letto tantissimi racconti di viaggi. Avevo letto scrittori che, esprimendo l’entusiasmo con frasi gelide, sono costretti a riscaldarle con punti esclamativi. Avevo letto autori che, al contrario di questi, hanno un approccio negativo e criticano tutto: i monumenti nuovi perché non sono antichi, quelli antichi perché non sono nuovi. Avevo letto pure opere che rientrerebbero nel genere “L’Italia sbagliata” i cui autori si prodigano alla ricerca di una imperfezione microscopica su una magnifica statua, perfettamente scolpita.
Ora voglio prendere contatto con l’Italia muovendo soltanto dalle mie impressioni personali derivanti dalla storia dell’arte piuttosto che da racconti di viaggi. Sono impaziente di sapere se sto per perdere i miei vecchi miti scoprendomi vittima di puerili illusioni. O se, al contrario, sarò pienamente confermato in un culto che avevo eletto a mia seconda religione.
Sono a prora, come Enea, su questo stesso mare. Cala la notte: fresca come tutte le notti di primavera. Con un certo rammarico scendo in cabina. Mi conforta un pensiero piacevolissimo: quando tornerò sul ponte, potrò vedere l’Italia. Non riesco ad addormentarmi. Dopo qualche ora rinuncio ad inseguire il sonno e torno sul ponte, a prua.
Magnifica notte stellata. La costa così vicina che si distinguono i paesi ed il profilo delle montagne. Il Sully vola come un uccello. Le sue pale 12 sembrano frullare polvere di stelle in due solchi di schiuma. Nell’aria c’è un profumo che solo questo mare, questa costa, questo cielo hanno.
Improvvisamente pongo freno ai miei pensieri incantati per rivolgermi al comandante della nave, il capitano Arnaud, che stava passeggiando sul ponte.
“Dove siamo?”.
Mi risponde: “Ecco le coste italiane. Quel paese è Albenga”. Non ricordo neppure nome di donna amata che sia suonato più dolce al mio orecchio. Qual nome può essere più armonioso? Ricorderò per tutta la vita il nome di Albenga, pronunciato sotto le stelle, nella notte silenziosa, sul mare calmo, di fronte alle coste d’Italia. Vorrei portare con me l’aria profumata, la brezza tranquilla, che ha appena raccolto quelle tre preziose sillabe.
Appoggiato coi gomiti al parapetto del Sully, attraverso una rarefatta foschia notturna, a lungo seguo il campanile di Albenga e un’isola vicina con sopra una torre. 13
All’alba, guardando a ritroso, verso l’orizzonte che fugge, vedo nitidamente tutta la montagna di Albenga. L’Italia si era presentata a me con un nome melodioso come il mormorio dei suoi boschi di pini e di limoni. Potessi vivere anche mille anni mai dimenticherei il nome di quel paese. Il Sully faceva rotta su Genova. Già la superba città emergeva dal mare ai piedi dell’Appennino. Quelle coste lontane sembravano cosparse di punti bianchi e splendenti, a ogni slancio della nave sempre più grandi. Dopo qualche ora la città appare in tutto il suo splendore. Bagnava i piedi nel golfo ligure ed innalzava la sua fronte in un’atmosfera luminosa. Siamo ancora molto lontani ma già possiamo distinguere i suoi edifici giganteschi. Possiamo vedere la Lanterna, le fortificazioni svettanti, i campanili e le ville affacciate sul mare. Genova egregiamente presenta l’Italia. Genova è una degna arcata di marmo di un’esedra che finisce solo nel golfo di Taranto. È il peristilio di un museo che espone le sue città, i suoi quadri, le sue statue, sui fianchi degli Appennini, nell’aria rinfrescata dalle brezze incrociate dei suoi due mari.
Entrando nel porto devo ammettere che non sono per niente preso, come tanti viaggiatori, dal ricordo delle glorie dei Dogi. Le glorie dogali mi hanno sempre lasciato indifferente. Una prospettiva imponente occupa i miei occhi. Ho di fronte un incredibile scenario, perfettamente adatto al quinto atto di un dramma. È un palazzo che arriva a toccare il mare specchiando un bel colonnato di marmo bianco nell’acqua calma. La solitudine gli conferisce un aspetto che colpisce. Così ben collocato, così bello! Di quali scene gioiose, di quali avventure sarà mai stato teatro? In quel momento si presentava a me come una immensa tomba dove l’ombra di un re dormiva al dolce mormorio degli alberi di arancio e delle onde. “Ecco palazzo Doria!”, dice, passandomi vicino, un passeggero che, commerciante in paste, veniva a Genova due volte l’anno. Mentre ostenta di non guardare niente, si limita a dire a destra e a manca: “Andate da Michel. Starete benissimo. Il ristorante è conveniente. Io vado sempre da Michel. Ho una camera prenotata. Ci sono donne francesi deliziose e si mangiano ostriche grandi come monete da dieci soldi. A proposito, non perdetevi il ponte di Carignano. 14 Io l’ho già visto cento volte. Pensate che, passandovi sopra, si vedono case di sei piani sotto i propri piedi. Questa è la cosa più bella di Genova”.
L’invenzione del parafulmine è stata da tutti esaltata: come se metà del genere umano perisse normalmente folgorata dal cielo. Ma ci sono fulmini che restano ancora imparabili. Colpiscono in pieno il viaggiatore romantico rovinandogli, ad ogni passo, i momenti più emozionanti. Peccato che il signor Franklin non abbia trovato rimedio anche a quest’ultimo fenomeno magnetico! Appena un pensiero, una fantasia, un sogno si propaga nell’aria subito, immancabilmente, da una maledetta bocca cade una parola greve. E rovina l’incanto. Mica avevo io chiesto, a quel demolitore di emozioni, se si trattava del palazzo Doria. Senza nome era tutto. Adesso è niente. Ridotto a casa di un comandante la cui flotta, oggi, potrebbe essere colata a picco da una sola delle nostre fregate. Il guaio è che, quando un sogno comincia a svanire, non è più possibile tornare indietro.
Arriva pure il vicario sanitario di San Rocco. Quell’infettatore di professione ti chiede se hai il colera. Poi un cameriere d’albergo ti infila tra le mani un biglietto in italiano con sopra scritto: “Cucina francese”.
Un doganiere del re di Sardegna pretende il passaporto. Il capitano mette in fila i passeggeri e li conta come pecore. Tutti balzano sulle barche. I traghettatori che non sono stati favoriti imprecano e maledicono: quasi che una persona potesse prendere venti scialuppe per andare a terra. Dov’è finita Genova, la superba! Dov’è la marmorea città, regina della Liguria?
Moli sporchi, case orribili, porte che sembrano sportelli di celle. Una dogana che fruga nelle tasche. Poi, passando attraverso vie fangose, buie, strette, arriviamo finalmente da “Michel”. Qui troviamo sia da mangiare, sia camere per dormire. Ma quando si va alla finestra non si vede niente. Solo la casa di fronte. Talmente vicina che quasi bisogna fare attenzione a non battervi contro la testa. È questa Genova, la superba?
Dopo il pranzo usciamo dall’albergo per vedere la città. Passando davanti alla chiesa di San Siro saliamo una dolce “salita”. Eccola, Genova!
Montagne di marmo, tagliate a pezzi, si sono trasformate in questa prodigiosa strada fiancheggiata da palazzi.
Gli occhi non sono preparati a tanta meraviglia. Abbagliati come quando si passa all’improvviso dal buio alla luce. Non c’è cosa al mondo che colpisca più di questo susseguirsi monumentale di portici da ambo i lati della carreggiata di granito. I portici splendono avvolti in quella luce dorata ed evanescente che spesso il cielo italiano si compiace di regalare alle opere dei suoi figli. Ti senti così leggero al cospetto di architetture tanto leggiadre che ti sembra di galleggiare nella luce. Ti sembra di non aver bisogno delle scale per balzare sulle terrazze. L’aria tersa, lo splendore del giorno, il cielo sereno, il profumo del mare: tutto conferisce a questa strada una grazia insuperabile. Poesia, incanto di un sogno. Puoi a lungo sostare in estasi e davanti a portici e scalinate difese da leoni scolpiti in pose superbe oppure animate da statue, tra colonne marmoree. Sono scalinate che accompagnano trionfalmente ai giardini pensili dove, all’ombra di aranci, si schiudono conche di fontane. Ti scopri commosso di gioia, sulla soglia di un palazzo, se riesci ad intravvedere, in una luce misteriosa, un cortile discreto e voluttuoso. Qui, dai marmi, escono zampilli d’acqua pura sotto rami di limoni in fiore. Qui conversano e ridono giovani donne nate per questi alberi, per queste fontane, per questi giardini. Donne ricche e spensierate, serene e vivaci, vere fate di questi fantastici palazzi. Dalle loro bocche escono suoni dolci come il fruscio di un abito di raso. Intanto, fuori, altre donne passano leggere sul liscio selciato. Hanno capelli neri e sono belle. Hanno la carnagione bianca e fresca. Spesso sembra una processione di vergini uscite da un quadro di Raffaello per visitare via Balbi. 15 Per collegarla al cielo.
Con gli occhi spalancati ti fermi ai piedi di quel palazzo Durazzo che sembra toccare le nuvole con le sue aeree logge. Ti fermi davanti a palazzo Doria-Tursi che riposa a suo agio, con la facciata coronata di giardini, dopo aver saccheggiato le cave marmoree di Carrara. Devi fermarti ad ogni passo, dappertutto, perché la meraviglia che hai di fronte è nuova e diversa da quella che vedrai dopo e da quella appena lasciata.
Devi salire a palazzo Serra. Ti attende col suo favoloso salone di lapislazzuli e d’oro, cinto da colonne corinzie e sfingi nere. Le sue alte finestre si aprono su edifici marmorei, come quelli sognati dall’Ariosto, qui realizzati con gran perizia dall’architetto Tagliafichi. 16
In questi palazzi le gallerie sono popolate da incantevoli ed eterei personaggi: quelli che Van Dyck 17, Guido Reni, Andrea del Sarto, Veronese, Tiziano, Albano, lo Spagnoletto ed i tre Carracci misero sulle loro tele.
La ricchezza portata dai commerci non avrebbe potuto cadere in mani migliori: deve ammetterlo anche un poeta. Queste meravigliose realizzazioni furono permesse grazie alla protezione di quegli illustri mercanti. La solitudine ed il silenzio danno, oggi, a queste dimore un carattere di solenne malinconia: magnifiche coreografie dalle quali sembra si siano appena ritirate le feste, le danze, le donne.
Nella brezza che canta sotto gli aranceti delle terrazze sembra quasi d’udire ancora i cori italiani delle magnifiche feste ormai finite. Quando mai fu più gaia la vita?
In via Balbi, ai tempi dello splendore di Genova, la vita era vita! Immersa com’era in un’insuperabile aureola di luce, di donne, di profumi marini e montani. La vita, in via Balbi, era corteo di artisti e di poeti. Era musica napoletana, dolci sieste sotto il voluttuoso demone del mezzogiorno. Crepuscoli al suono di serenate, notti d’intimità e d’amore.
Doveva essere proprio bello palazzo Durazzo, con la sua bandiera con lo scudo d’oro caricato di tre gigli d’argento. Doveva essere proprio bello la sera che Van Dyck presentò il ritratto della divina contessa Brignole! 18
Quanta allegria, musica e profumo, avrà aleggiato sotto quelle leggiadre logge. Lei, regina della festa, era qui: sotto la rotonda di marmo. Come se la Venere Medici fosse scesa dal piedistallo per vestire e seta e raso. 19 Quante parole di fuoco, desideri celati, labbra ardenti dovevano fremere attorno all’adorabile contessa! Gli occhi dei giovani patrizi si animavano nel dipinto di Van Dyck per morire di desiderio sul divino viso della modella, sul suo collo d’avorio, sulle sue spalle nude, sulle morbide curve dell’abito di seta. Il grande pittore non era riuscito a disegnarle perfettamente perché la sua mano tremava d’emozione. Tra quella gente ebbra di desiderio e di passione, sotto quelle leggiadre logge bianche e pure come marmo appena levigato, si mescolavano con fierezza tante persone rese nobili dal loro genio creativo. Vi erano tutti gli architetti artefici di questi palazzi: Bartolomeo Bianco, Angiolo Falcone, Rocco Lurago, Galeazzo Alessi, Andrea Orsolino, Carlo Fontana, Simone Cantone, Antonio Corradi, Torriglia, Battista Ghiso. 20 Uomini, questi, che si presentavano con idee geniali a ricchi personaggi e da questi ricevevano oro in quantità per materializzare le proprie idee. Per tradurle in logge e colonnati dai motivi ionici. Per offrire esedre marmoree e giardini di cedri al radioso abbraccio del generoso sole d’Italia. Era come se l’età dell’oro fosse tornata scendendo dagli Appennini. Ma non più in un ambiente pastorale, per una tranquilla felicità, come nel Lazio antico. Questa era l’età dell’oro in abiti serici, con le chiome ornate di pietre preziose, con i piedi su ricchi mosaici e la fronte avvolta nei profumi. Giovani esuberanti, stanchi per le nottate, scendevano dalle doppie terrazze di palazzo Mari per cercare ristoro nella musica sacra del Palestrina, 21 nella chiesa dell’Annunziata. Qui trovavano altre feste, altri profumi, altri dipinti. Qui un piacere ineffabile si innalzava seguendo i vapori dell’incenso, il canto delle vergini, il fusto scannellato delle colonne di granito rosa. Colonne aggraziate allineate su due file e separate, come per rispetto, davanti alla grande tela del Correggio: pittore profano, qui riconciliato con Dio. 22
La strada Balbi faceva affluire le donne più ricche e più belle davanti agli altari di San Siro e, nelle feste solenni, alle navate di San Lorenzo: cattedrale gotica tutta avvolta da bande di marmo bianco e nero. Dio non era geloso dei palazzi genovesi perché le sue chiese erano ancor più belle.
Nelle dolci notti d’estate i Doria issavano le insegne della loro casa sulla montagna illuminata del Gigante. 23 Dai palazzi vicini venivano tutti a respirare la brezza ed il profumo del mare sotto il pergolato dei dogi, sotto le colonne lambite dalle onde del golfo, oppure vicino al laghetto dove le aquile erano scolpite nell’atto di spiccare il volo. Venivano da villa Spinola, famosa per gli affreschi. Venivano da villa Pallavicini, che si libra su Genova come un uccello. Da villa Franzoni leggiadra, leggera e deliziosa come un pensiero d’amore. Da villa d’Angelo, che fugge da via Balbi verso le pendici ombreggiate della montagna. Da villa Durazzo, così piacevolmente adagiata sulla valle del Lerbino, da villa Scoglietto, 24 addormentata sulle sue belle terrazze, rinfrescata da cascate e boschetti e dalla villetta Di Negro che domina montagna, città, mare. 25
Delirio di piaceri, estasi eccelse. Quelle erano notti in cui i convitati erano coscienti della loro umana natura solo per la brama che li spingeva verso il piacere. Mai volti di donna, bianche spalle vestite di seta, melodiose voci di labbra italiane, hanno trasmesso tanto ardore ai sensi come in queste feste divine, nei giardini dei Doria, ai piedi dell’Appennino, in riva ad un mare le cui onde si spengono tra colonne di bianco marmo!
Il sole mi concede ancora qualche raggio per continuare la passeggiata. Esco dalla città proprio per visitare questo palazzo sul mare. 26
La porta è aperta: entro. Attraverso deserti corridoi in cui Perìn del Vaga ha affrescato le imprese navali dei Doria. 27 Non incontro nessuno. 28 Sono come in un palazzo incantato dove l’ospite si aggira da solo mentre le statue lo osservano. I corridoi sono arredati nello stile del sedicesimo secolo. Scranni massicci coperti di cuoio nero. Ampie consoles finemente intarsiate. Alti specchi di Venezia a sei riquadri. Enormi camini di marmo che avrebbero potuto scaldare dei giganti in piedi. 29 Muri tappezzati di ritratti alla maniera di Rembrandt. Parrebbe quasi che un doge, con tutta la famiglia, abbia appena lasciato quelle sedie o stia per tornare in quella sala rientrando da una escursione in mare. Sono solo e ne approfitto per sedermi su una sedia. Apro una finestra per vedere il golfo. Stacco un quadro per esaminarlo a fondo. Passo sotto i camini. Canto la barcarola dalla Muta di Portici rivolto alle statue del Carlone. 30
Posso far finta di essere il padrone di casa: mi atteggio a doge. Nessuno me lo può vietare: sono solo. Se abitassi a Genova potrei abitare palazzo Doria: mi offrirei come inquilino. Scendo ai giardini: stessa solitudine, stesso silenzio. Sono in un quadro stupendo: tra i più belli che abbia mai visto! Niente incanta più della terrazza di palazzo Doria. Se tutti i quadri di Paul Lorrain, 31 al Louvre, fossero concentrati in uno, sarebbero solo un abbozzo di questo stupendo paesaggio. Di marmo le colonne, le scalinate, i portici.
I viali, nei giardini, sono all’ombra dei limoni, degli aranci, degli alti pergolati. La luce del giorno penetra abbondante tra diafani pampini. A sinistra splende Genova con le sue pendici animate quanto le sue strade. Posso vedere, in secondo piano, su un colle la cupola della chiesa di Carignano: è la miniatura di San Pietro a Roma. La volta della sua cupola protegge magnificamente il San Sebastiano di Puget: bello come una statua classica. 32 Di fronte c’è il mare: mare aperto, mare mediterraneo, strada maestra per Napoli e la Sicilia. È un mare, or vivo or calmo. È un mare che ha voce, anima, melodia. È un mare che entra nel porto piegando le sue onde sotto la “Lanterna” come per salutare familiarmente il colosso che protegge i marinai.
Sono immerso in questa cornice quando una voce mormora qualcosa, alle mie spalle. C’è una vecchia seduta a terra, sotto una colonna. Una bambina, vestita di stracci, dorme sulle sue ginocchia. Le chiedo: “Buona donna, che fate qui?”.
Mi risp...

Table of contents

  1. Copertina
  2. SCENE DI VITA ITALIANA
  3. Indice
  4. Intro
  5. INTRODUZIONE
  6. PREFAZIONE
  7. SCENE DI VITA ITALIANA
  8. NOTE
  9. Ringraziamenti