Il senso della storia
Alle elementari abbiamo studiato la storia (a partire dalla III, naturalmente) in stretta connessione con la geografia e i primissimi cenni di educazione civica. Questa triade si mantiene inalterata anche alle scuole medie, dove però l’educazione civica viene maggiormente sviluppata, mentre nei primi due anni delle superiori la triade diventa una diade, con la sostanziale scomparsa dell’educazione civica.
Nel triennio conclusivo delle superiori, invece, lo scenario cambia. La storia non si associa più alla geografia, ma alla filosofia.
Tutto viene sconvolto: mentre fino a quel momento la storia aveva il suo aggancio più naturale e più immediato (lo scenario spaziale dei suoi eventi), da quel momento in poi va ad accompagnarsi ad una materia assolutamente teorica, che non c’entra nulla con i suoi meccanismi e con le sue dinamiche reali.
Siate sinceri, e ripetiamo qualcosa che abbiamo già detto in precedenza: in buona sostanza, se avete fatto il classico o lo scientifico, facendo appello ai vostri ricordi scolastici, potreste dire che la storia vi sembrava più interessante in abbinamento con la geografia o con la filosofia? Prima di rispondere, ricordatevi che la storia è una materia concreta, non teorica o speculativa. Esiste una teoria della storia, è chiaro, ma serve solo ed esclusivamente a definire l’oggetto dello studio della storia. Che abbiamo detto essere, guarda caso, la cosa più concreta che esista: il presente.
Penso, dunque, che abbiate già intuito la risposta: la storia non può stare senza la geografia, così come lo spazio non può esistere senza le sue tre dimensioni.
Tra l’altro, la geografia è un modo per tenere costantemente agganciata la storia alla realtà presente. Sì, la realtà presente: perché in fondo noi nella storia non studiamo realmente il passato, ma il confronto perpetuo tra presente ed epoche trascorse. E se c’è qualcosa che resta del flusso degli eventi (che per sua natura, come tutti i flussi, tende ad esaurirsi nella dimensione dell’immateriale), sono proprio le tracce che si conservano nello spazio, nell’ambiente, nel territorio. E quindi nella geografia. Ovviamente anche l’ambiente muta col passare delle epoche (cambia più velocemente e superficialmente per merito dell’uomo, molto più lentamente, ma in modo anche più profondo, per l’azione della natura stessa), ma questo non impedisce ad esso di fare una sorta di delicata operazione selettiva, come se quello che resta, in termini di reperti, di relitti o di rovine, sia proprio quello che merita di avere una persistenza nel tempo.
Poi ci sarà l’archeologo che esalterà la discontinuità, nello spazio e nel tempo, tra l’epoca presente e il residuo di un’epoca passata, e istituirà quel territorio di confine tra passato e presente che si chiama museo; diversamente da lui, invece, lo storico cercherà di focalizzarsi sulla continuità, nel tempo e nello spazio, tra il presente e la traccia del passato, senza confinare quest’ultima in una sorta di santuario avulso, ma cercando una coesistenza tra i due elementi, almeno teorica. In fondo per lo storico una definizione ragionevole di passato potrebbe essere “ciò che è già stato presente”, e in quanto tale si può sempre porre in continuità con ciò che è presente ora, allo stato attuale. La definizione del passato dal punto di vista dell’archeologo, invece, è soltanto “ciò che non è più presente”, e che dunque può essere analizzato e studiato in modo del tutto distaccato dall’epoca in cui ci si trova.
La regola generale è che il tempo, per una sua legge intrinseca, tende a conservare (pur con tutti i naturali e inevitabili deterioramenti fisici) ciò che è utile a riconnettersi in una logica di continuità. Quello che non serve più, ossia tutto ciò che è elemento ornativo e pleonastico di una e una sola epoca, si perde, a meno che la fede inflessibile e la tetragona pazienza dell’archeologo non la riportino in luce per una nicchia di cultori ed esperti. In fondo, però, questo bisogna concederlo, anche molte delle cose “di nicchia” ritrovate dagli archeologi (dunque non parliamo dei grandi ritrovamenti strutturali e insediativi, che al contrario sono e sono stati comunque fondamentali per la comprensione di un’epoca, anche in raffronto con l’oggi) possono rientrare nella logica dell’utilità continuativa: la cosa importante è che si tratti, ad esempio, di strumenti per cui sia possibile provare un utilizzo che possa avere un equivalente di massima con qualcuno degli attrezzi messi a disposizione dalla tecnologia di oggi. Quindi, come abbiamo già visto nel precedente capitolo, ragionare in termini di continuità, che si tratti dell’utilizzo del più piccolo arnese piuttosto che di una visione politica o di una prassi commerciale, è il primo e forse più importante condizionamento mentale che lo storico deve avere nella sua attività.
In sostanza continuità è eredità attiva che passa da un’epoca all’altra. L’eredità passiva è proprio ciò che piace scoprire agli archeologi, cioè opere d’arte, ornamenti preziosi, suppellettili, oggettistica, e tutto ciò di che di materiale passa da un tempo storico a un altro. L’eredità attiva, invece, è immateriale perché è il carico di questioni sociali, politiche, religiose, razziali, ambientali che restano sul tappeto nel passaggio da un’epoca a un’altra, e non perdono la loro attualità anche dopo l’eventuale soluzione.
Questo accade perché, se anche nel merito di quella determinata questione c’è stata una conclusione positiva in accordo con la forza evolutiva della storia, esisteranno pur sempre altre questioni che richiederanno trattamenti e soluzioni analoghi a quelli applicati in precedenza. Anche quando una situazione problematica appare senza precedenti, infatti, l’esperienza storica è fatta in modo tale da poterla fronteggiare adattando un modulo di comportamento che, se per forza di cose non può essere del tutto appropriato, sarà almeno compatibile (come si dice a proposito delle cartucce di inchiostro per stampanti). Poi quel modulo, di cui è stata testata la flessibilità per un’esigenza assolutamente nuova, finirà per generare un doppio che sarà a sua volta un modulo di riferimento per quell’esigenza.
In fondo, però, che sia materiale o immateriale, il lascito è pur sempre una caratteristica peculiare che ha la storia e che serve a distinguerla dalla cronaca. La storia riguarda quegli eventi, produttivi o evolutivi, che si proiettano con una loro specifica eredità nell’epoca seguente a quella in cui quegli eventi sono avvenuti. La cronaca, invece, è un insieme (ma sarebbe meglio dire una montagna) di eventi, tanto spesso secondari e molto localizzati, che non hanno sbocchi temporali nel futuro, ma rappresentano comportamenti, paure, inquietudini, modelli culturali che muoiono con l’epoca che li ha visti accadere.
Fatta questa distinzione di campo fondamentale, possiamo tornare ad abbozzare le differenze di lascito di cui parlavamo prima. Ci è lecito sintetizzare così: il lascito che diventa bene o patrimonio culturale è qualcosa che resta per sempre nella storia ma non fa più storia. Il lascito che, invece, crea dibattito o continua a scuotere le coscienze è parte integrante attiva del cammino di evoluzione storica.
Facciamo un esempio riguardante la storia romana: il Colosseo è certamente un lascito importantissimo dal punto di vista culturale, ma non fa più storia perché, a parte i suoi fasti antichi di luogo di spettacolo, non è un tema attuale per il cammino evolutivo dell’edilizia sportiva e teatrale. Invece la condizione dei prigionieri di guerra e degli schiavi condannati a fare la vita dei gladiatori è un tema attuale – e che fa storia – perché si riconnette a quello universale della svalutazione dello status di essere umano in rapporto alla negazione dei diritti fondamentali e in primis della libertà.
Qualcuno potrebbe obiettare: ma, insomma, la storia in fondo si occupa di problemi che nella comunità umana sono sempre attuali, ma dove li mettiamo gli eventi con le loro date, cioè quel bagaglio di conoscenze connesso alla storia che la scuola ci ha imposto da sempre?
Certo che gli eventi, con le loro date, rappresentano sempre il cuore della storia, però noi prima di tutto abbiamo imparato a capire che non tutti gli eventi si possono considerare storici, bensì solo quelli che hanno un’importanza e una risonanza globale. E dunque, se ammettiamo che i fatti storici sono fatti importanti globalmente, lo sono anche perché sono originati o alimentati da esigenze, necessità, opportunità che non possono mai dirsi soddisfatte una volta per sempre, ma si ripropongono costantemente nel cammino di evoluzione dell’umanità. In fondo la realtà storica è basata sulla semplificazione.
Ad essere farraginosa è l’informazione, che non fa distinzione tra cose importanti e cose molto meno importanti. La storia invece è essenziale, perché si occupa di eventi determinanti in ambiti fondamentali o autorevoli (politica, economia congiunta alla politica, relazioni internazionali tra Stati, comprese le eventuali degenerazioni belliche).
La domanda è: la storia accade tutti i giorni o c’è bisogno di un determinato periodo di tempo perché gli eventi si accumulino e acquistino una grandezza degna della definizione di eventi storici?
Si potrebbe rispondere con un adagio: la storia avviene intorno a noi, anche se lontano da noi, ma nel momento in cui iniziamo a studiarla essa è già avvenuta.
Quindi sì, la storia effettivamente accade ogni giorno, ma non sappiamo coglierla nelle pieghe delle notizie da cui siamo bombardati perché l’informazione, non volendolo (questo dobbiamo ammetterlo), ci indirizza verso un flusso sbagliato. Quando la storia diventa materia di studio, possiamo star sicuri che siamo già in ritardo rispetto alla sua percezione immediata. E a quel punto non ci resta che ricapitolarla nell’analisi di qualche studioso o di qualche professore.
Ma quali sono gli strumenti per afferrare la storia nel momento in cui si svolge, davanti ai nostri occhi? Abbiamo già detto che, in un flusso di notizie come può essere quello proposto quotidianamente da un servizio qual è il Televideo, la prima cosa da fare è eliminare tutta la cronaca, compresi lo sport e lo spettacolo. Rimarranno la politica, l’economia, gli esteri e qualche notizia di scienza e/o letteratura. A questo punto è necessario fare una scrematura anche nell’ambito delle notizie di politica interna: non interessano assolutamente alla storia i dibattiti all’interno dei partiti, a meno che non siano la causa dell’origine di nuovi partiti. Non interessano neppure i resoconti dettagliati di tutte le discussioni parlamentari che si svolgono nel corso di una legislatura, ma soltanto i risultati ottenuti a livello governativo. La stessa cosa vale anche per i livelli locali della politica, laddove c’è sempre la possibilità di reperire provvedimenti amministrativi che possano avere un’importanza storica per un determinato territorio. Quindi, niente stati di transizione ma solo risultati: la stessa cosa vale anche per gli esteri, dove sorvoleremo sullo svolgimento dei grandi summit per arrivare subito alle loro conclusioni, così come faremo per i processi diplomatici e per quelli giudiziari. E un discorso non dissimile vale per la ricerca scientifica e tecnologica. Conclusioni, e risultati. Invece gli eventi bellici sono forse gli unici che vanno seguiti (che andrebbero seguiti) nel loro svolgimento: però non sempre e non per forza dal punto di vista cronachistico, come fa l’informazione, bensì sempre in stretta congiunzione con le evoluzioni politiche (e per politiche intendiamo governative) interne ai Paesi coinvolti dagli eventi bellici. Lo stesso discorso vale per l’economia: non c’è calo o rialzo dei mercati, o discorso sulla produzione interna a un Paese, che non possa essere analizzato in stretta relazione col quadro politico di quel Paese, o anche di più paesi in un dato momento.
Ricapitolando, per non lasciarsi sfuggire la storia nel momento stesso in cui accade è necessario abituarsi a stare agganciati, quotidianamente, ai grandi ambiti di interesse nazionale e internazionale. Se poi si vuole fare una scelta ancora più radicale, tra il piano nazionale e il piano internazionale è sempre meglio scegliere il secondo, visto e considerato che alla fine, se si presta la necessaria attenzione, il nazionale viene sempre ricompreso nell’internazionale. Per fare quest’operazione di agganciamento, in fondo (e non lo dico perché sono contro il mercato dei giornali stampati, di cui sono comunque un avido lettore). non servirebbe neppure avere sempre un quotidiano in mano: basta appunto, uno strumento come il televideo, consultato dalla tv o anche da Internet.
Chi è pratico della consultazione del Televideo conoscerà la sezione delle “ultim’ora ora per ora”. Si tratta di un riepilogo in ordine cronologico di tutte le ultim’ora pubblicate nell’arco di un giorno. In quest’elenco tutte le notizie appaiono in anteprima, raggruppate a tre a tre; per approfondirne il testo è sufficiente andare alla pagina specifica dedicata a ciascuna terna.
Com’è evidente, nella sezione delle “ultim’ora ora per ora” trovano spazio tutte le notizie che il televideo acquisisce via via, nel corso della giornata, dalle agenzie di stampa: cronaca, sport, cultura, esteri, politica, decessi illustri, finanze (sessioni borsistiche), spettacolo eccetera. Ad una lettura attenta, si noterà che le notizie di cronaca italiana sono più abbondanti nelle ore antimeridiane, mentre– salvo grandi emergenze e situazioni particolari – tendono a scemare nel pomeriggio e sera. Un discorso molto simile si può fare anche per gli esteri, soprattutto per i fatti del mondo extraeuropeo: non è difficile notare, infatti, che la maggior parte delle notizie provenienti dall’America o dall’Asia si concentrano proprio tra la mezzanotte e le 9.00-10.00 del mattino. La politica, invece (parliamo della politica italiana), quasi sempre fa la parte del leone dalle 13.00 in poi (anche in questo caso, ovviamente, al netto dei casi particolari). Per tutte le altre notizie, invece, di solito non c’è una collocazione oraria precisa: possono trovarsi la mattina come il tardo pomeriggio piuttosto che la notte.
Il Televideo è uno strumento utile per coloro che, a colazione, vogliono avere un quadro rapido delle notizie fino a quel determinato punto della giornata in cui si trovano e poi scappare al lavoro (e non è uno strumento superato da Internet, perché esiste anche online e resta comunque più affidabile di molti social network); ma serve anche a coloro che vogliono economizzare sulla spesa dei giornali e scorrerne le pagine come farebbero con quelle di un quotidiano o di una rivista; o a coloro che non amano le chiacchiere dei programmi televisivi di informazione, e, azzerato il volume dell’apparecchio televisivo, o nel mezzo di un navigare placido e ameno, preferiscono la lettura di testi sintetici e essenziali per conoscere l’indispensabile. Da ultimo, anche se può sembrare inverosimile, è uno strumento che non disdegnano neanche gli storici.
Il perché è presto spiegato: ...