Gaeta nella descrizione dei viaggiatori del "Grand Tour"
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Gaeta nella descrizione dei viaggiatori del "Grand Tour"

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Gaeta nella descrizione dei viaggiatori del "Grand Tour"

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Uno sguardo inedito su Gaeta, offerto da celebri artisti, poeti e scrittori che visitarono la cittĂ  ammirandone grandemente la straordinaria bellezza. Commenti inediti sapientemente raccolti e tradotti in italiano dallo storico Alfredo Saccoccio.

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Information

Testimonianze
Percorrendo la strada tra Gaeta e Napoli, si crederebbe andare a spasso in un giardino; gli aranci e i limoni vi sono in così grande abbondanza come da noi le ghiande e le faggine. Si vedono da ogni lato aloe come non ne avevo ancora viste. Si gode a volte della verzura, dei fiori, e dei frutti, e tuttavia eravamo negli ultimi giorni d’ottobre.

(August von Kotzbue, “Souvenirs d’un voyage en Livornie, à Rome et à Naples”, Paris, Barba e Buisson, 1806).


A una breve distanza dalla baia, si vedono le torri, le cupole, i campanili dell’antica città di Gaeta, risaltano visibilmente sull’orizzonte e sembrano uscire dal mare: la piccola lingua di terra che unisce alla riva la montagna su cui la città è costruita è impercettibile, e questa impressione d’isolamento conferisce una maggiore bellezza alla sua posizione....

(Lady Morgan,“L’Italie”, Paris, Dufart, MDCCCXXI, tomo IV).


...le rovine, di cui una parte è servita senza dubbio a costruire il Molo di Gaeta, situato sullo stesso posto e sulla strada da Roma a Napoli.che inizia il territorio del Reame di Napoli.

(Jean-Baptiste- Claude Richard de Saint-Non, “Voyage pittoresque ou description des Royaumes de Naples et de Sicile”, Paris, 1781).


Dove fiorĂŹ la terra dei Ciclopi

Alla Montagna Spaccata conducono due strade: per una vanno generalmente i pellegrini; per l’altra, le coppie di innamorati.
Poichè gli itinerari consueti non sono la mia passione, preferisco una stradicciuola fuori mano, solitaria e polverosa, che non ha mai conosciuto la veste di gala dell’asfalto; una stradicciuola ciottolosa, spruzzata di caccole di capra, coi margini irregolari contesi dalla boscaglia: la strada d’un tempo che non aveva fretta, quando il carrettiere era il re delle distanze.
Oltrepassata la zona degli orti, lo sguardo può dominare tutto il maestoso golfo, sulle cui rive si affollano ridenti cittadine, e la riviera di ponente battuta dal mare aperto, con gli arenili dorati distesi come arazzi tra un promontorio e l’altro, sino al favoloso Circeo velato di nebbia azzurrognola.
Un sapore di resina nell’aria ci annunzia la pineta. La stradicciuola si fa sentiero. Quatto quatto, ora beccando il selciato, ora dando un colpo d’occhio a dritta e a manca, un vecchio corvo fa la sa passeggiata mattutina con l’aria paciosa di un curato di campagna.
Rada è la pineta; fresca, densa di profumi. Procedo aggrappandomi ai cespi di mirtillo, solleticato dagli steli di miglio. Scricchiolano sotto i piedi gli aghi dei pini. Non gli antichi tronchi scagliosi, nè le aeree chiome dei pini - queste vegetali nuvole verdi che risaltano contro lo sfondo delle candide nuvole del cielo - mi mettono tanta gioia che mi vien voglia di gridare; ma l’aggrovigliato empito floreale del sottobosco: una gioconda sinfonìa di colori, la cui nota dominante è costituita dal giallo. Ginestre odorose, quante ginestre!... Una nevigata di piume di canarino! Alcune erbe sono già mature, d’una biondezza preziosa.
Ed ecco il Santuario sospeso nella spaccatura della montagna come un nido di avvoltoi, solitario, col tacito cortile generoso di nidi alle rondini. Uno sgomento cosmico pare che incomba sulla chiesetta, dove il rumore dei miei passi suscita un’eco profonda. La scarsa biancheria dell’altare maggiore sente di spigonardo e fa pensare alle delicate mani bianche delle monachine che con tanta devota pazienza la mettono a bucato, la stirano, la ripongono nei cassettoni antichi, senza fretta, per benino.
Mi accompagna un pretino dalla lunga barba nera, il passo lieve, lo sguardo basso, schivo. Gli rivolgo alcune domande alle quali risponde laconicamente, senza aggiungere commenti. Nella pace del luogo e dell’ora le sue parole acquistano lo squisito sapore di una prosa agiografica, d’altri tempi.
La tradizione vuole che la montagna si sia fenduta dalla cima alla base, come una melagrana matura, in seguito al movimento tellurico verificatosi alla morte di Cristo. Nel cuore dell’apertura, sospesa tra cielo e mare, nel 1436, venne costruita la cappella del Santuario. Vi accediamo per una scalinata incassata nello spacco,le cui pareti sono meno distanti dell’apertura delle mie braccia.
Nella roccia viva è l’impronta di una grossa mano. “Un infedele - dice il prete - e precisamente un marinaio turco che una tempesta aveva gettato sulle nostre spiagge, volle toccar con mano la consistenza della pietra, abbandonandosi ad ironici commenti circa l’origine miracolosa della spaccatura. La roccia si fece per un istante molle e conservò l’impronta di quella mano. A una tale prova l’infedele si convertì alla nostra religione”.
Da due balconcini ci si può sporgere sull’abisso. Il mare, nella profonda insenatura, è color verde bottiglia. S’ode il suo scontroso rimbrotto per i meandri della montagna.
Ci avviamo verso la cima dello sperone piÚ alto. Il prete non ci accompagna piÚ. Il suo racconto ci è molto piaciuto. La capziosità e la perduranza di certe leggende è da ricercarsi nella loro meravigliosa potenza immaginativa, al cui paragone la verità appare povera e disadorna.
Giunto sull’orlo dello strapiombo mi sporgo sull’abisso, afferrandomi ai rami di alcuni pinastri rachitici. Il mare è calmo, senza una vela, olimpico. Brune in lontananza, come cetacei in letargo, stanno le isole pontine. Rapide ombre di corvi guizzano sull’erba, che rigurgita dagli umidi crepacci o s’aggrappa alla roccia quasi con voluttà. Abbracci veementi di edera, contorcimenti capricciosi di convolvoli, formano incomposti festoni tra i tronchi dei pini come tra gli intercolonni di un tempio.
Quali segreti racchiude questa roccia bruma, ferrigna, che precipita nel mare? La mente si smarrisce nell’evocazione degli evi remoti a cui la scienza con faticoso cammino tenta di risalire. Alcuni studiosi affermano che il Monte di Gaeta è da ritenersi un avanzo dei grandi cataclismi che chiusero il ciclo della civiltà tirrenica. La ciclopica spaccatura appare quindi determinata nella serie quaternaria.
Questo monte risuonò delle opere dell’autoctona razza pelasgica, vide i fasti della Tirrenide ed il tragico esodo della sua gente. Non si può senza commozione pensare che novemila anni prima dell’era volgare, al posto di questo mare fioriva la terra dei Ciclopi (chiamati in seguito Pelasgi, cioè venuti dal mare, a cui la fantasia dei poeti attribuì un occhio solo) il centro della prima civiltà umana, detto allegoricamente il Cerchio dello Splendore, che secondo gli studi di Evelino Leonardi, doveva avere un diametro che va da Capo Circeo a Mondragone.
Al ritorno rivedo il pretino occupato a curare alcune viti nell’orto del Santuario. Il sole è ormai alto nel cielo e i rondoni vi sfrecciano intorno.

(Pasquale Di Ciaccio, “Dove fiorì la terra dei Ciclopi”, da “Scena illustrata” di ottobre 1951).


Marina di Serapo, bellezza inedita

Un grande arenile lungo duemila metri, stretto fra due colli rocciosi: Monte Orlando, irto di batterie borboniche, e il colle della Madonna della Catena, sparso d’agavi e di fichi d’India. Un irrequieto mare, squassato dai venti di libeccio, accumula assiduamente la preziosa sabbia silicea che una vetreria, al limite delle prime case di Gaeta nuova fonde in rudi vetri di damigiane e di fiaschi. E ve n’è tanta, di comoda e lussuoa spiaggia, da contentare le esigenze estive di più che una grande città oppressa dall’afa canicolare.
Giorno verrà in cui la bellezza quasi inedita di questa plaga sarà nota agli innamorati della natura, che in cambio delle molte lodi e dei dolci riposi le rapiranno a brano a brano quest’aria rustica e marinara, questa strana e suggestiva atmosfera di provincia.
Provincia come se ne trova ormai di rado, con qualche difetto della vita provinciale, e con molti pregi, dei più rari. La vita, su questa aperta riva del Tirreno, s’è conservata come in un raccoglimento, lontana dal rumore e dagli sviluppi d’una civiltà molto attiva.
Non molti anni fa, quando non era ancora aperta al traffico la bella e rapida linea ferroviaria tra Napoli e Roma, si giungeva a Gaeta con lento e faticoso viaggio, dopo un lungo giro e molte ore sperperate. Gaeta e il suo terri...

Table of contents

  1. Gaeta nella descrizione dei viaggiatori del “Grand Tour”
  2. Testimonianze