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Fritz Lang Alfred Hitchcock. Vite parallele
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Due grandi maestri del cinema e due percorsi paralleli. Un'analisi appassionata, romanzesca, della vicenda umana, artistica e creativa di due grandi personalità del Novecento cinematografico.
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Information
“il cinema è forma. Si vedono molti bei film in giro, con i dialoghi molto curati, e non è che li disapprovi; ma per me non sono cinema allo stato puro. Alcuni registi emergenti, nel tentativo di fare del cinema puro, si inventano inquadrature bizzarre, ma il risultato sono sempre “riprese di gente che parla”, come le chiamo io” [1972].
Ancora una volta, l’accento cade sulla forma e non sul contenuto. Ma questa distinzione è, lo si ripete, molto sottile. Hitchcock, ad esempio, insisteva sulla necessità di sviluppare l’intreccio in modo da mantenere una certa coerenza narrativa ed utilizzare tutte le possibilità visive del contesto, nel quale aveva calato la vicenda.
“è una mia fissazione personale, quella di usare l’ambientazione e le circostanze legandole al contesto. […] fintanto che mi è possibile, cerco sempre di insistere sugli elementi che fanno parte del personaggio e di inserirli nelle azioni della storia”. [1972].
Questa scelta, a ben vedere, riguarda più la forma (interna) del racconto, che non il contenuto di esso. Il contenuto, infatti, è il minimo significato, che rimarrebbe immutato nel suo tratteggio generale, anche quando si modificasse lo sviluppo narrativo.
Il disinteresse per il contenuto non vuole, però, dire disinteresse per l’uomo e per la sua esistenza. I grandi registi sono maestri di forma, ma ciò non significa che le loro opere siano prive di sostanza, al contrario. L’attenzione che essi prestano all’aspetto visivo del film non è fine a se stessa, non è un mero esercizio di stile, privo di qualsiasi funzione dialettica, ma è strumentale al racconto ed alla raffigurazione della natura umana. Le scelte formali sono dirette a colpire la sensibilità degli spettatori di tutto il mondo, per suscitare in ciascuno, qualunque sia la sua origine etnica, la sua estrazione sociale, il suo background culturale, una riflessione o un’emozione.
E, di certo, non è possibile riuscire ad elaborare un simile linguaggio universale, senza una profonda conoscenza dell’essere umano, acquisita attraverso un’attenta osservazione della vita. Insomma, Hitchcock, Lang, Powell, Welles sono tutti grandi stilisti, che hanno, però, studiato a fondo l’animo umano, per dare un’estetica alle sue più intime emozioni e radicate paure e trasmetterle attraverso l’uso dello strumento più potente che un artista visivo abbia a propria disposizione: il cinema, appunto.
Lang e Hitchcock: vite parallele
Fritz Lang ed Alfred Hitchcock sono nati entrambi alla fine del XIX secolo, a Vienna il 5 dicembre del 1890, il primo, a Londra il 13 agosto del 1899, il secondo. Curiosamente al 1895, ossia proprio a cavallo tra queste due date, si fa convenzionalmente risalire la nascita del cinema, inteso come rappresentazione pubblica di immagini in movimento, di fronte ad una platea di spettatori paganti; infatti, in quell’anno al Gran Café del Boulevard des Capucines di Parigi i fratelli Louis e Auguste Lumière proiettarono la prima pellicola cinematografica, utilizzando il supporto in celluloide inventato più o meno dieci anni prima dallo statunitense George Eastman. Non solo il momento della nascita lega tra loro Lang ed Hitchcock (e ciascuno dei due al coevo cinema), ma anche i successivi sviluppi personali ed artistici dimostreranno tali e tante affinità da non risultare inopportuno il riferimento a Plutarco ed alla sua opera.
Prima di tutto e più importante di tutto, i due condividevano sin dalla gioventù l’amore per la settima arte. Lang, ad esempio, ricordava con Lotte Eisner: “nel tempo libero, quando avevo denaro, andavo al cinema che mi interessava già molto da un punto di vista creativo”; mentre Hitchcock confidava a Truffaut: “da diversi anni ero molto attratto dai film, dal teatro e spesso uscivo da solo la sera per andare a vedere le prime. Fin da quando avevo sedici anni leggevo le riviste di cinema”.
Comune è stata anche l’esperienza in qualità di sceneggiatori prima di approdare alla regia. Fritz Lang, che preferiva considerarsi drammaturgo – “dramaturg è molto difficile da tradurre; è uno story doctor” – quasi che l’espressione sceneggiatore, “writer”, non riuscisse a rendere pienamente l’idea del ruolo che egli inizialmente ricoprì, nel 1917 vendette a Joe May, produttore e regista berlinese, due testi per i film Die Hochzeit im Excenticclub e Hilde Warren und der Tod (sebbene Alfred Eibel gli attribuisse già la paternità della sceneggiatura di un film del 1916, Die Peitsche). Hitchcock, invece, dopo una prima collaborazione in qualità di disegnatore ed autore di testi per la sede londinese della Famous Players Lasky (società di produzione americana che sarebbe poi divenuta la Paramount), scrisse nel 1922 il copione di Woman to Woman, film diretto da Graham Cutts che assistette anche in qualità di aiuto regista.
Ambedue passarono, dunque, dalla sceneggiatura alla regia, sebbene in maniera diversa. Per Hitchcock si può presumere che il salto abbia rappresentato il raggiungimento di un traguardo ambito e tenacemente ricercato, dal momento che fu lo stesso regista, dopo aver lavorato come pubblicitario, a proporsi alla Lasky: egli si fece notare, durante l’attività di assistenza a Cutts, ricevendo l’incarico di dirigere il film Number 13 (1923), che, tuttavia, non venne mai ultimato, a causa della chiusura degli studios inglesi della compagnia americana; successivamente, diresse una produzione anglo tedesca, nel film The Pleasure Garden (1925) e, quindi, nel 1926 girò The Lodger, A Story of the London Fog, ossia Il pensionante.
Lang aveva elaborato le prime sceneggiature quasi per caso durante una degenza in ospedale, senza probabilmente alcuna velleità registica, come riconobbe egli stesso: “anche fare del cinema, che sarebbe poi diventato la mia vita, inizialmente fu forse solo un’avventura”; in seguito, maturò la scelta di dedicarsi alla regia quando, assistendo alla prima di Die Hochzeit im Excenticclub (l’opera tratta appunto da un suo script), rimase deluso per non essere stato neppure citato tra gli autori e, ancor di più, per la realizzazione nient’affatto rispondente alle sue aspettative: “quando il film cominciò non vidi il mio nome […]. Avevo immaginato diversamente la regia del film, che non mi piacque affatto. Credo che proprio in quel momento, inconsciamente, decisi di diventare un regista cinematografico”. L’occasione di dirigere un film si presentò, però, solo due anni dopo, su iniziativa di Erich Pommer, produttore tedesco della Decla-Bioscope, che lo aveva notato esibirsi come attore in una rappresentazione teatrale: il suo primo film fu Ralbblut del 1919, seguito da Der Herr der Liebe (sempre del 1919) e dal dittico Die Spinnen (a cavallo tra il 1919 ed il 1920).
È strano come nella vita di ciascuno, compresi i grandi registi, siano incontri affatto casuali a segnarne la fortuna, anche quando il primo impatto sembrerebbe dire tutto il contrario: Lang ottenne il successo grazie a quell’Erich Pommer, il quale, come svelò il regista austriaco, nella conversazione con William Friedkin del 1975, era tutt’altro che entusiasta di conoscerlo: “Erich Pommer venne a Vienna… Io portavo sempre il monocolo e lui disse «non voglio avere niente a che fare con quell’altezzoso figlio di puttana». Ma i suoi gli dissero «abbiamo parlato con il signor Lang, gli devi assolutamente parlare anche tu»; lui rispose «va bene gli parlerò ma niente di più…»”. E, così, nacque un proficuo connubio artistico ed una sincera amicizia, tanto che a Peter Bogdanovich, Lang dichiarò: “Secondo me, Erich Pommer è stato l’unico vero produttore con il quale abbia mai lavorato in vita mia. Ha sempre preferito discutere i vari problemi che via via si presentavano, piuttosto che imporre il suo punto di vista. Non l’ho mai sentito dire «devi fare questo»”.
Anche Hitchcock, peraltro, venne accolto sotto l’ala protettrice di un produttore lungimirante, che ne riconobbe immediatamente il talento: si trattava di Michael Balcon, al quale il maestro inglese fu sempre grato e del quale egli condivise con Truffaut un ricordo affettuoso: “durante questo brutto periodo [vale a dire dopo l’insuccesso di Ricco e strano (1932)] Michael Balcon è passato a trovarmi al teatro di posa mentre stavo girando Vienna di Strauss. Grazie a lui ero diventato regista e credo che fosse deluso di me in quel momento. Mi ha chiesto «che cosa hai intenzione di fare dopo questo film?». Gli ho risposto: «ho una sceneggiatura scritta un po’ di tempo fa, ma ora sta chiusa in un cassetto». Gli è piaciuta ed ha espresso il desiderio di comprarla. Allora sono andato a trovare John Maxwell, il mio vecchio produttore, e ho comprato la sceneggiatura per duecentocinquanta sterline – oro. L’ho poi rivenduta alla nuova compagnia Gaumont British, della quale Michael Balcon era presidente, per cinquecento sterline. Ma avevo talmente vergogna di questo guadagno del cento per cento che ho dato i soldi allo scultore Joseph Epstein perché facesse un busto di Michael Balcon, al quale l’ho poi regalato”. Curioso, poi, che proprio Pommer e Balcon fossero tra loro in società, ai tempi in cui, nel 1924, Hitchcock era stato sceneggiatore e scenografo per la produzione anglo tedesca di The Blackguard.
Altra circostanza comune fu che entrambi si dedicarono in gioventù alle arti figurative. Lang frequentava a Parigi la scuola di pittura di Maurice Denis e l’Academie Julien; egli confidò all’amica Eisner: “Mio padre voleva che anche io diventassi architetto […] accettai di seguire le lezioni di ingegneria al politecnico. Nonostante tutti i miei buoni propositi resistetti però un solo semestre: in realtà volevo fare il pittore […] a quell’epoca non pensavo che un giorno avrei potuto fare del cinema. Volevo dipingere. […]”.
Hitchcock, da parte sua, ricorda: “mentre lavoravo da Henley, studiavo arte all’Università di Londra: così mi trasferirono nel reparto pubblicitario e questo mi permise di incominciare a disegnare. […] disegni per annunci pubblicitari […] questo lavoro mi avvicinava in qualche modo al cinema, o meglio, al lavoro che presto avrei fatto nel cinema. […] Leggendo una rivista di categoria ho saputo che la società Americana Famous Players Lasky apriva una succursale a Londra […]. Tra gli altri progetti c’era quello di un film tratto da un romanzo di cui non ricordo il titolo. Senza lasciare il lavoro da Henley ho letto con attenzione il romanzo e ho fatto diversi disegni che sarebbero potuti eventualmente servire per illustrare i titoli. […] Sono andato a presentare loro i miei disegni e mi hanno assunto subito; poi sono diventato capo della sezione addetta ai titoli”.
È presumibile che proprio da tale passione sia derivata la forte inclinazione manifestata da entrambi a prediligere l’aspetto puramente visivo nell’opera cinematografica. Lang, considerava il cinema un’evoluzione della pittura, come emerge dal racconto alla Eisner: “quando dipingevo o disegnavo i miei soggetti erano per così dire inanimati. Il cinema, al contrario, dà proprio immagini in movimento, quadri in movimento. Avvertivo già che un’arte nuova – più tardi l’avrei chiamata l’arte del nostro secolo – stava per nascere”.
Hitchcock, parlando a proposito de Il pensionante, osservava similmente: “partendo da una trama semplice sono stato costantemente animato dalla volontà di presentare per la prima volta le mie idee in forma puramente visiva […] quando si scrive un film è indispensabile tenere nettamente distinti gli elementi di dialogo e gli elementi visivi e, ogni volta che è possibile, dare la preferenza ai secondi sui primi”.
L’attenzione per il risultato visivo ed il desiderio di entrambi, di riuscire a sfruttare al massimo le peculiarità del mezzo espressivo, portavano Lang ed Hitchcock a dedicare la massima attenzione al montaggio. Il loro rapporto, con questa particolare attività creativa, era istintivo e profondamente personale. Si è già fatto riferimento ai pre-montaggi del regista inglese, il quale pianificava, prima ancora delle riprese, l’ordine degli stacchi e le dimensioni delle immagini. Il metodo del cineasta austriaco, almeno quello adottato agli albori della carriera, non era meno singolare; egli, infatti, raccontò a Friedkin: “All’inizio, volevo fare dei film; scrivevo film in quattro giorni, la sera. Con una bottiglia di vino rosso. A quei tempi, scrivevo ogni scena su un pezzo di carta, in modo da poterle scambiare tra loro, senza stare continuamente a riscrivere tutto”.
Inoltre, tutti e due pretendevano di pianificare ogni aspetto della messa in scena, a cominciare dalla severissima direzione degli attori, spesso costretti a muoversi secondo tracce ed indicazioni accuratamente disegnate sul pavimento del set. Lang ricorreva, inoltre, a disegni di scena, ovvero bozzetti indicanti esattamente lo svolgimento che la recitazione avrebbe dovuto seguire, come raccontò a Lloyd Chesley e Michael Gould: “Quando inizio a riprendere, so esattamente quello che voglio fare. Lavoro di notte alla mia scrivania e conosco il set, di cui ho la piantina. Quindi faccio una prova generale, rivedo insieme ai miei attori ogni singola scena. […] Io non sono di quei registi (e con questo non intendo dire che essi sono in errore) che amano rendersi conto delle cose in studio e cominciano a cambiare la propria idea durante le riprese”. Hitchcock, dal canto suo, anche quando non si affidava a tale strumento, non concedeva, comunque, alcuna libertà agli interpreti: “non si può lasciare libero l’attore di muoversi a caso. Sotto l’aspetto visivo potrebbe non reagire in conformità agli effetti del montaggio che si vogliono ottenere”. D’altra parte, l’ossessiva attenzione per gli elementi visivi del film deriva dalla circostanza che entrambi conobbero ed apprezzarono il cinema muto, che, nella visione di ambedue, rappresentava il cinema puro. Questa convinzione è già stata adeguatamente sottolineata con riguardo al pensiero hitchcockiano, ma non meno esplicativa è la risposta data da Lang a Friedkin, il quale gli aveva domandato: “Se avesse avuto la possibilità di usare il sonoro per Metropolis, lo avrebbe fatto? No”.
Un’ulteriore affinità è riscontrabile nell’avversione per i film in costume; se, infatti, Hitchcock sosteneva scherzosamente: “i film in costume non mi piacciono, perché i protagonisti di questi film non vanno mai in gabinetto”, Lang concepiva il cinema principalmente come testimonianza della propria epoca ed esigeva dai suoi tecnici una resa quasi documentaristica: “dico sempre al mio operatore: «Non voglio una fotografia elaborata - niente di “artistico” - voglio una fotografia da cinegiornale». Perché penso che ogni film serio, che descriva i contemporanei, dovrebbe essere una sorta di documentario del suo tempo. Solo allora, secondo me, si raggiunge un certo grado di verità in un film. In questo senso, Furia è un documentario, M è un documentario. Mi piace pensare che tutti i miei cosiddetti “crime pictures” siano dei documentari - Il grande caldo o Mentre la città dorme - che, a proposito, è un film che mi piace moltissimo”. D’altronde, questa preferenza derivava anche dall’esigenza di far partecipare maggiormente il pubblico, come spiegava Hitchcock: “preferisco di gran lunga parlare di uomini comuni, perché così secondo me il pubblico viene coinvolto più facilmente”.
Il fatto che i due cineasti prediligessero film di ambientazione contemporanea, in uno con la circostanza di aver vissuto gli stessi anni, contraddistinti da drammatici eventi, ha determinato che molti dei loro lavori siano stati dedicati agli stessi temi di attualità: l’ideologia nazista (che Lang ebbe addirittura il merito di premonire e a cui Hitchcock dedicò più di una riflessione), l’impegno civile (attraverso i numerosi film di propaganda, che entrambi diressero), la critica nei confronti della società americana (che tutti e due ebbero modo di conoscere a fondo, dopo la fuga dall’Europa).
Lang, in proposito, ha tenuto a rimarcare che i suoi film riguardavano “non assassini, ma mali sociali”, rivendicando un fondamentale ruolo di fautore del dibattito socio – politico.
Ambedue, poi, si dedicarono al genere suspense, verso il quale peraltro hanno dimostrato una naturale inclinazione: anche nel raccontare gli aneddoti, tratti dall’esperienza personale, i due registi dimostrarono la capacità di far trattenere il fiato all’interlocutore, ricorrendo ad immagini di grande suggestione, che, certamente, qualora fossero state messe in scena, avrebbero realizzato memorabili opere di arte cinematografica.
Pensiamo al ricordo di Lang, relativo alla fuga, in fretta e furia, dalla Germania nazista: “quando guardai fuori dalla finestra della stanza sul retro l’intera casa era circondata dai nazisti in uniforma gialla. Mi dissi: oh, il signor Goebbels non si è fidato di te […]. Quando lasciai la casa i nazisti mi hanno lasciato andare. Si trovavano lì per caso perché quel pomeriggio e quella notte si stavano esercitando per manovre notturne […]. Il mio domestico era molto nervoso e andava avanti e indietro. Gli dissi: cos’è tutta quest’ansia? […] In quei giorni credo che ci si fermasse a Herbersthal e bisognava aspettare un’ora e mezza prima di arrivare in Belgio e in tutto questo tempo c’era l’ispezione del bagaglio. Ma questa volta si trattava di un’ispezione fatta dalle camicie gialle. Io stavo ad un’estremità della carrozza e li sentivo bussare agli scompartimenti di quella opposta e dicevano: Aprite. Controllo dei passaporti. Ok, aprono. Il prossimo, il prossimo, il prossimo, il prossimo. E poi arrivano da quello che stava vicino a me. Io stavo nel mio compartimento steso sul letto e mi ricordai che dicevo sempre ai miei attori: se volete davvero recitare bene tentate di fare davvero quello che state interpretando. Così iniziai a russare. Li sentivo nello scompartimento accanto al mio: grazie. Porta che si chiude. Stavo aspettando, stanno per aprire. Non si fermarono. Mi dissi “Ah, ah, Goebbels ha messo qualcuno alle tue costole mentre stavi lasciando casa e c’è qualcuno sulle tue tracce qui sul treno e fra tre quarti d’ora, quando il treno starà per partir...
Table of contents
- *
- Lang e Hitchcock: vite parallele
- La possibilità di tracciare delle intersezioni
- Terza intersezione: propaganda bellica tra fantasia e ambientazione contemporanea
- Quarta intersezione: escursioni nell’emisfero femminile
- Quinta intersezione: tra sogno e realtà
- Crediti