Ogni grande filosofia è l’auto-confessione del suo autore, reca le sue memorie e in essa nulla esiste di impersonale[1]: questa è l’idea di filosofia animata da Nietzsche ed è da qui che bisogna partire per stabilire una via da percorrere entro il caos a-sistematico, rapsodico del suo pensiero[2].
1. Also sprach Zarathustra
«A questo libro si deve augurare la diffusione della Bibbia, tutto il suo prestigio canonico, la sua serie di commenti»[3]. Così il 2 aprile 1883, Heinrich Köselitz, alias Peter Gast, discepolo, amico, correttore di bozze di tutte le opere di Nietzsche, definì Così parlò Zarathustra. Redatta fra il gennaio del 1883 e il gennaio del 1885, Nietzsche stesso tratteggiò all’editore Ernst Schmeitzner la sua opera con queste parole:
Oggi ho una buona notizia da darle: ho compiuto un passo decisivo – e tale che, a mio avviso, può essere vantaggioso per Lei. Si tratta di un volumetto (di appena cento pagine), il cui titolo è Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno. Si tratta di una “composizione poetica”, o di un “quinto Vangelo”, oppure è qualcosa per cui non esiste ancora una definizione: è la mia opera di gran lunga più seria e anche più allegra, e accessibile a chiunque[4].
Quale senso può rivestire l’asserzione nietzscheana unitamente a quella di Gast? Che cos’ha di particolare quest’opera, a tal punto da auspicarle una futura diffusione, commenti e prestigio degni della Sacra Scrittura? Quale pregio “canonico” vorrebbe attribuirle il suo autore tanto da azzardarne la definizione di “quinto Vangelo” o addirittura di “un quid indefinibile”? Il problema che si pone dinanzi agli occhi di ogni lettore di Nietzsche, studioso o semplice curioso che sia, risiede nella comprensione, di per sé mai pienamente esaustiva, del suo pensiero. Un pensare altalenante, vacillante, incostante, oscillante fra l’asserire e il contraddire, in un moto ondoso inquietante, dilagante in un arcipelago di poche isole ferme: eterno ritorno, Übermensch, volontà di potenza, morte di Dio, amor fati, trasvalutazione dei valori.
In che modo viene delineata la figura dell’Übermensch negli scritti di Nietzsche? È plausibile ravvisare nell’idea di Oltreuomo[5] la figura del Salvatore cristiano? Quanta parte hanno, nella filosofia di Nietzsche, la matrice “ellenica” e la matrice “cristiana” della sua formazione giovanile? L’oggetto della ricerca è complesso e troppo spesso rischia di vedere inficiata la sua reale natura dietro interpretazioni e semplificazioni prive di rispondenze filologiche che tendono a travisare il pensiero del filosofo, chiarendone alcuni aspetti immediatamente evidenti, ma lasciandone in ombra altri. Tre saranno le linee direttrici entro le quali si svilupperà la trattazione: la dimensione meridiana dell’evento-avvento dell’Übermensch, così come esso viene enunciato nell’opera Così parlò Zarathustra; l’idea di tratti paganeggianti rintracciabili nelle descrizioni dell’Übermensch date da Nietzsche in Genealogia della morale, L’Anticristo, Umano troppo umano, nonché nell’opera precedentemente citata; interpretazione dionisiaca dell’annuncio oltreomistico di Zarathustra di contro alle più recenti esegesi “cristiche” dell’Übermensch nietzscheano.
L’idea fondante risiede nel pensiero che vede l’Oltreuomo, nel suo eterno e indefinito oltrepassamento di sé, come immagine interamente pagana, il cui dio è l’antico Dioniso. Il Greco del pensiero tragico e il fiero Romano, che nella causa di Roma ha il senso del suo esistere e del suo essere, questi sono, forse, i paradigmi di colui che tramonta a se stesso per riaffermare eternamente il suo Sì alla terra, a quella terra che i Greci e i Romani non avvelenavano con dietromondi che cercassero un senso-altro a questa esistenza in una venefica tensione verso l’ultraterreno. Nietzsche sembra descrivere l’Übermensch come icona dell’uomo antico greco-romano, dei popoli del Sì alla vita, una vita aristocratica emblema della grecità arcaica e classica. D’altronde come non pensare a un Oltreuomo “aristocratico-signore”. Meditiamo sulla distinzione fatta da Nietzsche tra la morale dei Signori e la morale degli Schiavi: è palese, a livello lessicale, come la separazione dei concetti di “buono” e “cattivo” potesse appartenere, de iure et de facto, solo all’ἄριστος, a colui che nel mondo classico era considerato “il migliore”, il “più nobile”, laddove nobiltà di sangue e nobiltà d’animo, inscindibilmente legate nel mondo antico, costituivano il fondamento di ἀρετή, ἀριστεία, καλοκἀγαϑία.
Copiosi riferimenti testuali nietzscheani sembrano condurre verso la delineazione di un Oltreuomo “pagano”, seppur nei suoi tratti non del tutto definiti o in-definiti. Greco quando pensa e onnicointuisce il pensiero tragico e abissale dell’eterno ritorno, Romano quando nel riconquistare il senso della terra, riscopre la profondità della superficie e la sua fierezza, spezzando le catene nichilistiche della vanità e della compassione. Figure fiere, aliene dalla molle compassione decadente cristiana.
Cosa Nietzsche pensasse del Cristianesimo è noto. Sovente affiorano nella sua filosofia, in relazione alla religione cristiana, antinomie e aporie. Karl Jaspers notò come le valutazioni negative di Nietzsche sul Cristianesimo si stagliassero a tal punto in primo piano da fare quasi scomparire quelle positive[6], sostenendo come la sua ostilità alla religione della decadenza nascesse dalla sua propria essenza cristiana, dai suoi “impulsi cristiani”[7]. Cresciuto in un ambiente di fede protestante, dopo la prematura morte del padre e del fratello, la madre e la nonna paterna attesero alla sua educazione religiosa, ispirata al pietismo e alla fiduciosa credenza del cuore in un Dio buono e misericordioso.
Successivamente, nelle scuole di Naumburg e Pforta, Nietzsche si accostò a uno studio critico, filologico dei testi sacri, arricchitosi più tardi grazie alle conoscenze fornitegli dall’amico e docente di teologia Franz Overbeck[8]. Gli studi teologici, affiancati e soppiantati in seguito dalle acquisizioni filologiche di Lipsia e Basilea, indussero il giovane a ripensare i fondamenti teoretici del Cristianesimo, alla luce della cultura classica. Il genio ellenico venne affermandosi come violenta esuberanza vitale di contro all’invilirsi moraleggiante di ogni istinto naturale e forte sotto il peso della croce. All’uomo spirituale Nietzsche oppose l’uomo dionisiaco[9]; al malriuscito sofferente e inerme, l’uomo agonico; all’altruismo servile, l’egoismo aristocratico; alla torma dei compassionevoli in Cristo, l’uomo dell’eterno ritorno, discepolo del dio Dioniso[10]. Se è vero che, parlando di Nietzsche, il suo nome evoca nichilismo, ateismo, va sostenuto che la filosofia nietzscheana non è senza dio, non è un umanesimo a-teo, bensì un umanesimo teologicamente pagano: un neo-paganesimo, una resuscitata religione mitica, sul cui trono siede l’antico dio veniente e redentore, Dioniso. Questi è l’unico nume degno di sopravvivere accanto all’Oltreuomo. Dopo la morte del dio falso e bugiardo dei cristiani, una divinità del mito risorge sulle ceneri del dio della storia.
Non si manifesta, forse, arduo il pensiero di una eventuale somiglianza tra una siffatta figura antica, l’Übermensch dionisiaco e l’uomo nuovo, Cristo? L’esegesi filosofica più recente sull’Übermensch è stata avanzata da Massimo Cacciari nell’opera L’Arcipelago. In essa si tende a giustapporre l’icona Oltreuomo e l’icona Cristo sulla base di accostamenti determinativi formalmente e vagamente plausibili, ma non sufficientemente icastici e validi da poter generare una qualsivoglia affermazione fondante e decisiva sul pensiero di Nietzsche. Il tratto comune del tramonto e del farsi altro da sé rimane un punto fermo nella esposizione di Cacciari, ma la struttura, l’origine dell’agire tramontante, credo abbia una natura completamente diversa nelle due icone. Cristo, nel suo tramontare a se stesso, nella sua kénosis, non fa altro che abbandonare la propria temporanea dimensione umana per recuperare la mai, di fatto, abbandonata dimensione divina. Il suo dio non è il danzante Dioniso, né il dio giudeo-cristiano che presiede al presunto ordinamento etico del mondo, ma il dio strutturalmente altro da sé, eternamente inquisitore di se stesso, il quale solo nell’eterna domanda che chieda ragione del suo essere può rendersi identico nella non identità, identico nell’alterità: il Deus Trinitas, il quale solo mantenendo il proprio ego sum qui sum questuante, relazionale, può rendersi capace di ospitare in sé l’alterità quale fondamento del suo essere[11]. L’Oltreuomo, così come Nietzsche lo delinea nelle sue opere, vive nell’universo del mito, non assume mai una dimensione che gli sia propria, non è mai uomo né mai effettivamente oltre-uomo, perché se la facies precipua di una siffatta oltre-figura è l’eterno tramonto, l’eterno oltrepassamento di sé, allora esso sarà sempre destinato a esistere al di là di un “se stesso” che di fatto non potrà mai dirsi tale, se non nell’attimo di Gordio, nel supremo atto della decisione, per poi subito oltrepassare anche questo attimo come non costitutivo del suo essere, di un Essere il cui dio altro non è che l’indefinito ed eterno gioco danzante,γελῶντι πρωσώπῳ nel pensiero possibilitante della creazione, della distruzione e della ri-creazione, incessantemente, eternamente, di nuovo: Dioniso.
L’Oltreuomo non potrebbe mai affermare la propria “egoità”, perché l’asserire determinante ne negherebbe l’esistenza e l’identità stessa ne costituirebbe interruzione e limite della propria Überwindung. Cristo può, al contrario, affermare “Ego sum” perché il suo farsi altro incede fra due dimensioni: l’umanità e la divinità, alla luce di una dimensione storica. Egli deve tramontare a se stesso solo per riacquistare una delle sue già costitutive identità-alterità in lui compresenti.
L’Oltreuomo non avrà mai un’identità, o meglio, il suo oltrepassarsi dovrebbe presupporre un’identità da oltrepassare, ma è l’identità di un attimo, il tempo di un Sì e poi di nuovo il ritorno. Si potrebbe anche pensare che la dimensione stessa del tramonto sia la sua identità. Congetture e pensieri; a ogni modo io vedo una diversità tra il tramonto oltreomistico e il tramonto cristico. Il Cristo inteso da Cacciari in senso oltreomistico, come colui che si sradica da ogni fissità identitaria per recuperare e rinnovare una propria identità nell’alterità, è il Cristo che si libera da ogni φιλοψυχία, da ogni amor di sé per recuperare una dimensione altra che costituisca il fondamento e l’essere dell’identità stessa di tutta l’umanità. Come la dimensione Oltreuomo è un luogo che abita già dentro ...