Il Ritorno
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Il Ritorno

Storie migrabonde

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Il Ritorno

Storie migrabonde

About this book

Questo libro è un puzzle: di ricordi, nostalgie, desideri, di perdite e di ritrovamenti. La scrittura di Ana Kramar nasce dall'esigenza profonda, umana ancor prima che letteraria, di ricostruire un mondo perduto, distrutto dalla guerra e dalla lontananza, ed è guidata da una vivida immaginazione che sopperisce ai ricordi, quando questi si rivelano incerti o troppo dolorosi. Eppure l'autrice non sfugge certo il dolore, anzi se ne serve per fondare una piccola epica dello sradicamento sulle macerie delle memorie; uno sguardo, al tempo stesso intimo e sociale, assolutamente vitale, a metà tra la disperazione e la speranza, tra il sogno e la reminiscenza. Persino la lingua "matrigna" di cui si serve è funzionale a questa volontà di ri-creare qualcosa che esca dalle secche del memoriale e che si presenta al lettore come un mondo concreto, coraggioso, che guarda al domani e a un'umanità interetnica finalmente pacificata dalla condizione comune della provvisorietà. Da queste storie migrabonde emerge una "potenza ombelicale", un ponte personale e culturale sul quale Ana Kramar si muove con la disinvoltura di un'equilibrista. Un ponte sospeso ma "edificabile", che ci rivela le qualità umane e artistiche di una scrittrice vera.

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Information




Ana Kramar



IL RITORNO

Storie migrabonde





Gilgamesh edizioni

Prefazione


Il ritorno... Quante volte nel corso del nostro vivere desideriamo, vorremmo tornare sui nostri passi, alle scelte fatte o a quelle non fatte, in luoghi antichi abbandonati e mai più rivisti o, se rivisti, non riconosciuti? Ana Kramar ha provato sulla sua pelle il dolore di chi deve andarsene via, il malessere del non ritorno e, forse, la delusione insita nel ritorno (sempre che esso possa avvenire). Un sentimento diffuso, che si spande sottile, (in)controllato, non voluto e pur necessario, intriso di disagio e nostalgia, ma anche calma. Ritorno come ricordo che si fa e sfa, sedimenta nel profondo, condiziona. Un’idea che dimora e staziona inquieta; un animale in gabbia cui un distratto guardiano può lasciare aperta la porta.
Il ritorno, un titolo semplice per un libro idealmente complesso, ma, nel contempo, di straordinario impatto emotivo. Ana Kramar un giorno ha lasciato la nativa Bosnia, laddove, nel cuore dell’Europa, ex Jugoslavia, si è consumata una stupida guerra, fatta di atroci episodi – come non ricordare la triste e trista vicenda di Srebrenica? Oltre ottomila esseri umani, ragazzi e adulti, massacrati e seppelliti senza nome in fosse comuni, un vero genocidio e crimine di guerra – e pulizia etnica (scrivesi pulizia, leggasi vergogna, in quanto una delle cose più sporche che abbiano mai colpito e travagliato l’umanità, la comune umanità che ci dovrebbe legare e non dividere).
Sono anche Storie migrabonde quelle di Ana: storie dimenticate e riportate a galla, di errabondi senza più patria né terra, ricollocatisi altrove, anime in cerca di ciò che fu e non sarà più. Perché anche il ritorno non restituirà il tolto: il maltolto da quell’aspra faccenda che è la realpolitik, dall’assuefazione all’iniquità, dall’ipocrisia sotterranea e dilagante, all’indifferenza che amalgama nel peggio. Quell’indifferenza che faceva, e ancora fa, così male alla coscienza del mondo, allorché nelle piazze dei mercati o alle file per procacciarsi il cibo piovevano bombe, e la mira d’infallibili cecchini appostati sulle alture circostanti mieteva vittime innocenti, civili con la sola colpa di amare, oltre che la propria città, un’idea di pacifica convivenza fra genti, qualsivoglia fosse la loro appartenenza, credo politico o religione. Chi non ricorda amaramente le finestre nere, vuote o rotte, di Sarajevo, ciechi occhi a scrutarci e a scrutare nell’abisso più fondo, e i tram bruciati, relitti nelle strade, lungo le quali si doveva correre allo scoperto e a zig-zag per scampare alla morte ottusa e improvvisa? Citiamo una breve, ma fulminante ed emblematica poesia di Izet Sarajlić, La fortuna alla maniera di Sarajevo: A Sarajevo/ in questa primavera 1992,/ tutto è possibile;/ fai la coda per comprare il pane/ e ti ritrovi al Servizio Traumatologia/ con una gamba amputata./ E dopo asserisci/ d’aver avuto anche fortuna”.
Ciò nonostante, i racconti di Ana, che si svolgano nella sua martoriata terra d’origine o lontano da essa, protagonisti menti e cuori migrabondi, si dipanano con un filo di “quietudine”, da non confondere con passività e supina rassegnazione. Semplicemente l’autrice nella sua maniera piana, e insieme piena e coinvolgente, ha elaborato (e quanto deve essere stato ciò non scevro di sofferenza...) ogni accaduto, autobiografico o storico, per restituirci una riflessione matura, per donarci volti perduti, per chiederci, dopo tanto silenzio da parte nostra (sottolineare
nostra), una partecipazione finalmente consapevole.
Non sono gridati i racconti di Ana, nemmeno il primo, L’ultimo ballo (non si ricerca alcun facile effetto splatter, né truculenza, e sarebbe stato oltremodo facile!), che si sviluppa nella città già martire: Tutte le notti sento il suono sordo del badile che cozza contro qualche pietra mentre scava nell’umida terra del parco in cui si seppelliscono i cadaveri senza le cerimonie o gli onori dovuti, senza canti funebri e senza lacrime. Mi unisco alla loro silenziosa preghiera e non riesco per lungo tempo a cancellare l’immagine di un mucchio di terra fresca che diventa velocemente una piccola altura, perché la sento respirare, sento come si mette in moto per ricoprire tutto in fretta. Sono periodi lungi che si susseguono, un ininterrotto monologo interiore, dove rivive tutto l’orrore, ma anche la pietà, la paura così come la voglia disperata di normalità, la tragedia, lo straniamento e il desiderio dell’intimità, degli affetti e dell’amore.
Sono poi gli occhi di un bambino ad accompagnarci nel racconto Nella lingua di tutte le madri e quelli di un emigrato, uno dei tanti vagabondi costretti fra frontiere e burocrazie, che non si danno pena della pena di chi sta in fila per il rinnovo del permesso di soggiorno, in Non uscire mai dalla fila, delicata riflessione su come l’amore non potrà mai essere bandito percorrendo imperscrutabili sentieri, ignoti all’arida Legge. L’incontro è sempre possibile, anche nell’ambito di una lunga, lenta e sfibrante colonna di persone che attendono un timbro, inchiostro per la palingenesi della speranza.
Un amico per Amir ci accompagna nei misteriosi meandri dell’amicizia, che s’afferma al di là di limiti temporali e convenzioni sociali, mentre Il popolo che ride si muove fra ironia e surrealtà, e la figura dell’uomo gigante, con la sua saggezza urlata, si scolpisce davvero nell’immaginario.
Il discorso proibito è un ritratto dall’interno, una sorta di “gruppo di famiglia”... le solite chiacchiere fra bosniaci mentre sorseggiano lentamente il caffè turco e trascorrono le loro giornate parlando dei tempi di pace, quando c’era Tito... quasi uno spaccato antropologico coi modi della narrativa, lieve ed esaustivo.
La canzone è una delle più struggenti narrazioni contenute nel volume: dalla kafana, tipico bar dei Balcani, a una solitaria casa; il rapporto ancestrale e semi-morboso fra una madre e la figlia; una lettera, con l’annuncio e l’attesa di una partenza che risolverà guarendo l’incancrenito. Anche qui, per tornare a crescere, per essere, si dovrà lasciare qualcosa di sé e, può darsi, che il ritorno non sia nemmeno contemplato.
Si trascorre, quindi, dal curiosissimo spunto de Le stanze rosse a Il ritorno, che ha offerto il titolo alla raccolta, così esemplare nella descrizione di eventi piccoli e grandi, l’immane dramma della Storia e la conseguenza dell’esilio quasi sullo sfondo, i fantasmi che aleggiano nel quotidiano, spettri che parrebbero prendere corpo... Ma poi le tornarono in mente i due bicchierini, che aveva trovato sul tavolino di legno quel giorno. Aveva chiesto a tutti, ma nessuno sapeva chi avesse fatto visita a Mirko quel pomeriggio. Però la vecchia vicina, che a causa della sua età, molto avanzata soffriva di sclerosi e che perciò non era affidabile, disse ad Angela che le era sembrato di aver intravisto Goran. Non poteva prenderla sul serio, perché anche gli altri le assicurarono che Goran era morto in guerra. Angela non si dava pace, e continuava a rimuginare su chi avesse potuto passare da casa loro quel giorno.
Immaginiamo che dare alla stampa e licenziare al mondo questo libro sia costato non poco ad Ana, ci pare di indovinarne il gran subbuglio interiore. Catartico anche, con ogni probabilità, ma estremamente ricco per valore formale. Una visione diversa, ossia contro qualsiasi banalizzazione, di quei giorni e luoghi, dei loro postumi. Un’opera a puntate compatta e un mosaico di infinite tessere, sfaccettature e riflessi. Il ritorno ha un’importante qualità “filosofica” e antiretorica e, soprattutto, è un libro che, aiutandoci a sapere e conoscere per quanto sia consentito alla nostra imperfetta natura e intelletto, ci rimane, inesorabilmente e felicemente, dentro.
Alberto Figliolia


L’ultimo ballo


Tanta è la gente che migra verso il Sud da sembrare un enorme stormo di uccelli. E tanti sono gli attimi di vita che scorrono sul nastro della memoria, da riempire un’intera pellicola: una madre sistema i capelli al figlio davanti a un portone, una bambina rincorre il fratello e gli passa la giacca che aveva dimenticato; si gioca una partita a scacchi fra amici, mentre la scacchiera emana un odore duraturo e indimenticabile di sudore umano; dei ragazzi si preparano per una partita di calcio; un taxi si ferma di colpo al richiamo di una ragazza che sta facendo tardi all’appuntamento col fidanzato; gente al volante suona il clacson al corteo degli sposi; due innamorati che si baciano a lungo sul tram; il profumo del gulasch della vicina assale i miei sensi, mentre sento il suono soffocato di un violino provenire dal fondo della via.
Tutto in qualche modo dilegua, come qualcosa di scivoloso che si lascia dietro una bava sottile e va verso l’ignoto.
Questo luogo ormai popolato da carcasse urbane ha perso ogni traccia di umanità; sono giorni che ci bombardano, quasi che loro non abbiano mai avuto una vita normale, o tempo per l’amore, per mangiare e ridere di gusto in compagnia, cantare e ballare, fare una carezza al proprio figlio mentre si prepara per la scuola, parlare con il vicino del raccolto rovinato da una grandinata improvvisa; tempo per quei momenti in cui si sta con la testa immersa sotto l’acqua tiepida della vasca, lasciando giocherellare le dita dei piedi al ritmo delle gocce che cadono dal rubinetto. Ma quanti sono? Non credo si tratti sempre delle stesse persone. Saranno svegli da due o tre giorni ormai. Magari sono strafatti, e riescono a resistere solo grazie alla danza dei bazooka, questa specie di allucinazione di massa...
Sento soltanto i suoni acuti. Le forme e i colori di un mondo che amavo lentamente si trasformano in un incubo e tutto sbiadisce, diventa bianco e nero, un film muto. Ma qui nessuno spiega nulla negli intervalli, nemmeno una didascalia o un avvertimento chiaro su quello che sta per succedere. È una di quelle storie in cui inspiegabilmente una cosa si ricollega all’altra senza interruzione.
Per ora, nessuna visione della cosa, solo i frammenti di una vita precedente. Ma più loro ci calpestano, più noi diventiamo tenaci, riprendiamo a respirare e a guardarci attorno, ci concentriamo e ci perdiamo nelle piccolezze. Sono quelle che contano quando uno cerca di tirare avanti sotto le bombe. Mi viene in mente la solita frase: “Vivi ogni giorno della tua vita come se fosse l’ultimo”. Be’, qui non c’è bisogno che uno te la ripeta, perché ogni angolo della città ti grida in faccia che non c’è scampo, perciò arrangiati, abituati al tuo boia, che prima o poi verrà a prenderti. Se almeno piovesse, penso ingenuo e divertito come un bambino, si potrebbe spegnere o per lo meno risciacquare la bocca, così furiosa e asciutta, di quel drago che continua a sputare fuoco.
«Tu mi capisci, Rafael, non è vero?»
Guardo il mio cane, il suo muso triste, le orecchie abbassate, affamato, ma pieno di comprensione per quello che dico. Rafael è un altro folle idealista che segue fedelmente il suo padrone, attento a ogni suo passo accelerato. In certe movenze iniziamo ad assomigliarci, noi due. Ora mi sta fissando come per dirmi: Fino a quando ancora, come fai a resistere, e perché ce ne stiamo sempre in giro con questa tua stupida macchina fotografica? Tra l’altro la annusa sempre, come se ogni volta potesse veramente riconoscere gli odori che si portano dietro le persone o le cose dentro le mie fotografie. Ma tu veramente moriresti per una foto scattata nel momento giusto? E io dovrei seguirti in questa tua folle impresa? Devo ammettere che se tua madre fosse ancora qui, preferirei starmene con lei e guardarla mentre cucina e di tanto in tanto mi lancia un bel boccone. Potrei finalmente abbassare queste orecchie che non hanno più voglia di stare all’erta. Guardati attorno, mica sei Superman, non puoi salvare questa città!
«Non c’è niente di peggio, Rafo, che ricordarmi dei supereroi in questo momento. Ho bruciato tutti i miei fumetti del cazzo. Fossero così utili a distinguere i buoni dai cattivi non trasformerebbero i ragazzini pieni di brufoli in feroci assassini. Nessuno vuole stare dalla parte dei salvatori, tutti vogliono fare i cattivi. E allora dove sta il bene? Comincio a dubitare di conoscerne il significato.»
Rafael muove la testa come se avesse capito tutto.
Da qualche parte nel mondo, dei bambini giocano alla guerra. Avranno una montagna di videogiochi che simulano diverse battaglie. O mi sbaglio? Chi non ha fatto almeno una volta un gioco simile, costruendosi un’arma in legno, o ritagliandola da un pezzo di cartone, attaccando delle cordicelle di canapa per portarla a spalla. Quello lo capisco, ma non capirò mai, ad esempio, chi produce le mine. Cos’è, un lavoro sporco legalizzato? È come mettersi a produrre cocaina e poi distribuirla in dosi misurate nei supermercati. Tu, qualcuno, produci queste mine, perciò semini solo morte. Avrai pure tutti i documenti in regola, ma per me sarai sempre nella schiera dei peggiori nemici dell’umanità. Bravo, mettiti nella lista da solo, almeno! Che mondo, che mondo... No, no, no, cambio, mi devo solo concentrare bene. Comincio a guardare ai ricordi finché non mi fanno star bene, finché il mio battito non si stabilizza, e dalla mia testa scompare ogni riflessione. Rimane solo una vaga sensazione di ciò che era la gioia di vivere di un tempo. Mi passano accanto dei ragazzi, carichi di videocassette, hanno appena derubato la videoteca all’angolo. Chissà perché? Siamo senza elettricità, eppure sperano di poter guardare tutti quei film, uno di questi giorni, e con ciò pare credano di sopravvivere. Magari io avessi la loro speranza! Il mio sguardo incrocia uno di loro, il ragazzo abbassa la testa, i suoi occhi innocenti sono pieni di luce, quasi ad aspettare un improvviso happy end, e vedano quel che sta accadendo ora come acqua passata. A una certa ora la città torna a essere silenziosa, coi suoi palazzi perfetti nel loro bianco immacolato, la gente che va alla prima messa mattutina o alla moschea al tramonto, le passeggiate lungo il fiume, i ragazzini che fanno ricreazione nei cortili della scuola.
Penso di essere stato abbandonato da tutti, e che il destino di quelli rimasti in questa città assediata sia l’altra strada del bivio, scelta non perché si creda sia quella giusta, ma al primo colpo, senza rifletterci più di tanto, pensando che c’è sempre tempo per cambiare e forse andarsene via. A un tratto compare davanti a me un uomo che ha un volto familiare.
«Ehi, Kruno, non te ne sei andato... E, guarda tu, anche Rafo è ancora vivo!»
«Caro mio» non ricordo più il suo nome, cercherò di farmelo venire in mente dopo. «Rafo vivrà più di tutti noi. Cosa fai qui, ti hanno mandato a riprendere ’sto schifo in giro, e perciò rischi la pelle?»
«Allora non lo sai: stanno arrivando i giornalisti stranieri, le televisioni, cominciano a interessarsi, e quelli lassù non smettono di colpirci, non conoscono tregua! Mi chiedo dove li abbiano trovati...»
«Tranquillo, più ci pensi, peggio diventa. Mettiti da qualche parte, ti faccio una foto!»
Gli dico di appoggiare a terra la sua cinepresa. E lui senza pensarci più di tanto, come un modello abituato a ricevere ordini del genere, assume una posa disinvolta, con un braccio appoggiato al muro e l’altro abbassato in cerca della tasca dei pantaloni. Per un attimo chiude gli occhi; io guardo attraverso l’obiettivo e vedo un uomo pronto a godersi quei pochi secondi, uno che sta per accendersi una sigaretta, ma non lo fa. Improvvisamente ricordo il suo nome, è Edo, un vecchio compagno con cui fumavo nel cortile della Facoltà di Giornalismo, facendo commenti pesanti di natura sessuale sulle compagne. Allora ciascuna di loro era speciale ai nostri occhi, non ci stancavamo mai di osservarle. Terminati gli studi continuai ad incontrarlo nei locali dove si suonava dal vivo, oppure ogni tanto nel parco, quando portavo Rafael a fare la solita passeggiata. Andammo avanti così per qualche anno, senza mai diventare veri amici. Parlavamo sempre di un’infinità di cose, ma bastava il tempo di finire qualche birra e le nostre strade si separavano. Poi lo persi di vista, non frequentavamo più gli stessi posti. Non ci scambiammo mai i numeri di telefono; può darsi che nessuno dei due avesse veramente voglia di impegnarsi in un’amicizia più profonda.
Ed eccolo invece ora riapparire in mezzo a una guerra. È incredibile quanto sia ancora bello, nonostante siano passati più di dieci anni. Forse sono sempre stato un po’ invidioso di lui. Anche lui, come me, si ritrova con qualche chilo in meno e uno sguardo impaurito. L’ho notato esattamente nel momento in cui ha aperto gli occhi e ha guardato dritto in macchina, in cerca di qualcuno capace di dargli una spiegazione, qualcuno che possa svelargli la vera ragione di questo incubo.
Persino l’immagine di Edo vorrebbe volar via, librarsi in alto, fluttuare sui boschi dai lineamenti morbidi e lì posare il corpo stanco, bastonato dalla paura e dimagrito in fretta. Tento di trovare il limite fra il suo sorriso forzato, la paura dello sguardo e il desiderio di tornare alle cose di sempre. In fondo anch’io sto provando la stessa cosa, chiudo gli occhi al momento di scattare e vi imprigiono un’immensa voglia di scomparire, non esistere più, saltare questo pezzo di vita.
A un tratto un’esplosione vicino a noi, distante forse solo un isolato. Rafael comincia ad abbaiare, è fuori di sé, vuole saltarmi in braccio, senza pensarci lo afferro e comincio a correre, eppure Edo non perde l’occasione per accendere la cinepresa. Qui inizia la ripresa di una corsa contro il tempo.
Il passaggio da u...

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