1. L’insurrezione
La Prima dichiarazione della selva Lacandona
Il primo gennaio 1994, mentre erano in corso i festeggiamenti per l’entrata in vigore del Nafta, ovvero per l’ingresso del Messico nel “Primo Mondo”, ovvero per il colpo di grazia alle condizioni di vita di migliaia di piccoli e medi agricoltori, loro, i reietti di sempre, si sollevarono di nuovo in armi dopo aver tentato inutilmente di percorre tutte le altre vie. Da ciascuno dei municipi occupati, gli indigeni in armi gridarono «Adesso basta!» alla mancanza di terra, di lavoro, di assistenza sanitaria, di cibo, d’istruzione, di diritti e di autodeterminazione. Con queste rivendicazioni gli insorti dichiararono a tutti i messicani che avrebbero combattuto di nuovo contro l’usurpatore e l’oppressore, incarnato dal governo federale.
La Prima dichiarazione della selva Lacandona, atto formale di presentazione e rivendicazione delle etnie maya in rivolta, nacque dall’accordo delle numerose correnti di cui lo zapatismo era espressione. Alla sua base vi fu una dichiarazione di guerra all’esercito federale, cioè al massimo supporto dell’esecutivo, allo scopo di sconfiggerlo militarmente, convergere sulla capitale e destituire l’usurpatore: «Pertanto, nello spirito della nostra Costituzione, emettiamo la seguente dichiarazione di guerra all’esercito federale messicano, pilastro di base della dittatura che subiamo, monopolizzata dal partito al potere e guidato dall’esecutivo federale, che oggi ha in Carlos Salinas de Gortari, il suo capo più importante e illegittimo».
Le parole che seguirono, però, differenziarono la Prima dichiarazione dai proclami rivoluzionari di taglio classico, quelli pronunciati dalle guerriglie rivoluzionare latinoamericane nel corso di tutto il XX secolo; una differenza rese paradossale il documento. Nella Prima dichiarazione, infatti, l’azione di scontro con il potere dello Stato trovava il fondamento e la legittimità nell’articolo 39 della costituzione messicana:
Per fermare tutto ciò e come nostra ultima speranza, dopo aver tentato di utilizzare ogni possibile mezzo legale basato sulla nostra Carta Magna, torniamo ancora ad essa, alla nostra Costituzione, per applicare l’articolo 39, che dice: «La Sovranità Nazionale ha la sua origine ed essenza nel popolo. Tutto il potere politico emana dal popolo e si costituisce per il beneficio del popolo. Il popolo ha, in ogni momento, l’inalienabile diritto di cambiare o modificare la forma del suo governo.
L’Ezln compiva un atto illegale, la sollevazione armata, per applicare la legge, l’articolo 39 della Costituzione. Inoltre, seguendo il paradosso, da un lato dichiarò guerra all’esecutivo, dall’altro lanciò un appello al senso di responsabilità degli altri due poteri, il legislativo e il giudiziario, affinché si fossero adoperati alla delegittimazione e alla destituzione dell’esecutivo: «Coerentemente a questa dichiarazione di guerra, chiediamo agli altri Poteri della Nazione di adoperarsi per ripristinare la legittimità e la stabilità della nazione deponendo il dittatore».
La Dichiarazione tornò di nuovo in sintonia con i proclami classici riguardo l’applicazione delle leggi rivoluzionarie zapatiste nei territori liberati (cfr. paragrafo Le leggi rivoluzionarie).
Dalla chiamata alla mobilitazione degli altri poteri statali, si intuì che l’Ezln non voleva sostituirsi ai poteri già esistenti, ma la sua azione era rivolta solo a fermare il governo, il responsabile della miseria degli indigeni. Già da questa Prima dichiarazione allora, si notò una delle particolarità politiche più importanti dell’Ezln: la sua lotta politico-militare non era per il potere. Bastarono meno di due settimane per fugare ogni dubbio. Se la guerra fosse stata mirata alla presa del «Palazzo d’inverno», l’Ezln non avrebbe accettato il cessate il fuoco nel giro di dodici giorni, né il tavolo delle trattative subito dopo. A differenza delle guerriglie tradizionali, l’Ezln non combatté per prendere il potere, ma per esercitarlo, cioè per prendere parte attiva alle decisioni che riguardavano gli stessi guerriglieri. I nuovi zapatisti si sollevarono perché volevano poter decidere su loro stessi, volevano poter vivere secondo le loro leggi, volevano che le decisioni riguardanti le loro terre fossero prese anche da loro. L’Ezln non si sollevò per prendere il potere ma per «qualcosa appena un po’ più difficile: un mondo nuovo».
Ma, proprio perché la lotta zapatista era radicale, l’invito ai poteri legislativo e giudiziario fu solo formale; intuirono che la richiesta di responsabilità avanzata agli altri poteri non avrebbe sortito effetti. Cosa avrebbero dovuto aspettarsi da quel potere giudiziario largamente corrotto che, per esempio, lasciava esercitare l’amministrazione della giustizia nei latifondi al latifondista stesso, o dai legislatori che in Chiapas avevano prodotto uno dei codici più retrogradi e repressivi d’America?
Disingannati dall’effettiva onestà di tutti i poteri, gli zapatisti si prepararono a una lotta in cui avrebbero cercato d’imporre i loro diritti con le armi. Per questa disillusione nei confronti del potere legislativo e giudiziario, gli zapatisti si rivolsero anche al resto della popolazione, perché la negazione dei diritti che lamentavano gli indigeni era la stessa che affliggeva gran parte degli altri messicani:
Popolo del Messico:
noi, uomini e donne, nel pieno delle nostre facoltà ed in libertà, siamo coscienti che la guerra che abbiamo dichiarato è l’ultima nostra risorsa, ma che è una guerra giusta. I dittatori stanno applicando una guerra genocida non dichiarata contro il nostro popolo da molti anni. Pertanto, chiediamo la vostra partecipazione, la vostra decisione di appoggiare questo piano del popolo messicano, che lotta per lavoro, terra, casa, alimentazione, salute, educazione, indipendenza, libertà, democrazia, giustizia e pace. Dichiariamo che non smetteremo di combattere sino a quando i bisogni elementari del nostro popolo non saranno soddisfatti da un governo del nostro paese libero e democratico.
Quelli sopra indicati furono gli undici punti delle richieste zapatiste. La Prima dichiarazione terminò con il classico appello dei proclami rivoluzionari rivolti al popolo o alle masse, con l’invito cioè a tutti i messicani a unirsi alle forze insorte e ad aderire al loro progetto rivoluzionario: «Unitevi alle forze rivoluzionarie dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale».
L’indio universale
La Prima dichiarazione si aprì con la presentazione dei protagonisti dalla nuova insurrezione:
Noi siamo il prodotto di cinquecento anni di lotte: prima contro la schiavitù; poi, durante la Guerra d’Indipendenza contro la Spagna capeggiata dai ribelli; poi per evitare di essere assorbiti dall’espansionismo nordamericano; poi ancora per promulgare la nostra costituzione ed espellere l’Impero Francese dalla nostra terra; poi quando la dittatura di Porfirio Diaz ci negò la giusta applicazione delle Leggi di Riforma, il popolo si ribellò ed emersero i suoi leader come Villa e Zapata, povera gente proprio come noi, ai quali, come noi, è stata negata la più elementare preparazione; così possono usarci come carne da cannone e saccheggiare le risorse della nostra patria e non importa loro che stiamo morendo di fame e di malattie curabili, e non importa loro che non abbiamo nulla, assolutamente nulla, neppure un tetto degno, né terra, né lavoro, né assistenza sanitaria, né cibo, né istruzione, e neppure abbiamo diritto di eleggere liberamente e democraticamente i nostri rappresentanti politici, né vi è indipendenza dallo straniero, né vi è pace e giustizia per noi e per i nostri figli.
Coloro che si sollevarono di nuovo contro l’ingiustizia erano coloro che lottavano da oltre cinquecento anni, coloro che resistettero per questo lungo tempo; erano quelli la cui storia non conosce un giorno passato senza che alcuno si sia ribellato, seppur dimenticato da chi, la “Storia”, si arroga il diritto di scriverla. Eppure, nella stessa Prima dichiarazione (come per buona parte del discorso zapatista) non si fa mai esplicito riferimento agli indios e alla questione indigena. È vero che dichiarando di provenire da cinquecento anni di lotta si richiamavamo alla tradizione della resistenza indigena, ma il messaggio della dichiarazione era aperto a tutti. Fu proprio la componente indigena della direzione politica dell’Ezln a insistere su questa scelta. Non vi fu solo il fatto che una guerra india avrebbe richiamato alla memoria una lunga sequenza di sconfitte e di repressioni; al contrario, si legge la volontà di allargamento della lotta a tutti. Chi indio non era non doveva sentirsi escluso, perché la Prima dichiarazione insistette sull’elemento inclusivo. Una volta accettate le rivendicazioni e stabilito chi era il nemico, la ribellione avrebbe assunto caratteri generali.
È innegabile che l’Ezln sia un esercito maya, tuttavia esistono due diversi piani del discorso. Da una parte vi è l’individuo che prende parte al movimento: in questo caso la maggioranza degli individui che prendono parte all’insurrezione sono indigeni, vi è dunque molto spirito di corpo e il grande orgoglio di essere un esercito di indigeni. Ed è anche vero che un movimento di questo tipo, per come si è formato l’esercito ribelle, non poteva che essere indio. Solo il senso della comunità, il rispetto e il sacrificio per essa, hanno permesso il costituirsi di un esercito in piena regola senza che il fatto trapelasse al di fuori di quanti ne facevano parte. Una disposizione al sacrificio per la comunità che però non entra in conflitto con l’individuo, che rispetta la persona, pur riconoscendo il bene comune superiore al bene del singolo.
Accanto a tutto ciò, però, c’è il discorso universale inteso alla maniera degli indios; un discorso universale a cui essi, dall’ambito locale, giungono direttamente senza transizioni intermedie. Un’universalità intesa nella visione dell’etica classica, sulla scia della filosofia dei Lumi: l’indio sfruttato e discriminato che si fa portavoce delle rivendicazioni di democrazia, giustizia e libertà. Ma anche un’universalità nell’affermazione del particolare, dunque dell’individuo; un universale non «benché indio» ma «proprio perché indio». Un universale che si genera dall’affermazione di una soggettività che riconosce “l’altro” perché essa stessa è “l’altro” di chi lo vede da fuori. Il rispetto per “l’altro”, altro non è che la proiezione del rispetto per se stessi. Dunque un mondo universale perché capace di contenere tutti i mondi particolari.
Le leggi rivoluzionarie
Tra gli ordini che il Comando generale zapatista diramò alle proprie forze insorte, il primo fu quello di avanzare verso la capitale, aiutando la popolazione a eleggere le proprie autorità autonome: «Avanzare verso la capitale del paese, sconfiggendo l’esercito federale messicano, proteggendo durante l’avanzata liberatrice la popolazione civile e permettendo al popolo, nelle aree liberate, di eleggere liberamente e democraticamente le proprie autorità amministrative».
Insieme all’elezione delle autorità sarebbero state applicate, nei territori liberati, le leggi rivoluzionarie. Con tale ordine la Dichiarazione rientrò nel solco dei proclami rivoluzionari latinoamericani lasciando un po’ perplessi, almeno fino a quando tali leggi non vennero rese pubbliche.
Le leggi rivoluzionarie vennero elaborate nel corso di due anni di lavoro dai vari comitati politici e redatte dalla dirigenza dell’Ezln. Poi, con un percorso inverso, vennero sottoposte prima alla discussione nelle assemblee comunitarie e quindi all’approvazione, che avvenne nella prima metà del 1993. Poiché furono approvate dopo aver deciso l’entrata in guerra, queste rispondevano sia a una logica di stato d’emergenza sia alle aspettative che le comunità avevano riposto nell’insurrezione. L’offensiva indigena avrebbe di colpo liberato i territori dal dominio delle istituzioni e dei latifondisti. Con le armi avrebbero recuperato centinaia di ettari di terre coltivabili che decenni di azioni legali e occupazioni temporanee non erano riuscite a ottenere. Le norme introdotte attraverso l’insurrezione avrebbero provveduto innanzitutto al miglioramento economico, mediante le “Leggi sull’industria e sul commercio”, le “Leggi sul lavoro” e, soprattutto, la “Legge agraria rivoluzionaria”. Quest’ultima rappresentò il fulcro delle rivendicazioni collettive. Come preambolo, rifiutò la riforma dell’articolo 27 della Costituzione di Salinas e la conseguente possibilità di vendere la terra ejidale. Al contrario, la legge dichiarò legittima la proprietà collettiva (art. 5) anche se non parlò di possesso comunitario tradizionale ma genericamente di cooperative. La stessa fissò un tetto massimo alla quantità di terra posseduta (art. 3) e obbligò i beneficiari della ridistribuzione all’utilizzo della terra per coltivazioni utili al sostentamento della popolazione messicana (art. 8). Questo articolo fu la risposta a quanto stava accadendo nei latifondi dove le coltivazioni erano sempre più rivolte all’esportazione verso i paesi ricchi, pregiudicando in tal modo la sovranità alimentare nazionale. Lo stesso elemento di rottura nei confronti delle economie al servizio di paesi terzi si osservò anche nelle altre due leggi. L’articolo 1 della Legge sul lavoro sancì che i lavoratori delle maquiladoras avrebbero dovuto percepire lo stesso salario che la fabbrica pagava ai lavoratori del paese d’origine, solamente in valuta nazionale. In aggiunta alle vigenti leggi federali sul lavoro, l’articolo sarebbe servito a limitare lo sfruttamento dei lavoratori e quindi l’insediamento delle maquiladoras. La stessa legge sancì l’adeguamento automatico del salario con gli aumenti dei beni di consumo (art. 2). Anche la Legge sull’industria e sul commercio affrontò il problema dei prezzi. Per gli alimenti di base, questi sarebbero stati stabiliti da una commissione formata da lavoratori, produttori, commercianti e rappresentanti eletti (art. 1). Inoltre sarebbe stata vietata la monopolizzazione di qualsiasi prodotto onde evitare le speculazioni, definite «tradimento della patria e sabotaggio» dall’articolo 2. Da ultimo, l’articolo 4 stabilì che le attività chiuse dai proprietari perché poco redditizie sarebbero passate in mano ai lavoratori, ad affermare la preminenza del lavoro sul profitto.
Un secondo gruppo di leggi fu quello relativo alla giustizia sociale, con la “Legge sulla sicurezza sociale”, la “Legge sulla giustizia”, la “Legge di riforma urbana” e la già citata “Legge rivoluzionaria delle donne”. Con la prima l’Ezln stabilì le modalità di protezione di anziani, orfani e invalidi. La seconda, invece, trovò immediata applicazione nei primi giorni dell’insurrezione quando i prigionieri politici e i detenuti comuni vennero liberati dall’Ezln, con l’eccezione di assassini, stupratori e narcotrafficanti. L’articolo 2 della stessa legge – «Tutti i governanti, dal presidente municipale al presidente della Repubblica, potranno essere soggetti a giudizio qualora si incontrassero elementi di incolpabilità» – sarebbe stato inutile in uno stato di diritto, dove tutti i cittadini dovrebbero già essere uguali di fronte alla legge. Viceversa le esperienze dei popoli indigeni mostrava che non era così e quindi ritennero necessario ribadire il principio di uguaglianza. La terza legge venne elaborata da quanti avevano partecipato all’insurrezione lavorando nel tessuto urbano e avevano rilevato una parte di problemi da cui erano afflitti i ceti poveri. Se uno degli undici punti delle rivendicazioni della Dichiarazione (la terza rivendicazione è la casa) riguardò tutti, la Legge di riforma urbana era sostanzialmente rivolta ai poveri inurbati, costretti a elemosinare un alloggio. Gli articoli 2 e 3 fissarono una soglia massima agli affitti, mentre gli articoli 4 e 5 stabilirono le modalità di utilizzo di terreni ed edifici pubblici da destinare all’uso abitativo. L’applicazione di questa legge avrebbe presupposto un controllo della città che l’Ezln non aveva pianificato. La legge quindi rappresentò la dimostrazione dello slancio di giustizia che animava i ribelli.
Un ultimo gruppo stabiliva i diritti e i doveri in quel particolare momento: la guerra. La “Legge sui diritti e sui doveri delle forze armate rivoluzionarie”, la “Legge sui diritti e sui doveri dei popoli in lotta” e la “Legge sui tributi di guerra” servirono a regolare le interazioni tra l’esercito e le comunità zapatiste nonostante che alcune regolamentazioni, come il mantenimento dell’Ezln da parte delle comunità, fossero in vigore da anni. Le altre furono di rottura rispetto al comportamento normale dell’esercito federale. La Legge stabilì quello che non potevano fare i miliziani e gli ufficiali insorti e che invece facevano i federali: lavori per il proprio beneficio, occupazione di terre comunali, imposte sulla popolazione. A differenza dei federali, gli ufficiali sarebbero stati responsabili degli abusi commessi dai sottoposti. Inoltre stabilì la differenziazione tra il potere militare e quello civile, almeno a livello di principio. In pratica, i membri del Ccri erano le persone che avevano maggiore influenza e autorità, dunque...