Medea
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Euripide

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"Medea" (Μ?δεια, Médeia) è una tragedia di Euripide, andata in scena per la prima volta ad Atene, alle Grandi Dionisie del 431 a.C.La tragedia contiene una forma di critica al modello familiare tradizionale in uso nella Atene del V secolo a.C. Di fronte allo sdegno ed alla disperazione di Medea per le nuove nozze del marito, infatti, quest'ultimo contrappone motivazioni che all’ateniese medio potevano apparire sensate: la necessità di generare nuovi figli per la città, di assicurarsi una posizione sociale adeguata e la convinzione che del resto egliavesse fatto già molto per lei, portandola via dal mondo barbaro in cui viveva prima (la Colchide) e rendendole onore. L'autore Euripide (in greco, Ε?ριπ?δης, in latino, Euripides; Atene, 485 a.C. – Pella, 407-406 a.C.) fu un drammaturgo greco antico.È considerato, insieme ad Eschilo e Sofocle, uno dei maggiori poeti tragici greci. Traduzione a cura di Ettore Romagnoli
Ettore Romagnoli (1871-1938), accademico d'Italia, professore di Letteratura greca a Roma, fu uno dei protagonisti della cultura italiana nella prima metà del Novecento.

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Medea

AMBIENTAZIONE:
L'azione si svolge a Corinto, dinanzi alla casa di Giasone.

NUTRICE:
Deh, mai varcate non avesse a volo
le Simplègadi azzurre il legno d'Argo,
verso il suolo dei Colchi, e mai non fosse
nei valloni del Pelio il pin caduto
sotto la scure, e al remo non si fossero
strette le mani degli eroi gagliardi,
che, per mercé di Pelia, a cercar vennero
il vello d'oro! Navigato allora
non avrebbe Medea, la mia signora,
alle torri di Iolco, in cuor percossa
dall'amor di Giasone; e mai, le vergini
Pelie convinte alla paterna strage,
col suo sposo in Corinto e coi suoi figli
dimora eletta non avrebbe, cara
ai cittadini alla cui terra giunse
esule, e in tutto ligia ella a Giasone:
grande saldezza d'una casa, quando
non fa contrasto la sposa allo sposo.
Ma tutto infesto è adesso, e affligge il morbo
ogni più cara cosa. In regio talamo
Giasone or dorme, ed ha traditi i figli
suoi, la consorte: ché sposò la figlia
di Creonte, signor di questa terra.
E Medea, l'infelice, abbandonata,
ad alta voce i giuramenti invoca,
e della destra la solenne fede;
e del ricambio che Giasone or le offre,
a testimoni gli Dei chiama. E giace,
sfatte le membra nel dolore, e cibo
non prende, e tutto il dì si strugge in lagrime,
poiché si sente dal consorte offesa,
né l'occhio leva, né distoglie il viso
mai dalla terra; e, come rupe, o flutto
marino, degli amici ode i conforti.
Salvo, se il bianco suo collo talora
volge, ed il padre suo, la casa sua,
la patria, seco stessa ella rimpiange,
ch'ella ha traditi, per seguir quest'uomo
ch'or la disprezza. Sotto i colpi, misera,
della sventura, appreso ha quanto giovi
il non lasciar la propria patria. E i figli
odia, e a vederli non s'allegra; e temo
che disegni novelli essa non volga;
perché l'animo ha fiero; e sopportare
sì mali tratti non saprà: pavento
che immerga in cuore un'affilata lama,
entrando in casa dov'è steso il talamo,
nascostamente, ed il suo sposo e re
uccida, e n'abbia danno anche maggiore:
ch'essa è tremenda; e contro lei chi mosse
a nimicizia, facil non sarà
che riporti trofeo. Ma questi pargoli
già qui, lasciati i loro giochi, muovono,
che nulla sanno dei materni mali:
fanciullesco pensier cruccio non cura.

AIO:
O vecchia ancella, dalla casa addotta
della signora, perché dunque sola
stai su la soglia, e teco stessa gemi?
Come senza di te Medea rimase?

NUTRICE:
Aio dei figli di Giasone antico,
la mala sorte dei signori affligge
i buoni servi, e al cuore lor s'appiglia.
A tal dolore io son giunta, che brama
di qui venir mi vinse, ed alla terra
narrare e al ciel della Signora i mali.

AIO:
Non desisté la trista, ancor, dai gemiti?

NUTRICE:
Semplice! Appena adesso il mal comincia.

AIO:
Stolta, se posso ciò della regina
dire, che nulla sa dei nuovi mali!

NUTRICE:
Vecchio, che c'è? Non rifiutarti, parla.

AIO:
Non vo': di quanto già dissi, mi pento.

NUTRICE:
No, per la bianca tua barba, confidalo
alla compagna: io tacerò, se occorre.

AIO:
Senza aver l'aria d'ascoltare, fattomi
vicino al luogo ove dei dadi al gioco
seggono gli anziani, all'acque sacre
di Pirene vicino, un tale udii
dir che Creonte, il re di questa terra,
da Corinto scacciar questi fanciulli
vuole, e la madre. Se poi vera sia
la nuova, ignoro. Deh, vera non fosse!

NUTRICE:
E patirà Giasone, anche se in lotta
con la madre, che ciò soffrano i figli?

AIO:
Cedono ai nuovi i parentadi antichi,
né di Medea la casa ama Creonte.

NUTRICE:
Siamo perduti, ove all'antico, prima
d'averlo scosso, un nuovo mal s'aggiunge.

AIO:
Non dir parola, tu, taci: momento
questo non è che la signora sappia.

NUTRICE:
O figli, udite l'animo del padre
qual è verso di voi? Morte imprecargli
non voglio, ch'esso è mio signor; ma certo
è chiaro ch'egli è pei suoi cari un tristo.

AIO:
Chi non è tale, fra i mortali? Impara
che ciascuno ama sé più che il suo prossimo,
quando vedi che più non ama il padre,
per le nozze novelle, il proprio sangue.

NUTRICE:
In casa entrate, sarà bene, o figli.
E tu tienili quanto è più possibile
in disparte, e fa' sì che non accostino
la madre esacerbata: io già l'ho vista
che li guardava con occhio di furia,
come se accinta a qualche male; e l'ira
non deporrà, bene lo so, se prima
su qualcun non s'abbatta. Oh, sui nemici
possa però piombar, non sugli amici!

(Dal di dentro si ode la voce di Medea)

MEDEA:
Ahimè!
Ahi me misera! Me sventurata!
Quali pene! Oh, potessi morire!

NUTRICE:
Questo è ciò, figli miei, ch'io temevo.
Della madre il cuor s'agita, l'ira
si ridesta. Affrettatevi, entrate
nella casa, lontani tenetevi
dal suo sguardo, e a lei presso non fatevi,
dall'umor suo selvaggio guardatevi,
dall'indole infesta dell'animo
orgoglioso. Via, subito entrate.
Ben chiaro è fin d'ora,
che ben presto, con alto furore
scoppierà questo nembo di gemiti
ch'or s'innalza. Che cosa farà,
così morsa dai mali, quell'anima
superba, che ignora pietà?

MEDEA:
Ahimè!
Ho patite, ho patite sciagure
d'alti gemiti degne. O figliuoli
maledetti di madre odiosa,
deh, possiate morire col padre,
tutta vada la casa in rovina!

NUTRICE:
Ahi me misera, ahi me sventurata!
E che colpa hanno dunque i tuoi figli
del fallo del padre? Perché
li aborrisci? Ahimè, figli, che cruccio
nel mio cuor, che vi colga sventura!
Son tremende le audacie dei principi,
poco avvezzi a ricever comandi,
molto a darne, è ben raro che l'ira
a deporre s'inducano. Uguali
meglio è viver fra uguali. Invecchiare
vo' fra piccoli beni e sicuri.
Ché la vita mediocre, basta
dirne il nome, e prevale, ed a viverla
di gran lunga migliore è per gli uomini.
Ciò che fugge misura, non può
niun vantaggio recare ai mortali;
e maggiori sciagure, se il Demone
mai s'adira, procaccia alle case.
(Si avanza il coro, componto di donne corinzie)

CORO:
Preludio
Della misera donna di Colco
udito ho la voce, le grida,
ché ancor non si placa. Su, vecchia, tu parla:
ché un ululo dentro al palagio
udii dalla gemina porta.
Né, donna, m'allegro pei guai della casa,
che cara è per me divenuta.

NUTRICE:
Più non è questa casa: è finita:
ché letti di principi accolgono
Giasone; e si strugge nel talamo
la nostra signora; né v'ha
parola d'amico che possa
molcirne lo spirito.

MEDEA:
Ahimè!
Sul mio capo la fiamma celeste
piombasse! A che viver mi giova?
Ahi, ahi, nella morte disciogliermi
potessi, lasciare
la vita odiosa!

CORO:
O Giove, o Terra, o Luce, udiste i gemiti
che intona questa misera?
Qual brama...

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