I fratelli Karamazov
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I fratelli Karamazov

Fëdor Dostoevskij

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I fratelli Karamazov

Fëdor Dostoevskij

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"I fratelli Karamazov" è l'ultimo romanzo scritto da Fëdor Dostoevskij, spesso ritenuto il vertice della sua produzione letteraria. Lafamiglia Karamazov, che vive nella profondaprovincia russa, èdominata dal tirannico padreFëdor che esercita la sua autorità suiquattro figli: Alësa, Dmitrij,Ivan,e Smerdjakov, quest'ultimofiglio illegittimo.Quattro diverse personalità, quelle dei fratelli Karamazov, che trovano come punto di convergenza l'odio comune verso il padre. L'autore Fëdor Michajlovi? Dostoevskij (Mosca, 11 novembre 1821 – San Pietroburgo, 9 febbraio 1881) è stato uno scrittore e filosofo russo.È considerato, insieme a Tolstoj, uno dei più grandi romanzieri e pensatori russidi tutti i tempi. Traduzione a curadi Federigo Verdinois(1844-1927).

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Information

Publisher
Passerino
Year
2015
ISBN
9788899447144
Subtopic
Clásicos

II - Dalla vita dello ieroschimonaco starec Zosima, defunto in Dio. Composta secondo le sue proprie parole ad opera di Aleksej Fëdoroviè Karamazov

Note biografiche

A) Dove si parla del giovane fratello dello starec Zosima.

Padri e maestri miei diletti, io nacqui in un lontano governatorato del nord, nella città di V., da un padre nobile ma non illustre, né di alto grado gerarchico. Egli morì quando io avevo solo due anni e non conservo alcun ricordo di lui. Egli lasciò alla mia cara madre una casetta di legno e un piccolo capitale, non abbondante ma sufficiente a garantire una vita dignitosa a se stessa e ai figli. Noi figli eravamo solo due: io – Zinovij, e mio fratello maggiore, Markel. Questi aveva circa otto anni più di me, era di carattere irascibile e irritabile, ma buono, alieno dalla derisione e stranamente taciturno, soprattutto in casa, con me, con la madre e la servitù. Al ginnasio aveva un buon profitto, ma non andava d’accordo con i compagni, sebbene non litigasse mai con loro, almeno così mi diceva mia madre. Sei mesi prima della sua morte, all’età di diciassette anni, egli aveva preso l’abitudine di frequentare un uomo che conduceva una vita isolata, una specie di esiliato politico che proveniva da Mosca ed era stato confinato nella nostra città per il suo libero pensiero. Era un bravo studioso e un filosofo di fama dell’università. Chissà perché egli si affezionò a Markel e prese l’abitudine di invitarlo a casa sua. Il ragazzo trascorse intere serate da lui durante tutto l’inverno fino a quando non richiamarono l’esiliato al servizio statale, a Pietroburgo, dietro sua richiesta personale, giacché vantava dei protettori. Ebbe inizio la Quaresima e Markel non voleva rispettare il digiuno, anzi bestemmiava e ci scherzava sopra: “Sono tutte sciocchezze e non c’è nessun Dio”, diceva, tanto da fare inorridire mia madre, la servitù e persino me; anche se avevo solo nove anni, sentendo le sue parole, mi spaventavo moltissimo anch’io. La nostra servitù era composta interamente da servi della gleba, erano quattro persone, tutte comprate a nome di un proprietario terriero di nostra conoscenza. Ricordo ancora di quando mia madre vendette una di quei quattro, la cuoca Afim’ja, zoppa e anziana, per sessanta rubli di carta e al suo posto assoldò una serva libera. Ed ecco che la sesta settimana di Quaresima mio fratello, che era sempre stato cagionevole, di debole costituzione e incline alla tubercolosi, peggiorò all’improvviso; di statura era piuttosto alto, ma era minuto e delicato, con un viso molto bello. Doveva essersi raffreddato, ma venne il dottore e subito sussurrò all’orecchio della mamma che si trattava di tisi galoppante e che non sarebbe arrivato a primavera. Nostra madre si mise a piangere e cominciò a insistere, con grande cautela (per non spaventarlo), perché mio fratello andasse in chiesa a confessarsi e a prendere la Santa Comunione finché era ancora in grado di reggersi in piedi. Questo lo fece inalberare, egli ingiuriò la Chiesa di Dio, ma poi si fece pensieroso; egli intuì di colpo di essere gravemente malato e che era questo il motivo per il quale nostra madre lo voleva mandare a confessarsi e a fare la comunione fintanto che ne aveva le forze. Del resto, da tempo sapeva anche lui di non godere buona salute; già un anno prima, infatti, mentre eravamo a tavola io, lui e mia madre, egli aveva osservato freddamente: “Non vivrò a lungo su questa terra con voi, forse non camperò neanche un altro anno”, il che si rivelò una giusta profezia. Passarono tre giorni ed ebbe inizio la Settimana Santa. Ed ecco che martedì mio fratello iniziò ad osservare il digiuno. “Lo faccio solo per voi, mamma, per farvi contenta e farvi stare tranquilla”, le disse. Mia madre scoppiò a piangere per la felicità, ma anche per il dolore: “Vuol dire che la sua fine è vicina, se è avvenuto in lui un tale cambiamento”. Ma non poté continuare a lungo a recarsi in chiesa, egli fu presto costretto a letto, tanto che lo confessarono e gli impartirono la comunione a casa. Vennero giorni luminosi, limpidi, odorosi, quell’anno la Pasqua era tardiva. Ricordo che tossiva per tutta la notte, dormiva male, ma la mattina si vestiva sempre e tentava di mettersi a sedere in una soffice poltrona. Ecco come lo ricordo: seduto tranquillo, gentile, sorridente, con il viso allegro, gioioso, malgrado la malattia. Era completamente cambiato dal punto di vista spirituale: di colpo aveva avuto inizio in lui una trasformazione meravigliosa! La vecchia balia entrava spesso da lui e gli diceva: “Permetti che accenda anche qui la lampada davanti alle immagini, tesoruccio!” In passato egli non glielo permetteva, anzi la spegneva persino, quella lampada, se la trovava accesa. “Accendila, accendila pure, cara, sono stato cattivo a vietartelo in passato. Accendendo la lampada è come se tu pregassi Iddio e anche io prego;rallegrandomi per te. Così preghiamo tutti e due lo stesso Dio”. Ci sembravano strane quelle parole, e mia madre si ritirava a piangere in camera sua, ma quando entrava nella sua camera si asciugava le lacrime e assumeva un’aria allegra. “Mamma, non piangere, tesoro mio”, le diceva. “Ho ancora molto da vivere, molto da gioire qui con voi, e la vita, la vita è allegra, piena di gioia!” “Ah, figlio mio, ma di quale allegria parli, se la notte ardi per la febbre e tossisci tanto che a momenti ti si lacera il petto?” “Mamma”, le rispondeva, “non piangere, la vita è un paradiso, e noi siamo tutti in paradiso, solo che non lo vogliamo vedere, ma se volessimo vederlo, domani stesso tutto il mondo diventerebbe un paradiso”. E tutti si meravigliavano delle sue parole, tanto strano e deciso era il tono con cui le diceva: si commuovevano e piangevano. Venivano a trovarci i nostri conoscenti: “Cari, cosa ho fatto per meritarmi il vostro amore? Per quale motivo mi amate tanto? E come ho fatto a non accorgermene prima, a non apprezzarlo?” Ai servi che entravano nella sua camera egli diceva di continuo: “Cari, perché vi affannate a servirmi, mi merito io che voi mi serviate? Se Dio avesse misericordia di me e mi lasciasse tra i vivi, sarei io a mettermi a servire voi, giacché tutti devono servirsi l’un l’altro”. La madre, sentendolo parlare, scuoteva il capo: “Figlio mio, è la malattia che ti fa parlare così”. “Mamma, gioia mia, se non è possibile che cessino di esistere padroni e servi, lascia almeno che io faccia il servo ai miei servi, così come loro servono me. E vi dirò ancora una cosa, mamma: che ciascuno di noi è colpevole davanti a tutti per tutto, e io più di tutti gli altri”. Nostra madre sorrise persino a queste parole, piangeva e sorrideva: “E in che cosa saresti colpevole tu più di tutti gli altri, davanti a tutti? Fuori ci sono assassini, criminali, e tu quali peccati hai avuto il tempo di commettere dal momento che accusi te stesso più degli altri?” “Mamma, gocciolina del mio sangue” (aveva preso l’abitudine di usare espressioni dolci, insolite), “gocciolina mia cara, gioiosa, sappi in verità che ciascuno è colpevole davanti a tutti, per tutti e per tutto. Non so come spiegartelo, ma sento che è così, lo sento fino a provarne tormento. E come abbiamo fatto a vivere sino ad oggi, adirandoci, senza sapere nulla?” Così ogni giorno si alzava sempre più pervaso di commozione e di gioia, tutto palpitante di amore. Quando veniva il dottore, un tedesco, un uomo anziano, si chiamava Ejzenšmidt, gli diceva scherzando: “E allora, dottore, ce la faccio a vivere ancora una giornatina a questo mondo?” “Non un giorno solo, ma molti giorni vivrete ancora”, gli rispondeva il dottore, “e mesi e anni vivrete”. “Ma che mesi e anni!” esclamava per tutta risposta. “A che serve contare i giorni quando basta un solo giorno per conoscere tutta la felicità possibile? Miei cari, a che serve litigare, mettersi in mostra e serbare rancore l’uno con l’altro? Andiamo direttamente in giardino a giocare, mettiamoci a passeggiare e a giocare, amiamoci e lodiamoci l’un l’altro, baciamo e benediciamo la nostra vita”. “Vostro figlio non vivrà a lungo”, diceva il dottore alla mamma, quando lei lo accompagnava alla porta, “la malattia gli sta prendendo il cervello.” Le stanze della sua camera davano sul giardino e il nostro giardino era ombroso, con alberi secolari, sugli alberi crescevano le gemme primaverili, arrivavano in volo i primi uccellini, cinguettando e cantando accanto alle sue finestre. Ed egli li ammirava estasiato e chiedeva scusa anche a loro: “Uccellini di Dio, uccellini gioiosi, perdonatemi anche voi perché anche davanti a voi ho peccato”. Nessuno di noi capiva allora che cosa volesse dire, mentre lui piangeva dalla gioia: “Sì, c’era una tale gloria di Dio intorno a me: gli uccellini, gli alberi, i campi, il cielo, solo io vivevo nella vergogna, solo io disonoravo tutto e non notavo affatto la vostra bellezza e la vostra gloria”. “Prendi troppi peccati su di te”, gli diceva piangendo nostra madre. “Mamma, gioia mia, sto piangendo per la gioia, non per dolore. Anche se non riesco a spiegartelo, lo stesso voglio essere colpevole dinanzi a loro giacché non so nemmeno come amarli. Ammesso che io abbia peccato con tutti, in compenso tutti mi perdoneranno e così sarà il paradiso. Non mi trovo forse in paradiso adesso?”
E ci sono ancora molte cose che non sto qui a ricordare e ad inserire nel mio racconto. Ricordo che una volta entrai nella sua camera quando non c’era nessuno. Era una bella serata, il sole stava tramontando e la stanza era illuminata da un raggio obliquo. Quando mi vide mi chiamò, io mi avvicinai, egli mi mise le mani sulle spalle, mi guardò commosso negli occhi, con tanto affetto; non disse nulla, ma continuò a guardarmi così per un minuto: “Be’, adesso vai, va’ a giocare, vivi anche per me!” Allora io uscii e andai a giocare. E in seguito, nella vita, ho ricordato molte volte fra le lacrime come mi aveva ordinato di vivere anche per lui. Ci disse ancora molte parole sorprendenti e bellissime, anche se incomprensibili per noi, allora. Egli morì la terza settimana dopo Pasqua, nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali, e sebbene avesse smesso anche di parlare, egli non mutò fino all’ultima sua ora: aveva un aspetto gioioso, nei suoi occhi c’era serenità, ci cercava con lo sguardo, ci sorrideva, ci chiamava. Persino in città si parlò della sua morte. A quel tempo fui colpito da quegli eventi, ma non troppo, anche se piansi molto quando lo seppellirono. Ero giovane allora, un bambinetto, ma nel mio cuore ogni particolare si fissò indelebilmente; ne restò, celata, la sensazione. A suo tempo tutto si sarebbe risvegliato e avrebbe dato i suoi frutti. E così è stato.

B) Dove si parla delle Sacre Scritture nella vita di padre Zosima.

Rimanemmo soli io e mia madre. Dei buoni conoscenti le dettero ben presto il seguente consiglio: vi è rimasto un solo figlioletto, poveri non siete, disponete di un capitale, quindi perché non fate come fanno tutti: mandate vostro figlio a Pietroburgo; lasciandolo qui lo potreste privare di un brillante futuro. Consigliarono a mia madre di mandarmi nel corpo dei cadetti a Pietroburgo per poi entrare nella guardia imperiale. Mia madre esitò a lungo, le era difficile separarsi dall’unico figlio rimastole, tuttavia si decise, anche se con molti pianti, pensando così di garantire la mia felicità. Mi portò a Pietroburgo e mi sistemò lì; da quel giorno non la vidi mai più. Infatti, ella morì tre anni dopo, e per tutti quegli anni non aveva fatto che soffrire e trepidare per sé e per me. Della casa paterna mi sono rimasti solo preziosi ricordi, giacché non c’è nulla di più prezioso per un uomo dei ricordi che risalgono alla prima infanzia, nella casa paterna, ed è quasi sempre così, anche se nella famiglia c’è stato solo un filo di amore e concordia. Anche della famiglia peggiore si possono conservare ricordi preziosi, basta solo che la tua anima sia capace di cercare le cose preziose. Fra i ricordi di casa mia, annovero anche i ricordi sulle Sacre Scritture che ero molto curioso di conoscere fin dai tempi nella casa paterna, sebbene fossi molto piccolo. Avevo un libro allora, una Storia Sacra, con bellissime illustrazioni, dal titolo “Cento e quattro storie sacre del Vecchio e del Nuovo Testamento”: fu su quello che imparai a leggere. Ancora adesso lo conservo qui nello scaffale, lo conservo come un ricordo prezioso. Ma ricordo che ancora prima che imparassi a leggere, all’età di otto anni, per la prima volta mi visitò un profondo sentimento di devozione. Mia madre mi stava portando alla messa nella casa del Signore, il lunedì della Settimana Santa (c’ero soltanto io, non ricordo dove fosse mio fratello allora). Era una bella giornata e ricordo, come fosse adesso, l’incenso che si diffondeva dal turibolo e fluttuava dolcemente verso l’alto, mentre su nella cupola, dallo stretto occhio, si riversavano sopra di noi che eravamo in chiesa i raggi del sole e l’incenso, salendo ad ondate, sembrava sciogliersi in essi. Io guardavo commosso e per la prima volta nella mia vita, quel giorno, consapevolmente, accolsi nell’anima mia il primo seme della parola di Dio. Un adolescente avanzò verso il centro della chiesa con un grosso libro, così grosso da reggerlo a fatica, almeno così mi sembrò allora, lo poggiò sul leggio, lo aprì e cominciò a leggere; per la prima volta all’improvviso io capii qualcosa, per la prima volta nella vita capii quello che si legge nella chiesa di Dio. Nel paese di Us viveva un uomo, giusto e timorato di Dio, ed egli possedeva molte ricchezze, un gran numero di cammelli, di pecore e di asine, i suoi figli menavano vita allegra, ed egli li amava molto e pregava Dio per loro nel timore che, menando vita allegra, essi potessero peccare. Un giorno, insieme ai figli di Dio, si reca da Dio anche il diavolo e dice al Signore che egli ha girato per tutta la terra e sotto terra. “E hai notato il mio schiavo Giobbe?”, gli domanda Dio. E Dio si vanta con il diavolo indicandogli il grande santo suo schiavo. “Consegnalo a me e vedrai che il tuo servo si lamenterà di te e maledirà il nome tuo”. E Dio consegnò al diavolo il suo giusto, che tanto amava, e il diavolo colpì i suoi figli e i suoi armenti, disperse le sue ricchezze, tutto d’un colpo, come un fulmine divino, e Giobbe si lacerò le vesti, si gettò per terra ed esclamò in adorazione: “Nudo son uscito dal ventre di mia madre, e nudo tornerò alla terra: il Signore ha dato, il Signore ha tolto. Che il nome di Dio sia benedetto nei secoli dei secoli!” Padri e maestri, abbiate indulgenza per queste mie lacrime – giacché è come se in questo momento la mia infanzia tutta risorgesse davanti a me, ed io respiro adesso come respiravo allora, con il piccolo petto di un bambino di otto anni e sento lo stesso stupore, lo stesso turbamento e la stessa felicità di allora. La mia immaginazione allora fu catturata da quei cammelli, da Satana che parlava a quel modo con Dio, e Dio che consegnava il suo schiavo alla rovina e il suo schiavo che gridava: “Che sia benedetto il tuo nome nonostante la punizione che mi infliggi” – e poi il sommesso e dolce canto della chiesa: “Fa’ che la mia preghiera salga fino a te” e di nuovo l’incenso dal turibolo del prete e la preghiera di noi tutti inginocchiati! Da allora non riesco a leggere quel sacro racconto senza piangere – anche ieri l’ho riletto. Quanta grandezza, quanto mistero e quanta imperscrutabilità vi è in esso! In seguito udii le parole degli schernitori e dei denigratori, parole di orgoglio: “Come ha potuto il Signore cedere il prediletto fra i suoi santi per il divertimento del diavolo, sottrargli i figli, colpire lui stesso con la malattia e le piaghe, tanto che egli si raschiava la putredine delle sue ferite con un coccio, e a che scopo? Solo per vantarsi dinanzi al diavolo, per poter dire: ‘Ecco che cosa è capace di sopportare il mio santo per amor mio!’” Ma la grandezza di questa storia è nel suo mistero: l’effimero volto della terra e la verità eterna vi confluiscono insieme. Attraverso la verità terrestre si compie l’azione della verità eterna. Il Creatore qui, come nei primi giorni della creazione sua, quando al termine di ogni giornata pronunciava la lode “È buono ciò che ho creato”, guarda Giobbe e loda l’opera sua. E Giobbe, lodando il Signore, serve non soltanto lui, ma l’intera sua creazione, per generazioni e generazioni, nei secoli dei secoli, giacché proprio a questo egli era destinato. Signore, che libro ci hai dato e quali insegnamenti! Che libro è questa Bibbia, quali meraviglie, quale forza è stata data all’uomo attraverso di essa! È come il modello del mondo e dell’uomo e dei caratteri degli uomini, tutto vi è nominato e indicato per i secoli dei secoli. E quanti misteri vi sono risolti e svelati: Dio risolleva Giobbe, gli dona nuove ricchezze, passano molti anni ed ecco che egli ha altri figli e li ama, ma – Dio mio! – si potrà dire: “Com’è possibile che egli possa amare questi nuovi figli, quando quelli di prima non ci sono più, quando li ha perduti? Al ricordo di quelli, poteva egli essere perfettamente felice, come prima, per quanto questi nuovi figli gli potessero essere cari?” Ma egli poteva, sì, poteva: l’antico dolore per il grande mistero della vita umana si trasforma gradualmente in una calma, commossa gioia; la mite serenità della vecchiaia prende il posto del sangue ardente della giovinezza; benedico il sorgere del sole ogni giorno e il mio cuore, come sempre, canta in suo onore, ma adesso amo ancora di più il suo tramonto, i suoi lunghi raggi obliqui e, con essi, i quieti, dolci, teneri ricordi, le dolci immagini di tutta la mia lunga vita benedetta – e su ogni cosa la verità divina, che tutto lenisce, concilia e perdona! La mia vita volge alla fine, lo so, lo sento, ma in ogni giorno che mi rimane sento come la mia vita terrena sia già in contatto con una vita infinita, ignota e incalzante, e questo presentimento fa trepidare di esultanza la mia anima, fa risplendere la mia mente e piangere di gioia il mio cuore... Amici e maestri, ho sentito più volte, soprattutto negli ultimi tempi, che da noi i sacerdoti di Dio, soprattutto quelli dei villaggi, si lamentano dolorosamente, dappertutto, per le scarse entrate e per la propria vita umiliante: essi dichiarano, persino per iscritto – l’ho letto io stesso – di non essere più in grado di leggere le Scritture al popolo per via della penuria dei loro mezzi e che se i luterani e gli eretici venissero a portare via il loro gregge, loro lo lascerebbero andare giacché, dicono, scarse sono le loro entrate. Signore Iddio! Che tu possa aumentare le loro entrate (giacché giusta è la loro lamentela), ma in verità vi dico: se c’è un colpevole per questo, per metà siamo colpevoli noi stessi! Ammettiamo pure che non abbiano tempo, ammettiamo che essi giustamente si lamentino di essere sempre oberati dal lavoro e dai servizi, ma questo non sarà vero per tutto il tempo, avranno almeno una sola ora alla settimana per ricordare Dio. E poi non si lavora tutto l’anno. Che raccolgano intorno a sé una volta alla settimana, di sera, anche soltanto i fanciulli, per incominciare – i padri ne avranno notizia e cominceranno a venire anche loro. Non occorre mica costruire un palazzo per questo, basta accoglierli nella propria izba; non abbiano timore che quelli sporchino la loro casa, ci resteranno soltanto per un’ora. Che aprano quel libro e comincino la lettura, senza parole astruse e senza alterigia, senza elevarsi sopra di loro, ma con tenerezza e umiltà, felici di leggere ai loro fedeli e che essi li ascoltino e li comprendano, e pieni di amore verso le parole della lettura; che si fermino solo di tanto in tanto per spiegare le parole che i semplici non possono capire, ma che non si preoccupino, essi capiranno tutto, tutto comprende il cuore ortodosso! Che leggano la storia di Abramo e Sara, di Isacco e Rebecca, di come Giacobbe andò da Labano e in sogno lottò con Dio e disse: “Questo posto è terribile” e tutto questo rimarrà impresso nelle menti della gente semplice. Che leggano, soprattutto ai bambini, di come i fratelli vendettero come schiavo Giuseppe, il mite adolescente, sognatore e grande profeta, e dissero al padre che una belva aveva dilaniato suo figlio, mostrandogli la sua tunica insanguinata. Che leggano come poi i fratelli si recarono in Egitto per comprare il grano e Giuseppe, già nominato viceré e da loro non riconosciuto, li tormentò, li accusò e trattenne il fratello Beniamino, e tutto per amore: “Vi amo e vi tormento perché vi amo”. Giacché per tutta la vita aveva serbato il ricordo di come l’avevano venduto ai mercanti nel deserto rovente, presso un pozzo, e di come lui, tormentandosi le mani, aveva pianto e supplicato i fratelli di non venderlo schiavo in terra straniera; ed ecco che vedendoli dopo tanti anni, egli li amava ancora smisuratamente, ma li perseguitò e li tormentò per amore. Alla fine si allontanò da loro, incapace di sopportare oltre i tormenti del proprio cuore, si gettò sul suo letto e pianse; poi asciugò le lacrime, si presentò a loro raggiante e felice e disse: “Fratelli, sono Giuseppe, vostro fratello!” Che leggano ancora di come fu felice il vecchio Giacobbe quando apprese che il suo caro figliolo era vivo, e di come si precipitò in Egitto, abbandonando la sua patria, e morì in terra straniera, pronunciando per i secoli dei secoli come suo testamento la sublime parola, accolta in segreto nel suo mite, dolce cuore per tutta la vita, che dalla sua progenie, da Giuda, sarebbe derivata la grande speranza del mondo, il Conciliatore, il Salvatore del mondo! Padri e maestri, perdonate e non adiratevi se come un bambino parlo di quello che voi conoscete da molto tempo, e che potete insegnarmi con arte e eloquenza cento volte superiori. Racconto tutto questo per l’esultanza che provo, e perdonate le mie lacrime, giacché io amo questo libro! Che piangano anche loro, i sacerdoti di Dio, e vedranno che anche i cuori dei loro ascoltatori palpiteranno di rimando. Occorre solo un piccolo seme, un minuscolo seme: che lo gettino nell’anima di un uomo semplice ed esso non morirà, ma vivrà nella sua anima per tutta la vita, resterà nascosto in lui fra le tenebre, tra il lezzo dei suoi peccati, come un puntino luminoso, come un sublime ammonimento. E non occorrono molti insegnamenti e spiegazioni, capirà tutto molto semplicemente. Pensate forse che i semplici non capiscano? Provate a leggere loro la storia, commovente e toccante, della bella Ester e dell’arrogante Vasti o la storia miracolosa del profeta Giona nel ventre della balena. Non dimenticate nemmeno le parabole di Nostro Signore, soprattutto dal Vangelo secondo Luca (così ho fatto io) e poi, dagli Atti degli Apostoli, la conversione di Saul (quella va letta assolutamente, assolutamente!) e infine dai Èet’i–Minei, almeno la vita di Aleksej, uomo di Dio e gioioso martire, grande fra i grandi, e la veggente di Dio, la portatrice di Cristo Santa Maria Egiziaca – e penetrerete nei loro cuori con questi semplici racconti; che i sacerdoti dedichino un’ora alla settimana a queste letture, nonostante le loro scarne entrate, una piccola ora. E vedranno da soli che il popolo è caritatevole e riconoscente e che li ricompenserà cento volte di più; ricordando la gentilezza del sacerdote e le sue commosse parole, lo aiuteranno spontaneamente nei campi, lo aiuteranno anche in casa, e gli porteranno pure maggior rispetto di prima – in questo modo anche le sue risorse si accresceranno. È una cosa così semplice che a volte si teme di esprimerla a parole, per paura di essere derisi, eppure è così vera! Colui che non crede in Dio, non crederà nemmeno nel popolo di Dio. Colui che crede nel popolo di Dio, scorgerà anche la santità di lui, seppure fino a quel momento non abbia affatto creduto in essa. Soltanto il popolo e la sua forza spirituale che avanza convertirà i nostri atei che si sono strappati dalla terra natia. E a che cosa serve la parola di Cristo, se non diamo l’esempio? Il popolo è perduto senza la parola di Dio, giacché la sua anima anela alla parola sua e alla percezione del bello. Quand’ero giovane, molto tempo fa, sono passati quasi quarant’anni, padre Anfim ed io erravamo per tutta la Russia chiedendo la carità per il nostro monastero; una notte pernottammo sulla riva di un grosso fiume navigabile, insieme ai pescatori, e accanto a noi si venne a sedere un ragazzo contadino, d’aspetto dignitoso, sui diciotto anni, a giudicare dall’apparenza; il giorno dopo doveva correre alla sua destinazione per tirare un barcone di mercanti con l’alzaia. Notai che egli guardava dritto davanti a sé con lo sguardo limpido e commosso. Era una notte di luglio, luminosa, calma, mite, dall’ampio fiume saliva un vapore che ci rinfrescava, di tanto in tanto udivamo lo sciacquettio dei pesciolini, gli uccellini tacevano, era tutto silenzioso e magnifi...

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