Piccoli geni
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Piccoli geni

Alla scoperta dei microrganismi

Stefano Bertacchi

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  1. 160 pages
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Piccoli geni

Alla scoperta dei microrganismi

Stefano Bertacchi

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Un fantastico viaggio nel microcosmo, esplorando la straordinaria biodiversità microbica di batteri, lieviti e muffe, i cui nomi scientifici, a volte bizzarri e impronunciabili, nascondono incredibili caratteristiche. Dal fondo dell'oceano alle nuvole, dall'Antartide alla macchina del caffè, i microrganismi hanno colonizzato moltissimi habitat, alcuni degni dell'inferno dantesco, e sono fondamentali per la vita sulla Terra. Questi esseri si muovono, mangiano e persino cacciano, si fanno la guerra, ma allo stesso tempo collaborano tra di loro e anche con esseri viventi ben più grandi, quali noi umani ricoperti e pieni di microrganismi come siamo, letteralmente dalla testa ai piedi. Un volume che, se da un lato ci condurrà in un tour del corpo umano dalla bocca fino all'intestino, dall'altro ci porterà a capire perché la nostra società è fortemente legata a questi piccoli geni, nel male, come le malattie, ma anche nel bene, dal cibo fino alle biotecnologie, che permettono di sfruttarli per detersivi e plastiche del domani.

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Information

Publisher
Hoepli
Year
2021
ISBN
9788820399979

1
Microcosmo

Mi o mu?

µ
Tutto parte da questo simbolo, che rappresenta la dodicesima lettera dell’alfabeto greco. Una lettera come tante, di sicuro non di rilievo come l’alfa o l’omega, rispettivamente la prima e l’ultima lettera ellenica. L’inizio della nostra storia parte dal centro, e ciò è significativo perché i microrganismi sono proprio al centro del mondo, anche se non ce ne accorgiamo nemmeno. E per scoprirlo non c’è bisogno di andare fino a Delfi, considerato il centro del mondo antico, a consultare l’oracolo, in quanto basta guardarsi intorno. Il pane che state mangiando? Ci sono di mezzo i microrganismi. L’antibiotico che avete preso per combattere quell’infezione? Ci sono di mezzo i microrganismi. Vi puzzano le ascelle? Ci sono di mezzo i microrganismi. Questi esempi ci riportano sempre alla lettera µ, usata dagli scienziati per identificare il fattore di 10-6, ovvero “un milionesimo” di qualcosa; µ diventa quindi abbreviazione per “micro”, abbinato come suffisso a varie unità di misura che possono andare dai micro-secondi ai microgrammi: insomma un qualcosa di molto piccolo, anzi microscopico. Talmente piccolo che un micrometro (µm) equivale a 0,000001 metri, o se preferite 0,001 millimetri: prendete pure un righello e fate le considerazioni del caso. È proprio qui il regno in cui ci addentreremo, in quanto i microrganismi sono gli esseri viventi invisibili all’occhio nudo umano, che vanno da poco meno di 1 µm a circa 200 µm. Per capirci, il batterio intestinale Escherichia coli ha un diametro di circa 1 µm ed è lungo 2 µm, mentre il lievito Saccharomyces cerevisiae dai 5 ai 10 µm. Per fare un confronto, un globulo rosso umano ha un diametro di 8 µm, paragonabile a un lievito, una cellula umana media è di circa 60 µm, un granello di sale 300 µm. Dunque stiamo parlando di un qualcosa di molto ma molto piccolo, eppure autosufficiente per sopravvivere (con le dovute eccezioni). Tra i microrganismi più piccoli troviamo quelli del genere Mycoplasma (da 0,15 a 0,3 µm), noti per causare malattie come la polmonite o vivere pacificamente nella nostra bocca (come nel caso di Mycoplasma pneumoniae e Mycoplasma salivarium rispettivamente).
Un qualcosa di molto piccolo e letteralmente invisibile potrebbe esserci quindi letale, ma prima di andare nel panico dobbiamo pensare che è sempre stato così dalla notte dei tempi e continuerà a esserlo. Semplicemente non lo possiamo evitare, eccezion fatta per condizioni di sterilità, necessarie per molte attività umane, che vanno dal cibo alle missioni spaziali, ma anche al mio lavoro stesso. Perché se non stessi attento alle contaminazioni nelle colture microbiche che sto facendo crescere potrei anche lasciar perdere e andare a casa prima ancora della pausa pranzo. Purtroppo, talvolta capita e l’importante è riuscire ad accorgersene, mediante per esempio metodi empirici, come “ehi ma il mio microrganismo non dovrebbe essere rosa” oppure “perché quando ho tolto il coperchio è partito come il tappo di uno spumante?”, che purtroppo non sono sempre applicabili. Per fortuna qualcuno ha inventato il microscopio e possiamo spiare cosa succede nella nostra coltura cellulare, nonostante spesso due specie diverse siano indistinguibili. Tuttavia, esistono macchinari e procedure standard che ci aiutano a ridurre drasticamente le contaminazioni, in modo da poter staccare il biglietto per lo straordinario mondo di µ sapendo quello che stiamo facendo.
La cosa divertente di µ è che chi ha fatto il liceo scientifico (come me) ha l’abitudine di chiamarla “mu”, mentre chi ha fatto il classico la pronuncia “mi”: ovviamente questo elemento diventa cardine all’interno della faida infinita tra i due sistemi scolastici e probabilmente non troverà mai una soluzione. Non siamo in grado di metterci d’accordo sulla pronuncia di una lettera che ha oltre tremila anni, figuriamoci se riusciamo a farlo su come classificare esattamente i microrganismi che abbiamo da poco imparato a osservare. Nelle prossime pagine approfondiremo come sono stati dati nomi assurdi e complicatissimi a funghi, batteri, archea, protozoi, alghe, chi più ne ha più ne metta, per poi cambiarli nel tempo, tanto per rendere la vita difficilissima a numerosi scienziati, compreso il povero biotecnologo che sta scrivendo queste righe.

Sotto la lente

Volevi solo soldi, soldi *clap clap*
Il ritornello della canzone di Mahmood, vincitrice di Sanremo 2019, potrebbe essere facilmente cantato al signor Antoni van Leeuwenhoek, olandese, di mestiere mercante di tessuti. Noto in tutto il mondo però come colui che ha di fatto dato il via alla microbiologia, descrivendo nel 1676 alcuni microrganismi, come batteri e lieviti.1 Questo grazie alla costruzione di uno strumento che gli ha permesso di spalancare le porte del microcosmo: il microscopio. Probabilmente lo aveva fatto per i soldi, o meglio, per avere un modo per controllare la qualità dei tessuti che passavano dalle proprie mani, questione non di poco conto economico nell’Olanda del XVII secolo. In ogni caso ha dato un contributo tale all’interno della comunità scientifica del suo tempo che per cinquant’anni descrisse le sue proprie osservazioni in numerose lettere inviate alla Royal Society di Londra, la quale pubblicandole diede loro una grandissima diffusione in tutto il mondo. Van Leeuwenhoek non sembra potersi prendere però il titolo di inventore del microscopio, in quanto nel 1665 l’inglese Robert Hooke pubblicò un libro dedicato all’osservazione di alcuni “corpi minuscoli” tramite una “lente di ingrandimento”.2 Questa lente era in realtà un rudimentale microscopio, descritto nel testo stesso con minuzia tecnica, insieme ad alcune strutture dei funghi. In verità prima di lui già nel XVI secolo l’ottico olandese Hans Janssen ne possedeva uno, e forse persino Galileo, ma è con van Leeuwenhoek che davvero si entra nel microcosmo. Egli infatti descrive con tanto di disegni gli organismi osservati, detti animalcules (piccoli animali), tanto che oggi possiamo ricostruire quali fossero, come nel caso di Escherichia coli, che van Leeuwenhoek non poteva aver chiamato così visto che Theodor Escherich, da cui deriva il nome del batterio, sarebbe vissuto un paio di secoli dopo. Il microscopio diventa quindi lo strumento fondamentale per osservare questo mondo invisibile ai nostri occhi e, nonostante oggi sia facilmente reperibile anche nelle scuole, nei musei e acquistabile su internet, è un vero concentrato di tecnologia. Già il microscopio del nostro mercante olandese possedeva i pezzi base che ritroviamo in quelli moderni, ovvero un piatto e un elemento portaoggetti per fissare il campione da osservare, viti per la messa a fuoco e, ovviamente, una lente in grado di ingrandire.3 La versione più diffusa è il microscopio ottico, quello che trovate nelle foto su internet raffiguranti lo scienziato medio, che si basa su una serie di lenti chiamate obiettivi e oculari, che hanno lo scopo di incanalare la luce proveniente da una sorgente incorporata (una lampada) verso il nostro occhio. Il campione, posto sopra una piccola lastra di vetro e protetto dal vetrino coprioggetto, può essere avvicinato all’obiettivo tramite manopole, causando un contatto fisico tra i due. Guardando tramite gli oculari possiamo mettere a fuoco e osservare qualcosa con un ingrandimento fino a oltre mille volte le dimensioni originali. Questo vuol dire che un batterio di 1 µm parrà grande 1 mm, un lievito di 10 µm 10 mm e così via: il microscopio è essenzialmente la chiave per osservare il microcosmo. Come potete immaginare la tecnologia non si è fermata lì e nel tempo sono stati sviluppati microscopi basati su altri fenomeni ottici, come la fluorescenza. I microscopi elettronici invece, basati su fasci di elettroni che scansionano la struttura del microrganismo, ci permettono di avere un’idea della loro forma tridimensionale: quelli a scansione ingrandiscono fino a 10.000 volte, mentre quelli a trasmissione fino a 400.000. Una volta aperta la possibilità di scoprire questo mondo praticamente infinito è emerso però un problema, ovvero come chiamiamo tutti questi animalcules? Soprattutto perché “batterio colorato di viola” o “fungo che usa lo zucchero per fare la birra” non erano nomi molto comodi da usare. O forse no…
Images
Figura 1.1 Batteri disegnati da van Leeuwenhoek a seguito dell’osservazione al microscopio di campioni derivanti dalla propria bocca. Le linee tratteggiate rappresentano il movimento. Copyright © The Royal Society.

Il collezionista

- Lei non ha qualche hobby?
- Colleziono spore, muffe e funghi.
Il dialogo tra la segretaria Janine e il dott. Egon Spengler, esimio membro dei Ghostbusters, gli acchiappafantasmi protagonisti dell’omonimo film del 1984, ci fa capire come parlare della propria passione per i microrganismi non sia l’ideale quando qualcuno sta flirtando con te. È indubbio che Egon fosse il sapientone del gruppo, oggi diremmo un nerd, e la sua collezione calza a pennello. Nel collezionismo è importante trovare un modo per catalogare e classificare i propri pezzi, altrimenti il tutto diventa dispersivo e senza senso. Questo vale per la mia collezione di francobolli, ma anche per gli esseri viventi, per i quali è risultato a un certo punto fondamentale trovare una modalità univoca per identificarli nel mondo. Per questo motivo lo svedese Carlo Linneo, alla metà del XVIII secolo, introdusse la classificazione scientifica delle specie viventi basandola sulla nomenclatura binomiale, dando la spinta decisiva per la tassonomia, ovvero la disciplina della classificazione. Il nome scientifico è costituito da due parole, dove la prima rappresenta il genere, ovvero il gruppo tassonomico più piccolo di cui fa parte l’essere vivente, all’interno del quale si trovano i suoi “parenti” più prossimi.
Possiamo dire che il genere è come un cognome umano, di conseguenza possono esserci più specie con identica prima parte, come per Mycoplasma pneumoniae e Mycoplasma salivarium. La seconda parola invece identifica la caratteristica peculiare di quella specie, in questo caso la malattia causata o il luogo di origine. Il nome scientifico va sempre scritto con caratteri corsivi e la prima lettera del genere deve essere maiuscola: talvolta è possibile abbreviare il genere con solo l’iniziale (per es., M. pneumoniae), ma in questo libro useremo il nome completo. Anche perché come vedrete siamo solo sulla punta del complicato iceberg microbico, quindi se iniziassimo a mettere iniziali non ne usciremmo indenni. Denominazioni come Campylobacter jejuni, Xanthophyllomyces dendrorhous e, per darvi il colpo di grazia, Clostridium saccharoperbutylacetonicum fanno venire il mal di testa solo a provare a leggerli, figuratevi ai poveri scienziati che li studiano. Nonostante questi nomi sembrino costituiti da lettere buttate a caso, come quando il gatto vi passa sulla tastiera del computer e preme un po’ di tasti, hanno un senso e anzi molto spesso hanno lo scopo di descrivere l’organismo stesso e le sue caratteristiche.
Partiamo da Escherichia coli, che deve il genere a Escherich, mentre la seconda parte viene dal latino e letteralmente vuol dire “del colon”. Questo batterio infatti abita nel nostro intestino ed è uno dei suoi guardiani principali, anche se alcune sue versioni possono non essere molto simpatiche. Si nutre degli scarti del nostro cibo, di conseguenza può facilmente duplicarsi e ristabilire la propria presenza nell’intestino. Il lievito Saccharomyces cerevisiae ha invece un nome che lo descrive perfettamente e che attinge a radici sia latine sia greche. Myces deriva dal greco e significa “fungo”, saccharo ci ricorda il saccarosio, cioè il comune zucchero da cucina, mentre cerevisiae viene dal latino e vuole dire “della birra”. Essenzialmente il lievito è un fungo che usa lo zucchero per fare la birra, cosa che effettivamente è vera, e non smetterò mai di ringraziarlo abbastanza per questo.
Quindi mi perdonerete per i tanti complicati nomi scientifici che troverete in queste pagine, perché altrimenti sarei costretto, come spesso accade, a limitarmi a dire “batteri”, senza permettervi di apprezzare la straordinaria biodiversità microbica che ci circonda. È come se in un documentario classico della tv chiamassimo elefanti, ghepardi, uccelli e serpenti “animali” e basta: si perderebbe molto delle spettacolo, oltre a non farci capire niente. Dare un nome scientifico a una specie è molto comodo anche perché per “lievito” in realtà intendiamo un grande gruppo di microrganismi, non solo Saccharomyces cerevisiae, ma anche Saccharomyces pastorianus, Yarrowia lipolytica, Candida antarctica, Brettanomyces bruxellensis e il sopracitato Xanthophyllomyces dendrorhous, i cui nomi celano caratteristiche legate alla forma, all’origine geografica, alle preferenze alimentari o a ciò che producono. A volte invece rendono omaggio a grandi microbiologi: d’altronde riprendendo il motto dei Ghostbusters, who you gonna call (chi chiamerai) se non loro?
Nomen omen

Dove, come, quanto?

Prima ancora di affrontare l’immensa biodiversità microbica, già risulta evidente che gestire il tutto sia abbastanza complicato, sia nel dare un nome ai diversi microrganismi, sia su come studiarli e maneggiarli in laboratorio. Gli umani li hanno in realtà da sempre usati inconsapevolmente, b...

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