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Note
Prefazione all’edizione del decennale
1. David Shields, Fame di realtà (2010)
2. Elena Ferrante, La frantumaglia (2016): «Il nocciolo vero di ogni racconto è la sua verità letteraria, e quella o c’è o non c’è, e se non c’è, nessuna abilità tecnica te la può dare. Lei mi chiede di scrittori maschi che raccontano con autenticità le donne. Non so indicargliene. Me ce ne sono che lo fanno con verosimiglianza, cosa però ben diversa dall’autenticità».
Avvertenza
1. Pur cercando di rispettare la scelta di «leggerezza» dell’autore, abbiamo indicato in nota e in bibliografia le traduzioni italiane cui abbiamo fatto riferimento, anche se in qualche caso le abbiamo modificate in conformità alle osservazioni di Wood. [n.d.t.]
Raccontare
1. L’intervista si trova in The New Brick Reader, a cura di Tara Quinn (2013).
2. Barthes impiega questa espressione in S/Z del 1970 (Einaudi, Torino 1981, traduzione di Lidia Lonzi). Egli intende il modo in cui gli scrittori del diciannovesimo secolo fanno riferimento a un sapere culturale o scientifico comunemente accettato, per esempio a presupposti ideologici condivisi riguardo alle «donne». Io estendo la portata del termine sino a fargli abbracciare qualsiasi tipo di generalizzazione d’autore. Un esempio da Tolstoj: nelle prime pagine della Morte di Ivan Il’ič, un amico del defunto si reca a rendergli l’estremo omaggio e la vedova gli parla delle «terribili sofferenze» patite da Ivan prima di morire. Egli, scrive Tolstoj, «provò un attimo di terrore», ma subito «gli venne in aiuto la solita idea che tutto questo era successo a Ivan Il’ič e non a lui». La solita idea: l’autore fa riferimento con saggia naturalezza a una verità umana di fondo, scrutando serenamente nel cuore del suo personaggio.
3. Mi piace l’espressione per «stile indiretto libero» usata da D.A. Miller (in Jane Austen, or The Secret of Style, 2003): close writing, scrittura ravvicinata.
4. Si veda, per esempio, Fredric Jameson, The Antinomies of Realism (2013).
5. Nabokov era un grande creatore di eccentriche metafore del tipo che i formalisti russi chiamavano «stranianti» o defamiliarizzanti (uno schiaccianoci ha le gambe, un ombrello nero mezzo chiuso sembra un’anatra in lutto stretto ecc.). A essi piaceva come Tolstoj, per esempio, insistesse nel vedere cose da adulti, la guerra o l’opera lirica, dal punto di vista di un bambino per farle apparire strane. Ma mentre per i formalisti russi tale pratica metaforica era emblematica di come la narrativa non facesse riferimento alla realtà, fosse una macchina chiusa in sé (quelle metafore erano i gioielli dell’arte singolare e solipsistica dell’autore), a me interessa di più il modo in cui tali metafore, come la «cosa tutta gambe» di Pnin, fanno profondamente riferimento alla realtà: esse emanano infatti dai personaggi stessi e sono frutto dello stile indiretto libero. Šklovskij, in Una teoria della prosa, si chiede ad alta voce se Tolstoj avesse derivato la sua tecnica di straniamento da autori francesi quali Chateaubriand, benché Cervantes sembri più probabile. Si pensi a quando Sancio arriva per la prima volta a Barcellona e vede in acqua delle galere con tutti i loro remi che, metaforicamente, prende per piedi: «Sancio non riusciva a capacitarsi di come potessero aver tanti piedi quelle navi che si muovevano per il mare». È una metafora straniante in quanto variante di stile indiretto libero; fa apparire il mondo strano, ma Sancio molto familiare.
6. Per misurare l’imbarazzata distanza di Updike dal suo personaggio basta immaginare una versione cristiana di questo brano. Facciamo conto che il giovane studente che cammina per strada sia un fervente cristiano, e il testo dica qualcosa tipo: «E non sarebbe sempre fatta la Sua volontà, com’è scritto nel quarto verso del Padre Nostro?». Lo stile indiretto libero esiste proprio per aggirare simili goffaggini.
7. Vale a dire che, nonostante le loro credenziali postmoderne, sono in qualche misura realisti americani vecchio stile: il loro linguaggio abbonda mimeticamente di linguaggio americano.
8. Lettera a Sarah Orne Jewett, 5 ottobre 1901, in Henry James, Selected Letters, a cura di Leon Edel (1974).
9. Termine di Gérard Genette in Figure III. Discorso del racconto, Einaudi, Torino 1976, traduzione di Lina Zecchi.
Flaubert e la narrativa moderna
1. Lettera a Louise Colet, 9 dicembre 1852, in Gustave Flaubert, Lettere, a cura di Paolo Serini, Einaudi, Torino 1949. [n.d.t.]
2. Le formiche che camminano sul volto sono quasi un cliché della grammatica cinematografica. Pensate a quelle sulla mano in Un chien andalou di Buñuel, o sull’orecchio all’inizio di Velluto blu di David Lynch.
Flaubert e l’ascesa del flâneur
1. William Wordsworth, Il preludio, a cura di Massimo Bacigalupo, Mondadori, Milano 1990. [n.d.t.]
2. Le differenze fra il realismo balzachiano e quello flaubertiano sono tre. In primo luogo se Balzac, come sappiamo, nota nella sua narrativa moltissime cose, mette sempre l’accento sull’abbondanza piuttosto che sulla rigorosa selezione dei dettagli. In secondo luogo, non sente nessun particolare obbligo verso lo stile indiretto libero o l’impersonalità autoriale: tiene alla meravigliosa libertà di fare irruzione in qualità di autore/narratore con saggi e divagazioni e informazioni sociali. (Sotto questo aspetto è decisamente un autore del diciottesimo secolo.) In terzo luogo, diretta conseguenza delle prime due differenze, non prova per nulla l’interesse tipicamente flaubertiano ad appannare l’interrogativo su chi nota tutte quelle cose. Per questi motivi è Flaubert e non Balzac, a mio parere, il vero fondatore della narrativa moderna.
3. Tornerò sulla questione verosimiglianza e artificio nel capitolo «Verità, convenzione, realismo».
Dettagli
1. Sándor Márai, Le braci, a cura di Marinella D’Alessandro, Adelphi, Milano 1999.
2. Marcel Proust, La parte di Guermantes, II, cap. I.
3. Da Anna Karenina; ed è un bell’esempio di autoplagio. Che uno spago sembri avvolto attorno alle loro paffute braccine si dice, in questo romanzo, non di uno ma di due bambini, quello di Levin e quello di Anna. Così Dickens, in David Copperfield, paragona la bocca aperta di Uriah Heep a un ufficio postale e, in Grandi speranze, paragona a un ufficio postale la bocca aperta di Wemmick. Stendhal, nel Rosso e il nero, scrive che la politica è in un romanzo come «un colpo di pistola in mezzo a un concerto», e riprende l’immagine nella Certosa di Parma. Henry James scrisse che Balzac, nella sua monacale devozione alla propria arte, era «un benedettino del presente», espressione che gli piacque tanto che la utilizzò più tardi a proposito di Flaubert. Cormac McCarthy scrive, in Meridiano di sangue, che «le cordigliere azzurre si ergevano dalla loro stessa immagine sbiadita sulla sabbia», bell’espressione cui ritorna sette anni dopo in Cavalli selvaggi scrivendo che «due aironi si ergevano dalle loro lunghe ombre». Perché no? Raramente queste cose tradiscono una qualche fretta; più spesso testimoniano che uno stile è pervenuto a un’intrinseca coerenza. E che è stato raggiunto una sorta di ideale platonico: sono queste le parole migliori, e quindi insuperabili, per quei contenuti.
4. Gerard Manley Hopkins, La freschezza più cara. Poesie scelte, Rizzoli, Milano 2008, traduzione di Viola Papetti. [n.d.t.]
5. A questa immagine ha pesantemente attinto Cormac McCarthy in Non è un paese per vecchi (2005), i cui personaggi hanno sempre le scarpe piene di sangue; di solito, però, del loro.
6. William Shakespeare, Enrico IV, Garzanti, Milano 1981, traduzione di Antonio Meo. [n.d.t.]
7. Nella Morte di Ivan Il’ič Tolstoj paragona a «un uomo che puzza entrato in un salotto» chi parla della morte, che la buona società deve ignorare.
8. Il racconto di D.H. Lawrence «Sentore di crisantemi» inizia così: «La piccola locomotiva numero 4 scendeva sobbalzando fragorosa da Selston con un seguito di sette vagoni» (in Racconti, Mondadori, Milano 1996, traduzione di Carlo Izzo). Ford Madox Ford, che lo pubblicò nella English Review nel 1911, osservò che la precisione del «numero 4» e anche dei «sette vagoni» annunciava un vero scrittore. «Lo scrittore ordinario, trascurato», scrisse, «avrebbe detto “alcuni piccoli vagoni”. Quest’uomo sa ciò che vuole. Vede la scena del suo racconto con precisione». Cfr la biografia di John Worthen, D.H. Lawrence: The Early Years. 1885-1912 (1991).
9. Si può trovarne un bel segno nelle Lezioni di retorica e belle lettere di Adam Smith (1762-63; Quattro Venti, Urbino 1985, traduzione di Roberto Salvucci), in cui si afferma che la descrizione retorica e poetica dovrebbe essere breve, pertinente...