L'algebra della felicità
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L'algebra della felicità

Appunti sulla ricerca del successo, dell'amore e del senso della vita

Scott Galloway

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L'algebra della felicità

Appunti sulla ricerca del successo, dell'amore e del senso della vita

Scott Galloway

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Idee su come posizionare il profilo in un mercato del lavoro sempre più affollato, suggerimenti su come scoprire quali siano le decisioni più importanti della vita o come spiegare che l'unica cosa che conta, in fondo, sono i nostri rapporti con gli altri: Galloway intrattiene, ispira e provoca il lettore su questi e molti altri temi, attraverso un'iconica rappresentazione dei sentimenti. Sfrontato, godibile e sorprendentemente toccante, L'algebra della felicità offre una prospettiva inusuale su ciò di cui tutti hanno bisogno per raggiungere il successo professionale e l'appagamento personale. Il libro ideale per chiunque, in qualsiasi momento della propria vita, stia attraversando un periodo di smarrimento e incertezza.

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Information

Publisher
Hoepli
Year
2021
ISBN
9788820398019

Successo

Quelle che seguono sono brevi storie vere sulla mia formazione e su come ho sviluppato gli strumenti per raggiungere il successo e la stabilità economica.

Siate assetati

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Penso molto al successo e a ciò su cui si fonda; il talento è un aspetto fondamentale, ma resta comunque una caratteristica che potrà garantirti soltanto l’acceso a un privé piuttosto affollato, esattamente come la tessera Gold di una compagnia aerea: anche se ti fa sentire speciale, non appena metti piede in aeroporto ti rendi conto che ci sono tantissime altre persone come te. Ammettiamo, però, che tu appartenga a quell’1 percento di individui particolarmente talentuosi. Congratulazioni! Sei comunque in compagnia di altri 75 milioni di persone, pari al totale dei cittadini tedeschi, in competizione per accaparrarsi qualcosa in più della loro quota base di risorse mondiali. Molti dei giovani adulti a cui chiedo di raccontarmi il tipo di vita a cui aspirano mi parlano di un contesto e di beni materiali identici a quelli descritti da milioni di altri esseri umani. In altre parole, la maggior parte dei giovani lettori di questo libro vorrebbe entrare a far parte di quel famoso 1 percento. Il solo talento, però, non ti porterà lontano.
Il vero pungolo che permette ai talenti di raggiungere il successo è la fame; una fame che può nascere da innumerevoli fattori. Personalmente non credo di averla sentita da sempre: ho, però, un carattere piuttosto insicuro e timoroso, il che, insieme agli istinti che tutti abbiamo, ha fatto poi crescere in me il tipo di fame di cui sto parlando. Comprendere i motivi all’origine della nostra fame può far emergere la differenza tra successo e appagamento.
Per i primi diciotto anni della mia vita non mi sono impegnato granché: all’inizio dell’università ero, come quasi tutti i ragazzi della mia età, discretamente piacevole, intelligente e attraente (è quasi superfluo specificare che dei diciottenni siano «attraenti») e l’interesse reciproco tra coetanei si basava su un non meglio definito sentimento di attrazione («è carina»/«è un figo»). Non più tardi dell’ultimo anno di corso, però, le ragazze avevano già iniziato a ronzare intorno ai ragazzi che sembravano aver messo la testa a posto e che avevano raggiunto i loro primi obiettivi o che, essendo di famiglia molto benestante, avevano già accesso ad alcuni dei benefit riservati alle persone di successo – come per esempio i week-end ad Aspen o a Palm Springs nella casa di proprietà dei genitori.
L’istinto femminile iniziava a entrare in gioco e le ragazze cercavano compagni in grado di garantire la sopravvivenza della prole – invece di perdere tempo con un personaggio un po’ strano che indossava una cravatta di cuoio sottile e mocassini da barca ed era in grado di recitare a memoria le scene chiave della trilogia del Pianeta delle scimmie. Anche i miei istinti, però, si stavano facendo vivi e sentivo di voler ampliare la mia possibilità di scelta sulle ragazze. Decisi che uno dei requisiti necessari per raggiungere il mio scopo era quello di mostrare dei segnali di successo, e fu così che andai a lavorare in Morgan Stanley. Non avevo idea di che cosa facesse un banchiere di investimento, ma sapevo che esserlo equivaleva a lanciare un segnale di successo conclamato.
Non mi ci volle molto, comunque, a capire che il segreto sta tutto nel trovare qualcosa che sei bravo a fare. I premi e i riconoscimenti che derivano dall’essere bravo a fare qualcosa riusciranno a farti appassionare a qualunque disciplina o materia di cui tu possa occuparti. Per me, gli investimenti bancari rappresentavano una singolare combinazione di argomenti noiosi uniti a un terribile stress. Aver capito – piuttosto in fretta, per la verità – che il mio desiderio di colpire le ragazze mi stava portando alla rovina fu la spinta necessaria per andarmene, abbandonando così la strada di un successo privo di soddisfazioni.
Ci fu un secondo aspetto, però, che coinvolgeva comunque il sesso femminile. Quando frequentavo il secondo anno della specializzazione, a mia madre fu diagnosticata una forma molto aggressiva di cancro al seno. Dimessa anzitempo da un ottimo ospedale di Los Angeles, iniziò la chemioterapia; poco tempo dopo, mi chiamò a Berkeley dicendo che stava molto male. Presi un volo per raggiungerla quel pomeriggio stesso e la trovai sul divano del soggiorno, in penombra, avvolta in una vestaglia, mentre si contorceva per i dolori e vomitava in un secchio. Era distrutta. Mi guardò e mi chiese, «Che cosa facciamo?». Il solo ricordo di questo episodio mi turba ancora profondamente.
La nostra assicurazione non copriva le cure, e noi non conoscevamo nessun dottore. Provai un turbinio di emozioni, ma ricordo nitidamente che, più di tutto, avrei voluto essere ricco e importante. Sapevo che, tra le altre cose, il benessere economico porta contatti di tutti i generi e offre l’accesso a diversi livelli di cure sanitarie. Noi, invece, non avevamo nulla.

Nausea

Nel 2008 la mia fidanzata rimase incinta e quando mio figlio vide la luce fu il mio turno di assistere, in prima persona, allo sconvolgente miracolo della nascita di un altro essere umano. Francamente, sono ancora convinto che gli uomini dovrebbero restare fuori dalla sala parto. Non provai nessuno dei sentimenti di cui parlano tutti: amore, gratitudine e meraviglia furono schiacciati in primis da un forte senso di nausea, e poi dalla consapevolezza che, per mantenere in vita questa creaturina, ci stavamo avventurando in una specie di esperimento scientifico senza ritorno. Tuttavia, come spesso accade, l’istinto prese il sopravvento e, con il passare del tempo, la nostra esperienza divenne sempre meno spaventosa, anzi la trovammo persino gradevole. Il desiderio di proteggere il nostro bambino e occuparci di lui si fece sempre più profondo.
La crisi economica del 2008 mi colpì in modo molto pesante: passai da essere discretamente benestante a non esserlo per nulla. La crisi precedente, nel 2000, dal punto di vista economico aveva avuto le stesse conseguenze ma, per quanto mi riguarda, non mi aveva praticamente toccato: avevo poco più di trent’anni e sapevo che me la sarei cavata bene comunque. Questa volta era tutto diverso: non sentirmi in grado di provvedere1 alle esigenze di mio figlio al livello che avevo immaginato per lui – anche considerando il fatto che lo stavo facendo crescere a Manhattan2 – mi ha spinto a riconsiderare seriamente il senso stesso della mia esistenza sulla terra e il mio valore come uomo. Ero sull’orlo di un baratro assoluto, e le fiamme della fame ardevano con intensità crescente.
La pressione che esercitiamo su noi stessi al solo scopo di dare ai nostri figli più di quanto sia effettivamente necessario è del tutto irrazionale. L’istinto di crescere e proteggere la prole è alla base del perpetrarsi della specie umana, ma la convinzione che tuo figlio debba a tutti i costi frequentare le scuole private di Manhattan3 e vivere in un loft a Tribeca è dettata dal tuo ego, non dall’istinto genitoriale di per sé. È possibile essere un genitore eccellente pur guadagnando molto meno di quanto io stesso ritenevo necessario. Ciononostante, mi sentivo inadeguato.
Ultimamente vedo che la mia brama di risultati ha però cambiato aspetto, e bada più ai riconoscimenti che al denaro. A discapito del ritorno economico, tendo a dedicare molto più tempo di prima alle persone e ai progetti a cui tengo. Provo a essere più presente nel momento che vivo e a tralasciare alcune opportunità economiche per potermi concentrare di più sul mio benessere spirituale. Sfruttando le faccende domestiche, sto anche cercando di instillare il senso di fame nei miei ragazzi: ogni settimana do loro una paghetta in cambio del loro aiuto in casa, sperando così che riescano a creare, nella loro testa, un collegamento tra il concetto di lavoro e quello di ricompensa e che, di conseguenza, ne sviluppino l’appetito. Un paio di volte l’anno, inoltre, dopo averli pagati, li derubo mentre tornano nella loro stanza, placcandoli a sorpresa e riprendendomi i soldi: considero anche questa una lezione di vita.
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Accogli l’età adulta

Ogni anno, in primavera, Soho viene invasa da una moltitudine di figure vestite di viola: sono i tanti ventiduenni che indossano l’uniforme di laurea della New York University. Accanto a ciascuno di loro, solitamente, un uomo e una donna con tratti somatici simili – ma più anziani e un po’ appesantiti – li osservano, raggianti e orgogliosi. Quello della laurea è un momento meraviglioso e pieno di speranza, soprattutto per la versione anziana di te stesso (i tuoi genitori): la tua laurea, infatti, è la prova del loro successo educativo e genitoriale. Si tratta di smarcare, finalmente, anche l’ultima casellina del percorso evoluzionistico che li riguarda… morte a parte (sì, lo so, questa è brutta).
Le mie lauree non sono state altrettanto felici. Alla UCLA mi sono laureato fuori corso di alcuni mesi, quando la maggior parte dei miei amici, avendo finito regolarmente entro i quattro anni previsti, era già andata via. Ho passato la maggior parte delle mie ultime due settimane lì dentro a chiedere ai professori di alzarmi i voti: per riuscire a laurearmi in economia, infatti, avevo bisogno di ottenere i crediti sufficienti e in quel momento ero sotto di tre corsi. Le mie argomentazioni erano, tutto sommato, semplici, e suonavano piuttosto credibili:
«vivo con mia madre in un appartamento di classe altabassa-media»;
«ho ricevuto un’ottima offerta di lavoro dalla Morgan Stanley, a New York»;
«prima me ne vado da qui, prima potrete fare spazio a qualcuno che lo merita di più».
Mi rivolsi a quattro docenti (ma avrei potuto chiedere a molti di più); tre di loro ebbero, più o meno, la stessa reazione: mi guardarono dapprima con un certo disgusto, poi con rassegnazione, quindi firmarono il modulo e mi spedirono fuori dall’ufficio. Per me non ci fu nessuna toga, né le formalità di rito.
La mia seconda laurea, a Berkeley, fu più gratificante: avevo messo la testa a posto – più o meno – e concluso un MBA (Master in Business Administration). Ero stato scelto tra tutti gli altri studenti per tenere il discorso di laurea e ricordo, a metà del mio intervento, di aver alzato gli occhi e visto mia madre. Segnata dalla malattia e sotto un sole accecante, in mezzo a tanti altri genitori nell’anfiteatro greco di Berkeley si era alzata in piedi e, in preda a un orgoglio incontenibile, si sbracciava per salutarmi.
Non credo nell’aldilà, ma prima di andarmene ho intenzione di assumere un bel po’ di psilocibina: mi piacerebbe molto poter vedere quella luce intensa di cui parlano le persone che hanno vissuto esperienze di pre-morte.4 Mi aspetto (e spero) di vedere due cose: i miei bambini che giocano, ridono e si rotolano sul letto con me, e mia madre che mi saluta con la mano come quel giorno, come a volermi ricordare che lei per me c’è ancora, che è ancora mia madre.
Nonostante tutto, comunque, fu un momento di grande insicurezza… esattamente come per molti altri ragazzi. Un maschio di ventisei anni sotto molti punti di vista è ancora piuttosto infantile. Mia madre era malata e io avevo rifiutato un’offerta di lavoro da parte di una società di consulenza per fondarne una mia. Il vero punto fermo della mia vita era la mia fidanzata, che aveva un lavoro serio e mi offriva una stabilità emotiva ed economica.
Al giorno d’oggi, per gli scrittori, quello di raccontare il giorno della laurea come espediente per parlare di sé in terza persona è ormai un cliché – che permette di utilizzare i giusti filtri attraverso i quali presentare il proprio passato ai lettori. Se però dovessi dare qualche consiglio a dei neo laureati, direi loro qualcosa del genere…

Non seguite le vostre passioni

Le persone che, nei loro discorsi agli studenti universitari – specialmente in occasione della laurea – consigliano di seguire le proprie passioni (o di «non mollare mai», la mia preferita), sono già ricche. La maggior parte di loro è arrivata dove è arrivata investendo in un impianto di trattamento dei rifiuti, dopo aver mandato all’aria altri cinque tentativi imprenditoriali. Ciò significa che, come uomini d’affari, sapevano bene quando era arrivato il momento di passare ad altro.
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Dovresti impegnarti a trovare qualcosa in cui sei già abbastanza bravo e, dopo diecimila ore di pratica, poter diventare bravissimo. Sapere di essere bravo a fare qualcosa ti darà una ricompensa emotiva ed economica tale da fartene appassionare sinceramente. Di qualsiasi cosa si tratti. Nessuno inizia la propria carriera perché è appassionato di diritto tributario. I grandi fiscalisti, però, adorano avere dei colleghi che li stimano, poter offrire alla propria famiglia una certa sicurezza economica e sposare una persona ancora più influente di loro.

La noia è stimolante

Le carriere sono legate alle categorie di attività; se un settore è saturo di capitale umano, il ritorno sugli sforzi investiti tende ad azzerarsi. Se la tua ambizione è quella di lavorare per Vogue, diventare un produttore cinematografico o aprire un ristorante, devi essere sicuro di ottenere una certa gratificazione dal punto di vista psicologico: dal punto di vista economico, infatti, il rapporto rischi/benefici sarà – a parte alcune rare eccezioni – spietato. Cerco sempre di tenermi alla larga dall’investire in attività che, anche solo apparentemente, godano di un certo fascino: non ho mai acquisito riviste di tendenza, né investito in popolari agenzie di moda o in locali di musica dal vivo in centro, specialmente se aperti soltanto ai soci. Se, di contro, mi si presenta la possibilità di investire in un’attività o in un settore così noiosi da farmi venire voglia di spararmi in bocca… allora sì, ci investo. Di recente ho tenuto un discorso al Summit sugli investimenti alternativi della J.P. Morgan, in cui la banca ospita trecento tra le famiglie...

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