prologo
Mia madre voleva chiamarmi Maria Elena, come la regina d’Austria.
Quando mio padre andò a registrarmi al comune, non riuscì a ricordare con esattezza il nome tanto desiderato dalla moglie. Lui e gli impiegati optarono quindi per Marilena, riducendo i due nomi a uno solo.
Come se non bastasse, lo staff del comune non accettò di registrare anche il nome rwandese scelto per me da mia madre: Umuhoza, “consolatrice”. Si rifiutarono, sostenendo che quel nome non avrebbe fatto altro che rivestire il bambino di ridicolo, un po’ come se avessero voluto chiamarmi Hitler o Rompiballe.
Più di trent’anni dopo fui io ad andare in città per documentare la nascita di mia figlia. Era passato tanto tempo, eppure il nome rwandese scelto per lei fu rifiutato di nuovo.
non una singola grinza
Rwanda, 1978.
Ogni centimetro della sua pelle era coperto di polvere rossa quando l’incontrò per la prima volta. Si era avventurato in una corsa di sei ore in moto, senza casco, su per le vie sterrate verso l’estremità nord-est del Rwanda, dove le strade muoiono all’altezza del lago Kivu.
La sua futura sposa lo aspettava davanti alla capanna. Una tunica psichedelica perfettamente stirata, nonostante la famiglia vivesse senza elettricità e acqua corrente.
Col dorso delle mani, Giuseppe strofinò via la terra dagli occhi, per ritrovarsi di fronte una donna mingherlina. Era la madre di lei. Gli ricordò le tante donne bergamasche con cui era cresciuto a Verdello. Come la sua, di madre, era una donna stoica, una contadina.
« Maman, amakuru?».
saliva rwandese
Quando i miei non si trovavano d’accordo su qualcosa, io davo sempre ragione a papà. Lui era quello bianco, l’italiano. E perciò, l’intelligente. La voce dell’autorità. Un ex prete da cui la gente pendeva dalle labbra, immeritatamente.
Fu allora che mia madre cominciò a sputare: addosso a me, a papà, alle finestre e alla tv. Addosso a qualsiasi cosa. La sua saliva percorre tutte le mie memorie, come un ritornello musicale.
Fui battezzata dalla sua rabbia.
la casta dei biscotti
La odiavo.
Lei, che mi aveva passato quel colore. Avevo imparato a conviverci, ma ogni volta che me ne dimenticavo c’erano i poster della Lega a ricordarmelo. Quei poster di merda più i miei ventisette compagni di prima elementare.
Strizzata nel cucinotto 2x2, mamma dava amorevolmente forma a ogni biscotto con la stessa dedizione di uno scultore dell’Accademia Carrara.
Chili di noccioline sbucciate, due cucchiai di miele e una teglia ben oliata erano tutto l’occorrente. Dal settimo piano di Athena 3, venti metri sopra la porta d’ingresso con la scritta « immigrati merda» e i graffiti « vendo droga» , il profumo di dolci si spanse per l’intero vicinato.
Più tardi, alla festa della scuola, la tavola del rinfresco fu imbandita con delizie bergamasche di ogni sorta: spongada dè Solt , sfogliatine di lago, polentine, tegoline. L’unico vassoio straniero era il mio: un monte Karisimbi di biscotti, cinque volte più grande degli altri piatti. E ancora fumante, come il vulcano rw...