II
Il ruolo pubblico
Adriana Chemello
«Il più bel lume di questo mondo»: Vittoria Colonna e il suo tempo*
La storiografia sette-ottocentesca ha recuperato in diverse occorrenze l’elogio ariostesco di Vittoria Colonna a testimonianza della centralità della poetessa di Marino nel panorama letterario cinquecentesco, elevandolo a leitmotiv per elogiare la singolare sublimità dei versi e la loro efficacia pragmatica nell’innalzare un imperituro mausoleo alla memoria del marito:
Quest’una ha non pur sé fatta immortale
col dolce stil di che il meglior non odo;
ma può qualunque di cui parli o scriva,
trar del sepolcro, e far ch’eterno viva (Ariosto, Furioso, xxxvii, 16).
Pietro Ercole Visconti, nel Discorso preliminare alla sua edizione delle Rime di Vittoria Colonna (1840), ribadisce che tale «illustre donna» era stata «levata a cielo dai più alti ingegni della dottissima età sua, [ed] ebbe vanto di una somma eccellenza».
La fama e l’eccellenza letteraria che circondavano il nome di Vittoria Colonna presso i contemporanei sono già state ampiamente documentate soprattutto grazie alle ricerche di Concetta Ranieri e Tobia Toscano. Astro di prima grandezza nell’orizzonte letterario di primo Cinquecento, donna illustre per il blasone nobiliare che le ha dato i natali, è celebrata da poeti e letterati come «specchio, e lume di virtù», in lei la claritas è illustrata dal «generoso e nobilissimo sangue» e rischiarata da «virtù e valor suo».
Una fama letteraria non circoscritta alla penisola italiana e alle sue corti bensì espansa oltre i confini delle Alpi grazie a quel libro a circolazione europea, Il libro del Cortegiano, scritto da «uno de los mejores Caballeros del mundo», Baldassar Castiglione, dove il nome di Vittoria compare nella dedicatoria con l’elogio de «l’ingegno e prudentia di quella Signora, la virtù della quale io sempre ho tenuto in venerazione come cosa divina».
Non intendo riprendere il ricco “catalogo” degli elogia a lei indirizzati. Vorrei invece farne una lettura longitudinale, andando a evidenziare le differenze (e le distanze) che separano la figura pubblica della marchesa di Pescara negli anni napoletani e ischiani da quella della maturità romana e viterbese.
Gli anni dal 1512 al 1525 rappresentano la fase aurorale del mettersi al mondo della giovane marchesa, una fase che costituisce un tassello importante per la costruzione della sua fortuna letteraria, in cui viene prendendo forma un “personaggio” che risulterà via via ibernato in un’atmosfera rarefatta, lontano dalla realtà storica della donna e delle sue vere relazioni intellettuali.
Dell’interesse di Vittoria Colonna per la poesia e della pratica poetica a cui si dedica, soprattutto durante le prolungate assenze del marito impegnato in imprese militari, abbiamo scarse testimonianze dirette; ne alludono tuttavia le dediche e gli encomi che lumeggiano la rete di relazioni con letterati e poeti, prevalentemente di area napoletana, le cui opere sia manoscritte che a stampa si fregiano del suo nome, tramandandoci l’immagine di una donna colta e raffinata, dalle aggraziate movenze che partecipa con nobile «sprezzatura» alla vita della corte napoletana, di cui si farà cronista più tardi Paolo Giovio nel suo Dialogus.
Sul piano cronologico, una delle prime attestazioni di questa presenza in corte è la dedica che nel 1517 Bartolomé de Torres Naharro, autore di una raccolta di versi e di pièces teatrali, la Propalladia, indirizza a Francesco Ferrante d’Avalos, il cui nome compare nel frontespizio accostato a una silografia che ricorda le imprese di casa D’Avalos.
Di qualche anno posteriore è una testimonianza che chiama in causa direttamente Vittoria, e ci informa sull’alta considerazione in cui era tenuta nell’ambiente napoletano. Nel 1519, Girolamo Britonio si fa cronista-reporter di un evento eccezionale per la corte napoletana, pubblicando un opuscolo in cui descrive l’Ordene et recolletione de la festa fatta in Napoli per la nova havuta de lo imperatore Carlo de Austria e, mutuando il topos letterario di tradizione cortese dell’«innamoramento per fama», si rammarica per l’assenza della marchesa di Pescara che, assente il marito da Napoli, non aveva partecipato alla festa in omaggio all’imperatore:
Non lassarò pur dirvi che disdicevole cosa stata non fusse il non essere tra l’altre degnissime Danzanti questa Gloriosa & singular Donna: percioché in Ischia da non colpabile, ma giusta occasione fu contra sua voluntà detenuta. Costei verissimamente non picciola adornezza stata sarebbe degli alternanti balli, però che di tanta non più veduta maniera aballar suole, che meglio è molto tacerlo che ragionando dirne poco. Perché né con antiche, né con moderne comparationi il suo merito si potrebbe agguagliare: percioché dalle Sacratissime Camene accompagnata, ballando quasi non donna, ma veramente una immortale Idea a gli circostanti rassembrar suole.
Un’assenza che si fa predicato e da una sottrazione «non colpabile» si espande nell’elogio della «gloriosa & singular donna», celebrandone un «merito» privo di termini di confronto, tale che la sola presenza di Vittoria avrebbe recata «adornezza» all’ambiente circostante, mentre la magistrale leggerezza della danzatrice assimilata a una «immortale Idea» la eleva a una dimensione divina. Il Britonio, autore di questo insolito reportage, in un suo libro di rime intitolato La Gelosia del sole, edito per la prima volta a Napoli nello stesso anno (1519), dedica inoltre alla Colonna la sua «giovenil fatica»:
Priegovi dunque accettarla vi degnate: per ciò che il perpetuo pegno del mio a voi divoto animo con lei vi mando […]
Aggiungendo, in un sonetto encomiastico, l’elogio della «dolce rima» e dello «stil di tanta istima» di Vittoria Colonna.
Altra testimonianza che ci restituisce con profondità chiaroscurale lo spessore della presenza a Napoli di Vittoria Colonna è il Trattato di Amore di Benedetto Di Falco, stampato a Napoli da Sultzbach nel 1538, dove si conserva traccia di due quartine di un sonetto di Vittoria (A1, 6 ed. Bullock) con minime varianti stampato nello stesso anno nell’edizione parmense delle Rime. Nel Trattato del Di Falco si legge:
Avenne un dì agli anni a dietro, nelle nozze del eccellente Conte d’Altavilla, fratel del presente, però d’altra madre, che ragunati, secondo si costuma, tutti Baroni del regno nel palazzo dell’illustre segnor Duca di Termine, ove si muovevano i cavalieri et donne a gli amorosi balli nottiali, vennevi, per illustrar tutto ’l palazzo, l’illustrissimo segnor Marchese di Pescara, segnor di giusta persona et d’una segnoril bellezza, con un martial viso degno d’imperio, con un portamento honestissimo, vestito di nero, come usano vestire gran Ri et imperatori, con sua virtuosa spada; vedesti in un momento, all’apparir de sì gran Marchese, tuti que’ prencepi e duci, ch’erano coperti in oro, con una debita accoglienza riverentemente il recevettero, collocandolo a que’ sedili regali, ove si riposano con honore que’ Cesari et Agosti, che non con panni o con otiose gemme acquistano gloria et regni, ma con una sola spada e vertù; dil che, io, ch’era presente, ringratiava Dio che le pompe et le vane ricchezze alla fine davano luoco alla virtù, sì come divinamente la sua castissima illustrissima segnora Vittoria Colonna, ch’a tutte sue giuste imprese fu auguriosa vittoria, con tai aurei versi cantò:
Alle vittorie tue mio lume eterno
Non dié il tempo e la stagion favore;
La spada, la vertù, l’invitto cuore
Fur li ministri tuoi, l’estate e ’l verno.
Prudente antiveder, divin governo
Vinser le forze adverse in sì brievi ore
C...