Giovanni Scirocco
Sette giorni a Milano: da Wilson a Bissolati (e Mussolini)
Questo saggio intende trattare, nei limiti di spazio che consentiranno limitati riferimenti all’ampia storiografia sul periodo, un argomento (noto, ma forse ancora non del tutto esaminato nei suoi vari aspetti, soprattutto a livello di utilizzo della propaganda e di mobilitazione dell’opinione pubblica) che credo possa inserirsi a pieno titolo nel tema generale del nostro progetto di ricerca su legittimazione e delegittimazione nella storia contemporanea.
Gli eventi centrali di questa vicenda si svolsero tutti, nell’arco di poche settimane, a Milano: il 5 gennaio 1919 il presidente americano Wilson riceveva nel capoluogo lombardo un’accoglienza trionfale; l’11 gennaio a colui che era ritenuto il principale portavoce italiano delle sue idee, Leonida Bissolati, veniva fisicamente impedito di esporle in un discorso programmato alla Scala; il 23 marzo Benito Mussolini fondava il movimento fascista in piazza San Sepolcro; il 15 aprile veniva dato l’assalto alla sede del quotidiano socialista, l’«Avanti!», in via San Damiano.
In sede storiografica i due principali studiosi delle origini del fascismo, Renzo De Felice e Roberto Vivarelli, concordarono, sia pur con differenza di toni, sul fatto che gli eventi elencati (e in particolare la contestazione a Bissolati) abbiano costituito il primo episodio di quella saldatura tra fascisti, nazionalisti, arditi, futuristi che troverà nella questione di Fiume un simbolo e sarà destinata successivamente a concretizzarsi, con alterne vicende, nella creazione del PNF.
1. Gli antefatti
Secondo Leo Valiani «Bissolati fu il primo politico italiano che Salvemini persuase, o che si persuase contemporaneamente a Salvemini, sin dal novembre 1914, della necessità di rinunciare alla Dalmazia in omaggio al principio di nazionalità». Una persuasione rafforzata dai colloqui avuti nel 1916 coll’esule croato Supilo e di cui si trova una prima traccia pubblica nella commemorazione di Cesare Battisti tenuta a Cremona il 29 ottobre 1916.
Lo scoppio della rivoluzione in Russia e il conseguente venir meno del rischio della formazione di un impero panslavo, l’intervento in guerra degli Usa e, soprattutto, il patto di Corfù del luglio 1917 tra serbi, croati e sloveni per la costituzione di uno stato jugoslavo, convinsero anche il direttore del «Corriere della Sera», Luigi Albertini, della inevitabilità della dissoluzione dell’Austria-Ungheria e della necessità di un accordo diretto tra italiani e slavi. Con la discesa in campo del principale quotidiano italiano, nei mesi durissimi della disfatta di Caporetto e del trionfo della rivoluzione bolscevica, temi come l’autodeterminazione dei popoli o il principio di nazionalità divennero argomento di discussione e di scontro in larghi settori dell’opinione pubblica. Si verificò, tra l’altro, proprio in questa fase, una certa sovrapposizione e, in taluni casi, ambiguità, tra la visione nazionalista e quella democratica della guerra.
L’8 gennaio 1918 Wilson espose poi davanti al Congresso i suoi 14 punti, con cui, di fatto, si accingeva a contrapporre il suo internazionalismo democratico a quello leninista. Più in particolare, il punto nove riguardava il futuro assetto dei confini italiani («Readjustments of the frontier of Italy along clearly recognizable lines of nationality») e, nell’ottica wilsoniana, era inteso a respingere quanto del Patto di Londra fosse in contrasto coi suoi intendimenti.
2. Il contrasto Bissolati-Sonnino
Il contrasto tra Bissolati e Sonnino fu, prima di tutto, caratteriale. A ciò si aggiunsero, fin dalla primavera-autunno del 1916, divergenze sull’assetto futuro dei Balcani, sul protettorato dell’Albania (che, nel giugno 1917, indussero Bissolati alle dimissioni, successivamente ritirate), sulla condotta della guerra e, più in generale, sul modo di concepire la diplomazia e la politica estera. Il 27 gennaio 1918, in una lunga lettera ad Albertini in cui gli riferiva di un colloquio avuto con il Presidente del Consiglio, Orlando, il corrispondente da Londra del «Corriere», Guglielmo Emanuel, poneva esplicitamente, di fronte alla mossa di Wilson, la questione della sostituzione di Sonnino, rappresentante di una politica estera conservatrice, troppo ancorata al patto di Londra e non al passo coi tempi, suggerendo al suo posto la candidatura di Bissolati e manifestando la necessità di una campagna del quotidiano milanese su questi temi. In realtà Orlando manterrà sempre, sulla questione, un atteggiamento contraddittorio, come mostrò a proposito del congresso delle nazionalità soggette all’Impero asburgico che si svolse a Roma dall’8 al 10 aprile 1918 e nella cui organizzazione avevano svolto un ruolo decisivo collaboratori del «Corriere» come Amendola, Borgese e Torre e le relazioni personali di Albertini (che per primo aveva lanciato l’idea, in una riunione del Fascio parlamentare di difesa nazionale tenutosi a Milano il 2 febbraio 1918) con personaggi del calibro del redattore di politica estera del «Times», Henry Wickham Steed. Il congresso fu indubbiamente un successo, ma ancora una volta su un piano di notevole ambiguità: alla parola d’ordine della Delenda Austria aderirono infatti sia i nazionalisti, sulla base del rispetto del patto di Londra e della salvaguardia dell’italianità dell’Adriatico, che Salvemini, che poche settimane prima aveva pubblicato, con il geografo Carlo Maranelli, un volume sulla questione adriatica nel quale, attaccando duramente le posizioni “dalmatomani”, chiedeva per l’Italia il possesso dell’Istria, di Pola e di alcune isole dell’arcipelago dalmata, proponendo un’autonomia garantita internazionalmente per Zara e Fiume, con il rispetto reciproco delle minoranze italiane e slave. Il congresso si concluse con l’approvazione di una serie di risoluzioni che prevedevano l’autodeterminazione delle varie nazionalità facenti parte dell’Impero austro-ungarico e, riconoscendo la futura entità jugoslava, auspicavano un’intesa tra italiani e slavi per risolvere pacificamente le controversie territoriali sulla base del principio di nazionalità e della garanzia dei diritti delle rispettive minoranze. Nonostante gli sforzi di Albertini, Bissolati e Salvemini, non si riuscì però a convincere il leader croato Trumbic a formalizzare un accordo che sancisse la rinuncia jugoslava all’Istria e a Trieste e da parte italiana alla Dalmazia.
Nondimeno, Bissolati cominciò a premere sul Presidente del Consiglio (che, a differenza di Sonnino, l’11 aprile aveva ricevuto le delegazioni presenti a Roma, pur citando brani dei suoi discorsi in Parlamento del 12 febbraio e del 7 marzo nei quali aveva dichiarato che l’Italia perseguiva come suoi scopi la protezione di tutte le «genti italiche» e il raggiungimento di «frontiere difendibili») perché si uscisse dalla «tentennante ed equivoca politica riguardante la Jugoslavia», manifestando altresì il suo «disgusto per gli aiuti che la Consulta – direttamente o per mezzo della Dante Alighieri – dà alla propaganda ultranazionalista».
Il 30 giugno, scrivendo al cognato e allora corrispondente da Parigi del «Messaggero», Luigi Campolonghi, Bissolati poteva quindi annunciare, con un eccesso di ottimismo che lo caratterizzerà in quasi tutto lo svolgimento di questa vicenda, che «finalmente la crisi è matura […]. La politica di accordo italo-slavo si è imposta».
Il 5 luglio, commemorando all’Altare della Patria la festa dell’indipendenza americana, il deputato cremonese illustrava poi la sua concezione degli scopi della guerra, proponendosi implicitamente come portavoce degli ideali wilsoniani:
Sì, perché anche noi, anche noi Italiani avevamo bene inteso, allorché impugnammo le armi, che questa guerra non era, non poteva essere per nessuna delle nazioni dell’Intesa, una guerra mirante a ristretti fini nazionali o involgenti disegni di particolari conquiste. I fini nazionali vi entravano sì, ma in quanto sono rivendicazioni di diritto; e la conquista che disegnamo di compiere, che vogliamo compiere a tutti i costi, è la conqu...