Il controllo dello straniero
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Il controllo dello straniero

I "campi" dall'Ottocento a oggi

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Il controllo dello straniero

I "campi" dall'Ottocento a oggi

About this book

I fatti del nostro tempo ci hanno assuefatto all'emergenza e i campi di detenzione ne sono la prova. Predisposti in un contesto di necessitĂ  e di urgenza, presentati come dispositivi temporanei, nell'assenza di politiche virtuose di controllo degli stranieri, hanno finito col trasformarsi in luoghi/non-luoghi di margine e dis-integrazione morale, deformazioni permanenti dell'equilibrio politico, giuridico e sociale di un ordinamento.Il volume raccoglie contributi di diversi profili disciplinari, dalla storia del diritto e dell'Africa alla filosofia, all'antropologia, nello scopo condiviso di tracciare una storia del campo, individuarne peculiaritĂ  e limiti, e immaginarne un futuro, mantenendo il focus sull'Europa, sull'Italia, sul Mediterraneo e l'area maghrebina, e sulla Libia, in particolare.

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Information

Per una storia del “campo”
Luciano Nuzzo

La politica dei campi e i campi del diritto

1. Campo
La letteratura contemporanea ha spesso utilizzato il termine “campo” per indicare una struttura mobile del controllo attraverso cui è possibile e-liminare, nel senso letterale del termine, spingere fuori dai confini, non solo quelli territoriali ma più radicalmente quelli della legge, dell’ethos, della Sittlichkeit, della moralità oggettiva, coloro che per ragioni diverse sono costruiti come una categoria sociale pericolosa.38
Nonostante, quindi, l’ambiguità del termine, che rinvia inevitabilmente alla memoria i campi di concentramento e sterminio, il riferimento al “campo” indicherebbe una forma di controllo e reclusione atipica che si affianca alle strutture ordinarie di reclusione previste dal diritto penale. I provvedimenti che istituiscono i campi, molto spesso, infatti, hanno natura amministrativa, sono emessi dal potere esecutivo e trovano la loro legittimazione in una situazione di emergenza. Per tale ragione molti autori hanno sottolineato come i campi rappresentino spesso delle zone di extraterritorialità giuridica in cui più facilmente è possibile aggirare i limiti posti dal diritto interno e dal diritto internazionale.39 In questi spazi ai confini del diritto, alla sovranità della legge, fondata sull’azione e sulla responsabilità soggettiva, si affianca e si sovrappone una pratica di controllo che reprime e criminalizza non azioni e individui, ma status e gruppi sociali. In questo senso la funzione del campo non sarebbe quella di punire chi ha commesso un reato, ma quella di isolare a titolo preventivo una parte del corpo sociale sulla base di una presunzione di pericolosità. Se la prigione con la sua architettura panoptica rappresenta il dispositivo per eccellenza di un potere disciplinare che non si limita a esercitare il controllo ma che attraverso pratiche e saperi specifici produce un soggetto docile,40 il campo con la sua architettura rudimentale, «un terreno attrezzato in fretta ed in modo sommario», si pone fuori del sistema carcerario.41 È una struttura mobile, più difficilmente identificabile, che sostituisce alle grosse mura delle carceri il profilo fluttuante del filo spinato o dei moderni reticolati metallici. Una struttura non finalizzata ad assolvere una funzione di punizione e rieducazione di un soggetto colpevole, ma finalizzata a controllare una popolazione che per dati caratteri e condizioni viene ritenuta pericolosa e per questa ragione presa, eccepita all’interno di una relazione di bando; privata della libertà personale e sottoposta a un regime detentivo che limita diritti civili e diritti politici.
Le politiche in materia di terrorismo e soprattutto le politiche in materia di immigrazione che molti paesi hanno adottato nell’ultimo ventennio possono essere descritte attraverso la formula della «detenzione e deportazione».42 Nel nuovo contesto storico-politico post-coloniale, quello della globalizzazione, delle nuove guerre al terrorismo e dei forti flussi migratori che attraversano vecchi e nuovi confini, i campi di internamento ridisegnano la geografia politica e giuridica di un Occidente nutrito di principi universalistici e diritti civili.43 Il campo sembra essere diventato «l’istituzione chiave di questa strategia, un modello di organizzazione del controllo equivalente al panopticon, la prigione ideale di Jeramy Bentham».44
Questa nuova centralità del campo nella geografia del controllo costringe a riflettere sulla relazione che esso intrattiene con il diritto e con quella forma di organizzazione della politica e del diritto che si è soliti descrivere con il sintagma Stato costituzionale di diritto. Una forma che segna una discontinuità con il passato e che presuppone un sistema istituzionale incentrato sulla legittimazione del potere attraverso il riferimento alla legge, ordinaria e costituzionale.45
La questione che mi pare sia importante affrontare è da quale prospettiva e in che senso il campo abbia un carattere extragiuridico. Chi è l’osservatore, che osserva attraverso la distinzione tra regola/eccezione e quale tipo di latenza un tale osservatore presuppone per poter osservare quello che osserva? In altre parole cosa vede e cosa non può vedere, osservando attraverso una tale distinzione? Ancora e forse in modo più radicale è possibile domandare se il funzionamento di un sistema complesso come il diritto può essere descritto attraverso il riferimento a un tale codice.
Le riflessioni di Hannah Arendt sul campo e quelle piĂš recenti di Giorgio Agamben mi sembrano vadano in questa direzione. Le loro analisi appaiono indispensabili perchĂŠ non si limitano a osservare il campo come eccezione alle regole dello Stato di diritto, ma si propongono di tematizzare una questione radicale, quella del rapporto del campo con le strutture giuridiche e politiche che lo rendono possibile.
Seguendo le indicazioni di questi autori, come punto di partenza della nostra riflessione è possibile parlare di una forma campo. Attraverso il campo è possibile dislocare l’osservazione del diritto. È possibile problematizzarne le categorie, decostruirne le rassicuranti autodescrizioni. In tal modo risulta visibile, utilizzando un linguaggio differente da quello della Arendt e di Agamben, che il non diritto è solo l’altro lato della distinzione che il diritto continuamente produce nelle sue operazioni. È possibile vedere che il diritto determina differenza ed esclusione.
Il campo non è semplicemente la negazione del discorso moderno del diritto e delle promesse cui esso rinvia, ma il risultato, sebbene deformato, di quell’ordine del discorso. È nelle pieghe di quel discorso e della ragione su cui esso si fonda che va rintracciata la genealogia del campo. Non si tratta di un’esteriorità selvaggia, di uno spazio anomico. Il campo è una costruzione giuridica, nel senso che è oggetto di comunicazione giuridica. Quando si parla del campo come di uno spazio senza diritto si usa un criterio valoriale di diritto, per cui il campo e le pratiche che in esso avvengono possono essere descritte come negazione del diritto. Ma un’argomentazione del genere si trova costantemente minacciata da argomentazioni ugualmente giuridiche e ugualmente motivate di altri osservatori che possono orientarsi verso una “normalizzazione” del campo. Il rischio, dunque, è quello di rimanere impigliati in una disputa valoriale su cosa sia “vero” diritto e su cosa non sia “vero” diritto. Certo si può sempre argomentare richiamandosi a referenze esterne, a principi e valori, ma con il rischio che altre argomentazioni, ugualmente giuridiche, ugualmente motivate e ugualmente vincolanti utilizzano altre referenze, altri principi e altri valori.
Se si abbandona questo atteggiamento, è possibile vedere altro. Come in un gioco di specchi, infatti, il campo agisce sull’immagine rassicurante di un’età dei diritti, deformandone i contorni, complicandone il senso, aggrovigliandone la linearità. Esso instaura con il diritto un rapporto liminale. Da un lato esso può essere costruito come la negazione di un ordine del discorso che si autodescrive come realizzazione progressiva di ragione, diritto ed eguaglianza. Dall’altro lato però, il campo è lo spazio in cui appaiono con maggiore chiarezza le differenze e le eccedenze che quell’ordine del discorso continuamente produce e determina, e che non trovano altro spazio se non quello segnato dai confini del campo. Una modalità di produzione ricorsiva della differenza, con cui si ridefiniscono le condizioni dell’appartenenza e dell’attribuzione dei diritti. In tal modo può contenere e selezionare corpi, può qualificarli e identificarli, e può ridefinire continuamente le condizioni alle quali il diritto può includere ed escludere.
La sua funzione euristica consiste dunque nell’essere un Grenzbegriff, ossia la soglia, il luogo in cui qualcosa allo stesso tempo è e non è. Il confine di una cosa è e non è parte di esso. Il limite è l’al...

Table of contents

  1. Copertina
  2. Occhiello
  3. Frontespizio
  4. Colophon
  5. Indice
  6. Premessa
  7. Il “campo”: un paradigma? Introduzione
  8. Per una storia del “campo”
  9. Dall’Africa al Mediterraneo
  10. I campi italiani
  11. Gli autori