Tarda Antichità e Alto Medioevo in Italia
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Tarda Antichità e Alto Medioevo in Italia

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Tarda Antichità e Alto Medioevo in Italia

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Le tradizionali suddivisioni della storia in "periodi" impediscono spesso di leggere nella loro interezza alcuni cruciali momenti di trasformazione della vicenda umana. È questo senz'altro il caso della lunga transizione attraverso cui il mondo "antico" si trasformò in quello "medievale", che affonda le proprie radici nella piena età imperiale e che si riverbera a lungo nei secoli a venire. Un percorso complesso, caratterizzato in alcuni momenti da mutamenti assai radicali e repentini e in altri da trasformazioni meno ruvide ma non per questo meno profonde. Sulle principali caratteristiche e articolazioni di questo tornante della storia, visto soprattutto dalla prospettiva italiana, si sofferma il volume di Arnaldi e Marazzi, offrendo uno strumento di agevole consultazione, ma anche di adeguato spessore analitico. Una sintesi che si muove a cavallo fra storia istituzionale, politica ed economica, e che propone un quadro arricchito anche da riflessioni e dati tratti dall'enorme archivio rappresentato dalle scoperte archeologiche avvenute negli ultimi decenni.

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Federico Marazzi

Alto Medioevo

1. Le dominazioni di Odoacre e degli Ostrogoti
All’inizio di settembre dell’anno 476, in Ravenna, si concludeva una parabola durata cinquecento anni: il generale Odoacre, capo di una parte di quanto rimaneva dell’esercito romano d’Occidente, formato ormai in massima parte da elementi appartenenti a gentes di origine esterna ai territori dell’Impero, deponeva dal trono l’imperatore Romolo Augustolo. Questi, a sua volta, era figlio di Oreste, che aveva detenuto il comando delle truppe in Italia e che, un anno prima, aveva spodestato e costretto all’esilio in Dalmazia Giulio Nepote, considerato da molti storici l’ultimo legittimo imperatore romano, poiché salito al trono per designazione dei colleghi d’Oriente, Leone I e Zenone.
Oreste era stato ucciso qualche giorno prima presso Piacenza e Odoacre decise di non infierire sul figlio, concedendogli salva la vita ed esiliandolo a Napoli. Del giovanissimo sovrano d’allora in poi si perdono le tracce. Dopo di lui, nessuno sarebbe stato più chiamato in Occidente a vestire la porpora imperiale sino all’anno 800 quando, in un contesto storico che il tempo aveva profondamente trasformato, quest’onore sarebbe toccato al re dei Franchi, Carlo Magno.
Odoacre, invece, avrebbe dominato l’Italia sino a quando, nel 489, il re dei Goti, Teoderico, non entrò in Italia a capo di un esercito – sovvenzionato ed armato dall’imperatore di Costantinopoli, timoroso del consolidarsi del suo potere nei Balcani – e, dopo avergli inflitto una serie di sconfitte sul campo e averlo catturato Ravenna nel 493, lo fece uccidere a tradimento.
Vista in una prospettiva storica, la deposizione di Romolo appare come l’evento che mise fine alla lunga serie degli imperatori romani iniziata nel 27 a.C. con la presa del potere da parte di Augusto. Per questo motivo, la data del 476 è stata assunta anche come simbolico spartiacque che segna la fine di un’epoca – l’Evo Antico – e l’inizio di un’altra – il Medioevo.
In realtà, pur senza nulla togliere al rilievo in sé rivestito dal fatto che, dopo Romolo Augustolo, non sarebbe più stato nominato in Occidente nessun nuovo imperatore, l’atto compiuto da Odoacre agli occhi dei contemporanei non dovette apparire particolarmente rivoluzionario. E certamente, il capo barbaro non poteva avere alcuna idea della valenza epocale che esso avrebbe acquisito quando, molti secoli dopo, gli intellettuali europei del XV e del XVI secolo avrebbero iniziato a considerare i dieci secoli che li avevano preceduti come un’era storica a sé, i cui esordi sarebbero coincisi proprio con il tramonto dell’istituzione imperiale romana.
Odoacre, infatti, pur compiendo indubbiamente una forzatura politico-istituzionale, non era certo stato il primo capo militare di origine barbarica ad aver influito nella nomina o nella deposizione di un imperatore d’Occidente. Anzi, si può dire che gli ultimi due decenni di vita di questa parte dell’Impero, a partire dal momento della morte di Valentiniano III e del suo generalissimo Ezio in poi (455), fu caratterizzata dalla sempre più evidente debolezza dei sovrani e dell’apparato amministrativo imperiale in genere. Specularmente, cresceva la forza dei comandanti in capo dell’esercito – ormai tutti di origine “barbarica” – i quali, di fatto, poterono disporre quasi a loro piacimento degli imperatori avvicendatisi sul trono.
Per assurdo, il gesto di Odoacre, anche se ovviamente dettato dalla sua personale ambizione di potere, stando alle motivazioni che egli stesso ne avrebbe fornito, era piuttosto da intendersi come un tentativo di porre ordine proprio a questa situazione di caos. Odoacre, infatti, aveva dichiarato che la potestas imperiale era rappresentata in modo più che sufficiente dall’imperatore di Costantinopoli – che, non dimentichiamo, era a tutti gli effetti la Nuova Roma – e che quindi egli avrebbe governato l’Italia in quanto rex dei barbari in armi che la occupavano, ma anche come patricius dell’imperatore e cioè suo delegato al controllo della res publica, cui appartenevano tutti i sudditi che vivevano sul suo territorio e che quindi sarebbero rimasti, suo tramite, soggetti all’Impero. L’atto compiuto da Odoacre, equiparava quindi l’Italia agli altri territori già appartenuti all’Impero d’Occidente, come la Gallia, l’Hispania e l’Africa, che erano scivolate sotto il dominio di reges barbari. Costoro si erano insignoriti del governo militare del territorio su cui si erano insediati i loro popoli ma, in diversa misura, continuavano a riconoscere l’alta sovranità degli imperatori, ad esempio coniando monete che recavano ancora il loro nome.
L’Italia – sia pure sotto un profilo prettamente formale – rimaneva quindi parte dell’Impero e gli imperatori di Costantinopoli avrebbero potuto tranquillamente fidarsi di Odoacre, che avrebbe gestito a loro nome l’ordinaria amministrazione. In tale prospettiva, l’assenza di un imperatore in Occidente poteva essere vista anche come uno status quo momentaneo, determinato da una contingenza passeggera e non era certo da valutarsi come una soppressione del rapporto della Penisola con l’istituzione imperiale.
Le parole di Odoacre trovano riscontro nel fatto che, negli anni del suo regime, la macchina burocratico-amministrativa dello Stato romano continuò a funzionare regolarmente e, anzi, la fine del susseguirsi di colpi di stato e dei frenetici avvicendamenti di sovrani sul trono, che avevano segnato gli ultimi anni prima del fatidico 476, consentirono il raggiungimento di una certa stabilità politica. Un’evidenza in tal senso è costituita ad esempio dal fatto che in Italia si continuò ancora a nominare ogni anno dei consoli, regolarmente riconosciuti in Oriente. Questi erano gli eredi dei magistrati posti al vertice dello Stato romano repubblicano che, in età imperiale, erano sopravvissuti come una sorta di titolatura onorifica, i cui detentori avevano il privilegio di dare il proprio nome all’anno in cui ricoprivano la carica.
La medesima convivenza fra un potere militare posto nelle mani di gentes barbare e un’amministrazione civile gestita da elementi autoctoni caratterizzò anche il lungo periodo di supremazia di Teoderico (489/493-526), che governò l’Italia dopo Odoacre, durante il quale si ebbe l’insediarsi del popolo degli Ostrogoti sul territorio della Penisola. Il re goto rappresenta senz’altro una figura più complessa di quella del suo predecessore e il progetto di una convivenza armonica fra Romani e Germani fu da lui perseguito con lucidità d’intenti, in quanto unico mezzo per preservare l’eredità amministrativa dello Stato romano e, con essa, il mantenimento di un livello di civilitas nella vita delle popolazioni italiane di cui egli condivideva certamente i principi e i vantaggi.
Analizzando quindi il significato e le conseguenze della deposizione di quello che noi, ex post, sappiamo essere stato l’ultimo imperatore dell’Occidente romano, possiamo agevolmente constatare che tale evento, benché carico di una sua indubbia suggestione, non può essere in sé considerato il discrimine fra due epoche storiche.
Oggi, in effetti, si tende a considerare il passaggio fra l’Antichità e il Medioevo piuttosto come un lento processo di trasformazione, che ha conosciuto pause ed accelerazioni, e che, per poter essere compreso pienamente, deve essere analizzato tenendo in conto, oltre che gli aspetti politico-istituzionali, anche componenti economiche, sociali e culturali, la cui incidenza peraltro varia in rapporto agli specifici contesti geografici presi in esame.
Limitandoci in questa sede all’Italia, già nel corso della prima metà del V secolo molte aree – e soprattutto quelle di essa più lontane dalle coste e dalle grandi vie d’acqua – mostravano un profondo ripiegamento delle condizioni materiali di vita delle popolazioni. Tale evoluzione trovava la sua prima ragione nella complessiva riduzione degli investimenti dello Stato sul territorio, determinati dalla crisi finanziaria causata dalla progressiva perdita degli introiti fiscali provenienti dalle province un tempo sottoposte al controllo dell’Impero. Ma è anche vero che i fattori di crisi spesso dipendevano da cause più lontane, inerenti la struttura che l’Impero aveva assunto dopo le travagliate vicende del III secolo e che aveva comportato, fra le altre cose, il declassamento complessivo dell’Italia a terra non più privilegiata dal punto di vista fiscale, rispetto alle province, ma essa stessa chiamata a contribuire, come ogni altra regione, al bilancio dello Stato. A causa di ciò, le comunità locali (e quindi le città) si trovarono in una condizione di sempre più ridotta autonomia finanziaria e spesso costrette a svolgere il ruolo di semplici tramiti, verso l’amministrazione centrale, delle imposte da riscuotere sul territorio. Quelle, fra esse, considerate secondarie all’interno di questo riformato assetto amministrativo, persero ogni sovvenzione da parte dello Stato per il mantenimento delle loro infrastrutture e si avviarono quindi verso una decadenza materiale alla quale le declinanti fortune dell’Impero contribuirono come un fattore peggiorativo, anche se non ne furono la causa primaria. Le città costiere, in virtù della loro maggiore vivacità commerciale, attutirono in parte i contraccolpi di questa situazione, ma hanno rivelato anch’esse, in molti casi, i segni evidenti di un degrado incipiente di edifici e infrastrutture.
A questo processo, come dicevamo, contribuirono anche fattori socio-culturali. Il progressivo svuotamento dei poteri delle amministrazioni locali portò alla formazione di una categoria di potentes, costituita dagli alti funzionari dello Stato e dai grandi proprietari terrieri (non di rado coincidendo gli uni con gli altri): le loro dimore private e le sedi dei loro officia divennero le nuove polarità dominanti all’interno delle città, soppiantando l’antica centralità dei fori e degli altri spazi pubblici che vennero così lentamente marginalizzati, iniziando a perdere, insieme al ruolo di “vetrine” e di cuore dei centri urbani, lo splendore materiale che li aveva caratterizzati per secoli. Al contrario, fra IV e V secolo, vediamo spesso fiorire nelle città grandiose residenze private e, in quelle che ricoprivano funzioni amministrative importanti, anche imponenti praetoria in cui risiedevano i rappresentanti del governo centrale. Questi edifici talora giungono anche ad inglobare spazi pubblici, come piazze ed assi stradali, a dimostrazione del potere esercitato sulla scena urbana da coloro che, per censo o per funzione, ne erano i detentori.
Un altro fattore di trasformazione delle città fu certamente rappresentato, nel corso del V secolo, dall’affermazione definitiva del Cristianesimo, che portò con sé mutamenti di mentalità e stili di vita che si proiettavano anche al di fuori della sfera propriamente religiosa.
Lo sviluppo dell’edilizia cristiana catalizzò risorse che, in precedenza, erano state destinate all’abbellimento delle aree pubbliche delle città e alle strutture destinate all’intrattenimento delle loro popolazioni, come teatri, anfiteatri e terme, determinando quindi fenomeni speculari di potenziamento di alcuni elementi del tessuto urbano e di regresso di altri. A questo sbilanciamento contribuì senza dubbio anche l’ostilità palesata dalla Chiesa – e dalle componenti cristiane più integraliste della società del tempo – verso stili di vita considerati frivoli, quando non decisamente immorali, della cui pratica i luoghi destinati agli spettacoli e alla cura del corpo rappresentavano gli scenari più visibili.
La trasformazione delle città da ciò che esse erano state in età classica verso qualcosa di diverso scaturisce quindi da complessi mutamenti interni alla società tardoantica, ma è indubbio che la crisi politica e finanziaria che si andò aggravando soprattutto durante la seconda metà del V secolo abbia provocato un’accelerazione e un allargamento del disagio materiale in tutte le regioni italiane. Basti ricordare, a questo proposito, che nella stessa Roma, ove pure lo Stato – anche in virtù di normative emanate ad hoc – concentrava le proprie residue risorse destinate al mantenimento del patrimonio monumentale e i cui vescovi disponevano di rendite patrimoniali cospicue, per tutto il periodo compreso fra il 440 e il 490 sono attestati pochissimi interventi di restauro degli edifici profani o riferibili alla costruzione di nuove chiese. In questo cinquantennio solo rari centri urbani, come Milano e Ravenna, che costituivano i veri gangli vitali dell’azione politico-militare dell’Impero, mostrano ancora segni di dinamismo edilizio.
Fu solo al tempo di Teoderico che – non solo a Roma – si registra la ripresa di una politica più sistematica d’investimenti volti al recupero di edifici e infrastrutture di vario tipo, come ad esempio la rete stradale. Alla base di tali iniziative stavano non solo la situazione di pace recuperata dall’Italia, ma anche la precisa volontà del sovrano goto nel proporsi, agli occhi dei suoi sudditi – ed in primis della popolazione nativa dell’Italia – come il vero continuatore della tradizione di pubblico mecenatismo che era stata degli imperatori romani di più ammirata memoria.
Alcuni studi recenti hanno voluto vedere nell’opera “restitutrice” di Teoderico più l’ideologica esibizione di una velleità che la capacità concreta di porre rimedio al diffuso degrado che aveva colpito città, edifici, strade e ponti dell’Italia romana. Tuttavia non mancano prove archeologiche concrete di opere effettivamente eseguite, come iscrizioni commemorative di restauri e i ritrovamenti di bolli laterizi e condotte idriche che recano il nome del sovrano goto.
Quale che sia stata la reale quantità e qualità delle opere realizzate, i numerosi riferimenti agli interventi di reinstauratio del decoro delle città presenti nella corrispondenza intrattenuta dal re con funzionari statali, vescovi e personaggi eminenti della società del tempo, raccolta nei libri delle Variae compilati dal suo ministro Cassiodoro, testimoniano la sua convinta volontà di far apparire il governo goto come l’effettivo continuatore della tradizione amministrativa imperiale.
Il governo di Teoderico incontrò numerosi successi anche sul piano militare, c...

Table of contents

  1. Copertina
  2. Occhiello
  3. Frontespizio
  4. Colophon
  5. Indice
  6. Federico Marrazzi, Prefazione
  7. Girolamo Arnaldi, Tarda Antichità
  8. Federico Marrazzi, Alto Medioevo
  9. Federico Marrazzi, Postfazione. Cercando di annodare un filo fra Storia e vita
  10. Genealogie
  11. Bibliografia essenziale. Per un approfondimento