Sandro Bordone
Il confine poroso fra Cina e Russia
Nell’inverno del 1968 le occasionali schermaglie tra le guardie di confine stanziate sull’isola e sulle vicine coste fluviali erano degenerate in risse sempre più violente. Ogni siberiano si trovava ad affrontare un nutrito numero di militari cinesi armati di rampini, picchetti e bastoni chiodati. A quei tempi non avevamo tute antiproiettile. I miei uomini portavano spessi giacconi di pelle di pecora. Non passava giorno senza un tafferuglio e […] ci rendemmo conto che non potevamo resistere combattendo a mani nude. Ci procurammo delle lance e delle mazze con la punta di metallo, simili a quelle usate dagli antichi guerrieri […]. Tra le guardie di confine della zona divennero armi popolarissime.
Così scriveva il tenente generale Vitalij Bubenin, decorato come Eroe dell’Unione Sovietica per il coraggio dimostrato durante la fase più violenta di quegli scontri, prodromi delle vere e proprie battaglie, combattute con armi molto più moderne nel marzo 1969, per il possesso di una isoletta in mezzo all’Ussuri, periodicamente sommersa dalle piene e di nessun valore strategico, che i russi chiamavano Damanskij e i cinesi Zhenbao (Isola del tesoro).
Queste continue battaglie dovevano ricordare i primi scontri tra cosacchi e mancesi di tre secoli prima allorché, con la conquista di Ivan il Terribile, tra il 1552 e il 1556, dei khanati gengiskhanidi di Astrakhan e Kazan, ultimi diaframmi tra la Russia e l’Asia, si aprirono ai russi le porte della Siberia, delle gigantesche foreste che si estendono oltre gli Urali e della sterminata pianura a sud est, dalle ultime propaggini degli Urali sino al Mar Caspio. In quel vuoto si precipitarono gli elementi più indipendenti, più avventurosi e ribelli, primi i cosacchi, tradizionalmente insofferenti di controlli e disciplina e successivamente i contadini fuggiti dai feudi di confine per sottrarsi all’arruolamento forzato, i membri delle sette religiose dissidenti, specie i «vecchi credenti» che rifiutavano di fare il soldato e di pagare le tasse ad uno Stato che non riconoscevano dato che si identificava con la chiesa ortodossa considerata eretica. Poi, sulle loro orme, gli avventurieri e i commercianti attratti dalla speranza di realizzare immense ricchezze con la cattura degli animali da pellicce pregiate e ricercate in tutta Europa, come la «dinastia» degli Stroganov, che ottenne nel 1558 dallo zar un brevetto che concedeva loro, oltre l’esenzione da tasse e dogane, «di commerciare, di colonizzare le zone incolte, fondare città, arruolare truppe, fondere cannoni ed amministrare la giustizia nelle zone che erano attraversate dagli affluenti del Kama, dalle loro foci alle loro sorgenti, e cioè da In’va, Obva, Jajva, Ussolka, Kosjva». In pratica la costituzione di un nuovo Stato.
Sulle orme di Tomofejevič Jermak, il Cortés della Russia, uno dei primi atamanni cosacchi ad attraversare gli Urali, conquistatore di Isker, la capitale del regno siberiano del tartaro Kucium, innalzato a figura leggendaria di colui che donò nel 1582 Sibir allo zar (da cui il nome Siberia), molti altri «conquistatori» andarono in Siberia. Nel 1586 il voivoda Vasilij Ssukin giunse al fiume Tura e costruì un campo trincerato a Tjumen, sul posto di una antica città tartara. Con questo campo aveva inizio una lunga serie di sedi fortificate siberiane, gli ostrog, piccole fortezze che una dopo l’altra inchiodarono la Siberia all’impero moscovita. L’anno seguente, il 1587, giunse in Siberia un altro voivoda, Daniil Čulkov, con cannoni, cavalli e 500 soldati. Egli andò oltre Ssukin, costruendo alla confluenza del Tobol con l’Irtysh un nuovo ostrog, Tobol’sk. Nel 1593 bande di cosacchi scesero il corso del fiume Ob e fondarono Berjosov, a 600 chilometri da Tjumen, altre da Tobol’sk risalirono l’Irtysh fino alla confluenza con l’Ob, traversandone i corsi e fondando nel 1595 Obdorsk. Così, anche tutto il corso inferiore dell’Ob venne assoggettato a Mosca. Quarant’anni dopo la spedizione di Jermak oltre un terzo dell’attuale Siberia era assicurata all’impero moscovita attraverso l’istituzione degli ostrog.
Nel 1632, cinquant’anni dopo la presa di Isker, venne fondato l’ostrog di Jakutsk sul fiume Lena, che dieci anni dopo divenne il centro amministrativo della Siberia orientale, come Tobol’sk lo era di quella occidentale. Di lì continuò la conquista in tre direzioni: a nord-ovest verso lo stretto di Bering, raggiunto (casualmente) per mare nel 1648 dall’atamanno Semen Descnev (ottant’anni prima di Bering) e la penisola della Kamcatka, a oriente verso il Mare di Ohotsk e a sud verso il fiume Amur, «il fiume del Drago nero» dei tungusi lungo il quale, nei loro racconti, cresceva il grano e viveva gente che possedeva molto argento.
Nel 1644 il voivoda di Jakutsk Piotr Golovin decise di inviare nella regione del Daurien una spedizione di 110 uomini al comando di Vasilij Poyarkov, un cosacco pratico di scambi commerciali e di riscossione dei tributi che «sapeva maneggiare la penna d’oca, ma la sciabola sicuramente meglio». Questi si spinse quasi sino a dove l’Ussuri, venendo da sud si getta nell’Amur, ma stremato dallo sforzo compiuto nel traversare fiumi e catene di montagne fu costretto ad abbandonare l’impresa, facendo ritorno a Jakutsk il 12 giugno 1646 dopo due anni e undici mesi di assenza. Aveva perduto quasi tutti i suoi compagni, sopportato indescrivibili privazioni e traversie, percorso una via che per quasi due secoli nessuno fu più in grado di rifare ma riuscì a ritornare in buone condizioni di salute e con un ricco bottino di pellicce.
Fu un altro dei più gloriosi capi cosacchi, Jerofej Pavlovic Chabarov, ricco commerciante di sale e di grano, a ripercorrere, con maggior successo, l’itinerario di Pojarkov e concludere la galoppata verso est. Arruolato a Jakutsk un corpo di 150 uomini, nel marzo 1649, iniziò a risalire il fiume Lena e poi passò nell’Olkma. Giunto all’Amur, dopo essersi scontrato con le tribù dei dauri che cercavano di contrastargli l’avanzata, nel maggio 1650 fece ritorno a Jakutsk con un piccolo bottino ma confermando la notizia sul grano. Nella primavera 1651 discese l’Amur con un convoglio di barche e penetrò nella regione del Daurien sino alla sua capitale Albasin, alla cui guarnigione diede battaglia. Conquistata, la fortificò, vi lasciò una piccola guarnigione e riprese la navigazione sull’Amur giungendo sino alla confluenza dell’Amur con l’Ussuri. Qui, nel settembre 1651, su una collina che domina i due fiumi, dove oggi sorge la città che in suo onore si chiama Chabarovsk, costruì un ostrog per difendersi dagli attacchi dei ducheri e degli asciani e vi passò l’inverno con l’intenzione di riprendere la marcia nella primavera successiva dopo aver consolidato le sue posizioni.
Ma non sapeva ancora di dovere affrontare un ostacolo di gran lunga più pericoloso di quello sino ad allora rappresentato dalle tribù locali, numericamente esigue, senza armi, senza collegamenti tra di loro e disperse in enormi spazi. Chabarov era arrivato agli avamposti dell’impero cinese, sul cui trono sedeva allora, assistito da un consiglio di reggenza data la sua giovane età, l’imperatore Kangxi, colui che avrebbe retto le sorti dell’impero per un sessantennio e ridato alla Cina quel ruolo di potenza panasiatica che aveva perso da gran tempo.
La presenza russa era stata tollerata per decenni ma la nuova dinastia mancese era ancora troppo presa dai problemi dell’occupazione e della pacificazione della Cina per potersi dedicare a piccole questioni di frontiera. Quando però furono sistemate tutte le questioni interne e l’impero cinese fu completamente in suo pugno, Kangxi poté affrontare la situazione con un’azione di forza contro l’orda dei «barbari del Nord» che si stava avvicinando ai suoi confini, tanto più che il centro di reclutamento delle sue guarnigioni in tutta la Cina era la Manciuria, alla cui porta Chabarov si era affacciato.
Il primo attacco delle truppe imperiali contro l’ostrog edificato alla confluenza dei due fiumi venne respinto, ma le gravi perdite subite, il fronteggiare per la prima volta veri e propri soldati, sicura avanguardia di numerose altre unità, indusse Chabarov ad abbandonare quella posizione avanzata e a ritirarsi su Albasin non potendo contare sull’aiuto di truppe regolari russe.
Nel giugno 1685 Albasin fu assediata da un esercito regolare cinese. Il primo giorno d’assedio costò ai russi 100 morti. Il comandante della guarnigione, il voivoda Tolbusin, dopo pochi giorni accettò onorevoli condizioni di capitolazione e si arrese. I cinesi lasciarono al presidio le sue armi e fornirono cavalli e viveri, incendiarono Albasin e ritornarono trionfanti a Zizikar. Ma verso la fine di agosto dello stesso anno Tolbusin, di propria iniziativa, raccolse un nuovo esercito e ricostruì Albasin. Ma Pechino era più vicina di Mosca all’Amur. A Mosca regnavano insieme due zar minorenni, Ivan V e Pietro I, a Pechino l’energico Kangxi. Il 7 luglio 1686 Albasin venne di nuovo assediata. La città era difesa da 800 uomini e 12 cannoni. L’esercito cinese pur contando 10mila uomini con 100 cannoni non riuscì ad espugnarla e nel maggio 1687, dopo dieci mesi di assedio si ritirò. In quel momento tra governo russo e cinese erano già state avviate le trattative di pace.
Infatti in quell’epoca Mosca era troppo impegnata nelle sue guerre occidentali per poter destinare truppe e mezzi in Asia. Era in guerra con la Polonia per l’Ucraina orientale, stava per scoppiare quella con la Turchia per l’Ucraina sud-occidentale e il Mar d’Azov, le relazioni con gli svedesi, in possesso delle province baltiche e con il controllo del Mar Baltico, erano tese. Né migliore si presentava la situazione interna dove nelle regioni sud-orientali cominciavano a serpeggiare quelle rivolte dei contadini che si estesero poi, sotto la guida di Stepan Razin, a tutto il bacino del Volga e che vennero domate nel 1671.
Il Cremlino pensava al modo di finanziare queste guerre dato che le casse dello Stato erano vuote. Il commercio con la Cina avrebbe offerto la possibilità di rimpinguarle. La Cina era infatti il miglior mercato per le pellicce siberiane e Mos...