II
Eventi e luoghi
Bruna Bianchi
Vivere a Venezia durante la guerra. Le donne, la povertà, il trauma, la protesta*
1. Agosto 1914-marzo 1915. I tumulti delle «popolane»
Mio caro Marito,
Non puoi comprendere con quanto dolore vengo iscriverti questa mia lettera facendoti conoscere che il tuo bambino che tu ami tanto si ritrova in punto di Morte. Dopo circa un mese di Malattia Ora ti prego di cercare di poter venire a Venezia il più presto possibile, onde di poter fare a tempo di vederlo per lultima volta. Inoltre devi sapere che costretta dal bisogno, non avendo altro da impegnare, o dovuto vendere parte della Mobiglia per non languire di fame me i figli, così ora, sono costretta di dormire a terra, ma speriamo che questa benedetta guerra possa avere un termine, al più presto possibile così potrà aprirsi i lavori di nuovo ed allora potremo a farsi tutto cio ahamo perduto. Ora sappi che tutti i miei figli sono tutti disuccupati, e col denaro che mi passa il Governo non posso andar avanti, con le mie brutte considerazioni che mi trovo in grande miseria, Altro non mi resta di salutarti di cuore sperando che forse sarai Meliorato, sperando più presto possibile di vederti così unita ai figli ti mando Mille Bacci
Tua Molie Rumor Luigia.
Quando Luigia si risolse a scrivere al marito erano trascorsi quasi due anni dall’inizio della gravissima crisi che si era abbattuta sulla città. Venezia, infatti, fu tra le città italiane quella che più soffrì degli sconvolgimenti della guerra. Non lontana dal fronte, minacciata costantemente dal cielo e dal mare, subì un contraccolpo gravissimo sul piano economico dallo scoppio della guerra europea. Per le donne significò perdita del lavoro, mariti disoccupati, malattia e morte dei bambini, lotta quotidiana per la sopravvivenza.
Fin dai primi di agosto 1914 il traffico portuale si era contratto drasticamente per poi cessare del tutto fino alle ultime settimane del 1918. In pochi giorni quasi 1.500 scaricatori restarono senza lavoro.
Poiché il porto di Venezia era soprattutto un porto di importazione, la brusca diminuzione delle navi in arrivo paralizzò l’industria cittadina che occupava un gran numero di donne.
Per far fronte al dilagare della disoccupazione ed evitare l’esplosione della rabbia popolare il 15 agosto fu istituito il Comitato pro richiamati, disoccupati ed emigranti. La prima iniziativa del Comitato, «il 16 agosto, da un’ora all’altra, quando le donne dei nostri scaricatori scesero in piazza…», fu l’istituzione dei Laboratori municipali veneziani. In locali e con macchine da cucire concesse dal Comune, Maria Pezzé Pascolato avviò la sezione di Lavori femminili, ricami e trine per operaie disoccupate, ottenne commesse dalla sartoria del Distretto militare e distribuì gran parte delle lavorazioni a domicilio. Il Comune, inoltre, organizzò un sistema di buoni alimentari. Quando, il primo settembre, i buoni vennero ridotti e sostituiti con il sistema più parsimonioso delle cucine economiche, il malcontento popolare esplose violento; recarsi a quelle cucine, spesso assai distanti dalle abitazioni, rinunciare alla riservatezza della propria casa, era gravoso e umiliante soprattutto per le donne. Quello stesso giorno, di fronte a palazzo Diedo a Santa Fosca, i disoccupati restituirono o strapparono i buoni e si diressero in corteo verso Rialto. Il giorno successivo una nuova e più violenta dimostrazione di protesta si svolse di fronte al municipio per iniziativa delle donne provenienti dai quartieri poveri della città.
E mentre la disoccupazione dilagava – alla metà del mese di novembre le persone che dovevano fare affidamento sulla beneficenza pubblica erano valutate in 25.000 – i prezzi salivano.
Il prezzo del grano da luglio a dicembre aumentò del 44% e quello del mais del 35,7%; il prezzo del pane a novembre raggiunse le 56 lire il chilo, uno dei valori più elevati d’Italia. I consumi di conseguenza subirono una brusca contrazione e si temevano ulteriori tumulti. Nel novembre 1914 così scriveva il sindaco Filippo Grimani nella sua relazione al governo:
Non è più lo spettacolo di una crisi, è l’immagine di una rovina. […] Laboratori chiusi; cantieri agonizzanti; negozi mantenuti in esercizio per rispetto delle apparenze; banchine presso che inerti; operai disoccupati a centinaia per ogni categoria; circa diciottomila persone che vivono a cinque soldi il dì (quasi un ottavo della popolazione!), senza contare i molti lavoratori che possono dare poco alle loro famiglie; numerosi i precetti di sloggio; le case oramai sguarnite di oggetti, anche i più umili, da portare al Monte di pietà; una diffusa tristezza; una crescente sfiducia; un sordo brusio di voci irose.
Fino al febbraio 1915 il malcontento si manifestò in isolati scoppi di rabbia in occasione della distribuzione dei buoni, che era sempre un momento di grande tensione; i buoni, infatti, erano insufficienti alla vita ed erano elargiti a meno della metà dei disoccupati. Quando, ai primi di marzo, ne fu annunciata la sospensione, la reazione popolare non si fece attendere.
La scintilla dei tumulti che si susseguirono per alcuni giorni si accese il 15 marzo in campo San Luca presso un negozio di frutta e verdura a causa del prezzo elevato delle cipolle. La protesta si protrasse per tutta la giornata e si trasferì alla vicina sede del municipio dove alcune donne presentarono un memoriale in cui si chiedeva il calmiere e il ribasso degli affitti. Il giorno successivo, il 16 marzo, una cinquantina di donne tornò a Ca’ Farsetti per ottenere risposta; il rifiuto del sindaco di riceverle riaccese la protesta: al grido di «abbasso la guerra, abbasso i signori» le manifestanti si diressero in piazza San Marco, attraversarono le mercerie e percorsero tutto il centro cittadino: tavoli e sedie rovesciate, vetrine di negozi e caffè in frantumi. Il 18 marzo tra la folla che gremiva calle del Carbon, presso il municipio, comparvero numerosi i ragazzi, i giovani operai, i disoccupati, i facchini. Ad una delegazione Filippo Grimani espose le decisioni della giunta: istituire un calmiere era impossibile, «avrebbe inasprito ulteriormente i bottegai», nulla si poteva fare per ottenere un ribasso degli affitti o una proroga nei pagamenti; ciò che il Comune poteva garantire si limitava ad un lieve ribasso del prezzo della legna e al tentativo di persuadere i macellai a non aumentare il prezzo della carne per una settimana.
Il 18 e 19 marzo le dimostrazioni di protesta investirono l’intera città; il 18 le voci che si levavano dal corteo incitavano i manifestanti a recarsi al Cotonificio e alla Manifattura tabacchi; e mentre al Cotonificio le dimostranti ottenevano la chiusura dello stabilimento e l’uscita delle operaie, a Castello la folla tentava di assaltare la caserma, impegnandosi in duri scontri con la forza pubblica.
Anche ieri Venezia non era più Venezia, la città calma e sicura, ma pareva divenuta un campo di scorrerie, di donne, uomini e ragazzi e carabinieri e guardie e soldati rincorrentisi, azzuffantesi, urlanti, i negozi chiusi, dovunque si poteva credere che passassero baraonde; e guardie e soldati colpiti da sassi… e da coltelli.
I tumulti che si verificarono nell’agosto 1914 e nella primavera del 1915 erano stati tra i più violenti di quelli segnalati alla Direzione generale di pubblica sicurezza. I protagonisti più accesi furono i ragazzi e le giovani donne.
Giovanissima la ragazza che il primo giorno in campo San Luca propose di incendiare il negozio di frutta e verdura, giovani le donne che furono udite «arringare la folla» a piazza San Marco. Gli imputati che comparvero di fronte ai giudici del tribunale della città per insulti e aggressioni, tranne una donna di 43 anni, erano tutti giovani e adolescenti.
La violenza della protesta popolare non era giunta inaspettata ai socialisti; pochi giorni prima dei tumulti sul «Secolo Nuovo» si poteva leggere che «nel sottosuolo sociale...