La Spagna delle tre culture
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La Spagna delle tre culture

Ebrei, cristiani e musulmani tra storia e mito

Alessandro Vanoli

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La Spagna delle tre culture

Ebrei, cristiani e musulmani tra storia e mito

Alessandro Vanoli

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Per oltre otto secoli, dal 710 al 1492, tre culture – cristiana, islamica, ebraica – convissero in Spagna tra tensioni e scambi fecondi, incomprensioni e reciproci arricchimenti. La storia narrata in questo libro non è solo quella di incontri o scontri tra religioni, bensì, soprattutto, quella di come si definirono le diverse identità della penisola iberica e di come tali identità guardarono a ciò che percepivano come diverso e insieme, inevitabilmente, prossimo.La storia della diversità è molto più complessa di quanto non lascino intendere i luoghi comuni: l'idea di reconquista, di scontro continuo e sanguinoso tra cristianità e islam, come pure l'immagine mitizzata di al-Andalus come miracoloso spazio del dialogo e dell'incontro tra le tre religioni non sono altro che una semplificazione, fatta ideologicamente e a posteriori, tra una molteplicità di punti dei vista possibili. La ricostruzione dei complessi, fluidi e contraddittori rapporti tra i fedeli delle tre grandi religioni è possibile solo all'interno di un racconto che interroghi con scrupolo e onestà opere letterarie, poesie, testi giuridici, storici e geografici.Anche dopo il 1492, quando fu conquistato l'ultimo baluardo islamico in Spagna e gli ebrei vennero cacciati, queste differenti identità – pur se ufficialmente scomparse – rimarranno nella memoria collettiva e istituzionale, in quelle parole ad esse legate che continueranno a far sentire la loro presenza, invisibile e ingombrante. Fino a un oggi in cui l'invenzione delle differenze è diventata, per la prima volta, una vera necessità culturale e politica.

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Information

Year
2015
ISBN
9788867285563

I

LA SPAGNA DELLE TRE CULTURE

Preludio: la Spagna all’epoca dei Visigoti

Lo spazio cristiano e latino dei Visigoti

Immaginiamo che sia un giorno d’estate del 710 dopo Cristo, magari a Toletum, che un giorno si chiamerà Toledo ma che per adesso è ancora la capitale del regno visigoto nella penisola iberica. Probabilmente sono giunte anche lì le voci di quelle imbarcazioni provenienti dall’Africa che ultimamente hanno insidiato la costa meridionale; probabilmente non vi si è dato molto peso e in fondo non a torto: da ben più di una generazione i berberi della Mauritania minacciano la Betica senza che questo si sia mai trasformato in un pericolo davvero serio. Questa volta sarà definitivamente diverso, ma sarebbe difficile prevederlo in quel giorno d’estate del 710.
In realtà i segni ci sono: il regno visigoto all’inizio del secolo VIII è un mondo in crisi che pare aver perso lo slancio culturale dei tempi di Isidoro († 636), vescovo di Siviglia e tra gli ultimi grandi padri della Chiesa. Le città ora languono, impoverite da una frammentazione politica sempre più accentuata che segna la vittoria di un’aristocrazia litigiosa e, ancora di più, di una Chiesa che da tempo ha dimostrato una capacità di centralizzazione quasi più forte di quella del re: centralizzazione della cultura, attraverso l’opera di tanti nuovi centri monastici; ed ecclesiastica, da quando è stato riconosciuto il primato dell’arcivescovo di Toledo sopra tutti gli altri vescovi iberici.
Di questo mondo, però, è estremamente difficile riportare le voci: al di là delle opere religiose o erudite, i documenti sono inevitabilmente pochi e giungono, per lo più, dallo stesso ambiente, quello degli scriptoria monastici e della società nobiliare vicina alla corte.1 Nei secoli precedenti, tra il VI e il VII, tanto il clero quanto la nobiltà gota hanno definito i loro ruoli e le loro istituzioni; e lo hanno fatto richiamandosi a una tradizione, quella romana, di cui si sentivano diretti continuatori. Di questo sforzo il già citato Isidoro è stato la voce più alta,2 ma ne troviamo traccia anche in autori oggi meno noti, come Braulio di Saragozza o Giuliano di Toledo;3 segni di questa opera sono pure le emanazioni dei tanti concili iberici, oltre a tracce apparentemente più sottili, come le nuove terminologie latine delle istituzioni laiche o i titoli onorifici quali vires inlustres, comes, dux. Gli stessi re visigoti si sono fregiati del titolo, di rex Gothorum, oppure princeps e Flavius:4 lo hanno fatto incidere sulle monete, come se Roma e la sua storia avessero continuato a vivere in loro e grazie a loro. Naturalmente, questo linguaggio che guarda al passato latino è solo il segno più evidente di un profondo mutamento istituzionale: una nuova regalità che si è costruita accanto e grazie a una nuova Chiesa. Si diceva dei monasteri: il secolo VII è un momento di forte affermazione del monachesimo, tanto nelle città quanto nelle campagne non ancora evangelizzate. Dopo il grande lavoro di centri come san Millán e San Martín de Dumio è stata la volta delle riflessioni e della dottrina di personalità quali Leandro, Isidoro e Fructuoso.5 È a loro e altri religiosi e intellettuali che si deve la costruzione di un nuovo linguaggio che sarà capace di influenzare profondamente le istituzioni dei secoli a venire.
Alcune righe sopra avvertivo che i testi del tempo ci narrano di come la classe nobiliare e la regalità vollero essere percepite. Mi stavo riferendo appunto a questo linguaggio, maturato negli scriptoria monastici come negli ambienti di corte, fissato nei testi giuridici e nelle cronache. Attraverso questo linguaggio, legato alla tradizione e alla successiva riflessione cristiana, i Visigoti emergono come i più nobili tra i popoli (gentes) entrati nei territori un tempo di Roma; come i conquistatori che grazie alle loro virtù avevano meritato la grande eredità di quell’impero che ormai – almeno a occidente – era definitivamente tramontato.6 Sono queste, più o meno, le parole con cui si esprimeva lo stesso Isidoro e che sarebbero state affermate con forza nel IV Concilio di Toledo (direttamente ispirato dal vescovo di Siviglia) al termine del quale si sarebbe esaltata, appunto, l’unità iberica, assicurata dalla stirpe gota e dalla Chiesa, e saldata dalla comunanza dell’ordinamento giuridico:
Dopo aver stabilito alcune cose riguardanti l’ordine ecclesiastico e decretato su ciò che pertiene alla disciplina per alcune persone, l’ultima decisione di noi tutti vescovi è stata di redigere alla presenza di Dio l’ultimo decreto conciliare, per rafforzare il nostro regno (pro robore nostrorum regnum) e per la stabilità della stirpe dei Goti (stabilitas gentis Gothorum). Tale è la perfidia dell’anima di molti, come è noto, che non tengono in alcun conto la promessa fatta al re con giuramento (sacramentum promissam regibus) e mentre nel loro cuore mantengono la perfidia della lesa maestà (perfidiae impietatem), con le parole simulano la fede del giuramento. […] Da ora in avanti chiunque tra noi e tra qualunque popolo della Spagna, che con alcuna macchinazione o trama violerà il giuramento che fece in favore della stabilità della patria e del popolo dei Goti e della incolumità del potere regale, o cercherà di dare la morte al re […] sia anatema alla presenza dello Spirito Santo e dei martiri di Cristo e sia escluso dalla Chiesa cattolica che profanò con il suo spergiuro ed estraneo alla comunione dei cristiani.7
Questa dichiarazione risale all’anno 633 e, come sappiamo, i timori dei vescovi iberici sono più che giustificati: di lì a una generazione, quando mancheranno pochi anni all’invasione musulmana, la Spagna visigota sarà diventata ormai un mosaico di potentati locali, in cui la figura del re conterà sempre meno e la forza attrattiva del vescovo di Toledo sempre di più. Ciò che a noi interessa è però quel forte richiamo alla «stabilità della stirpe dei Goti» che appare nel testo (e in tanti altri documenti del tempo): una coscienza unitaria che si salda nella comunanza dell’elemento politico (il rex), della stirpe (gens) e della terra nativa (patria). Come è stato giustamente notato,8 i padri del concilio stavano probabilmente forzando un poco la realtà – specie perché di unità di stirpe era davvero prematuro parlare – ma il processo era comunque cominciato e avrebbe avuto profonde ripercussioni nei secoli successivi, quando i Goti non ci sarebbero stati più e la Spagna cristiana avrebbe guardato al suo passato per trovare un nuovo fondamento unitario.
Occorrerebbe approfondire e non si può. Limitiamoci solo a quella parola, patria, che qui non ha nulla, ovviamente, delle sue accezioni moderne e che rimanda, piuttosto, a un territorio definito dalla popolazione che lo abita e che il re governa e personifica. Ancora Isidoro ricordava nella sua Historia Gothorum, che la realizzazione perfetta della monarchia fosse quella di governare un territorio unitario; così come era avvenuto al tempo del re Suintila, che aveva regnato su tutta la penisola.9 In fondo, non si trattava di un ordine di idee molto diverso da quello che, al di là dei Pirenei, avrebbe mosso le considerazioni di Gregorio di Tours nell’affermare come fosse indecoroso che il potere dei re Franchi non giungesse sino ai confini della Gallia.10 La monarchia, insomma, si accompagnava a un’idea di completezza che doveva esprimersi sul piano territoriale, anche se, occorre precisarlo, il re visigoto non poteva possedere la terra, ma solo governarla.11
«Pro patria gentisque Gothorum statu», «Per la patria e la stabilità del popolo goto» saranno le parole del giuramento di fedeltà al re invalso almeno dal 633. Non ci si inganni, però: quel mondo è unitario perché così lo narrano le fonti di cui disponiamo. I discorsi politici e istituzionali elaborati all’interno degli scriptoria o dagli intellettuali vicini alla corte non potevano che affermare – in buona fede, ovviamente – l’unità iberica di matrice gota e latina. In realtà, come è logico, quel mondo era ben più complesso. E non mi riferisco tanto alla distinzione tra elemento iberico romanizzato e nuovi dominatori germanici (che finirono comunque per fondersi progressivamente). Mi riferisco soprattutto, qui, alle tante comunità ebraiche che in età visigota popolarono la penisola e che avrebbero giocato un ruolo di primo piano dopo la conquista musulmana. Ma prima di procedere mi permetto di proporvi una breve e – spero – utile parentesi, parlando di altre popolazioni iberiche, lontane dalla nostra storia, certo, ma che ben riflettono la complessità di quel mondo che i discorsi registrati dalle fonti in nostro possesso, avrebbero voluto unitario.

I popoli delle montagne

Gli Ispani (Hispanos) in principio si chiamarono Iberi (Iberos) per il fiume Ebro (Iberus), successivamente furono chiamati Ispani da Hispalo. I Galiziani (Galleci) sono così chiamati per la loro bianchezza, così come per i Galli. Essi sono effettivamente più bianchi degli altri popoli della Spagna. Essi sostengono di avere origine greca; per questo godono di un carattere ingegnoso. […] Popolo di Spagna sono anche gli Asturiani (Astures), così chiamati per abitare sulle rive del fiume Astur, essi vivono isolati tra le montagne e in fitte selve. Altro popolo della Spagna sono i Cantabri (Cantabri), il loro nome è composto da quello della loro città e dal fiume Ebro; sono di indole dura, abili nel furto e nella guerra, sempre capaci di sopportare con fermezza le calamità. I Celtiberi (Celtiberi) prendono la loro origine dai Galli Celti, il loro nome designa la regione chiamata Celtiberia. Di fatto essidevono il loro nome dal fiume Ebro, sulle cui rive si stabilirono, e dai Galli che si chiamavano Celti; così si formò il nome il loro nome composto di Celtiberi con cui oggi sono conosciuti.12
Un lungo e noioso elenco del solito Isidoro per evidenziare un fatto che non è per nulla scontato: dietro l’immagine politica di una penisola iberica unificata sotto l’egida dei conquistatori visigoti, si cela in realtà, come dicevo sopra, un mondo ben più articolato: un numero considerevole di popoli, per lo più settentrionali, stanziati lungo il corso dell’Ebro o nascosti tra i monti e le foreste delle Asturie e dei Cantabrici. Di loro sappiamo poco più che il nome. Iberi, Galiziani, Asturiani, Cantabri; non è un caso, forse, che le loro denominazioni rimandino per lo più a toponimi: in questo loro confondersi con i nomi di fiumi o di montagne si legge parte del loro destino di popoli esterni alla civiltà, uomini dalla natura ferina e selvaggia come i luoghi che abitano.
Quando tra le righe di alcune dichiarazioni conciliari emerge la convinzione (o la speranza) del valore unificante della nuova comune fede cristiana,13 quello che appare chiaro è che l’assimilazione di cui si parla riguarda la nuova aristocrazia gota e la precedente aristocrazia romana. Quei popoli di cui accenna Isidoro costituiscono invece l’elemento indigeno, non romano o preromano, e per la maggior parte degli autori di cultura gota e romana del tempo, dicevo, non appartengono se non marginalmente alla civiltà: le città, tutte le città importanti del tempo, erano romane e sorgevano sulle grandi vie di comunicazione costruite dai Romani; al di fuori di esse vi era la campagna, più spesso la selva, un mondo muto e silenziono perché privo di cultura scritta, forse nemmeno del tutto romanizzato, probabilmente neppure troppo cristiano.
Le cronache gote, come quella famosa di Giovanni Biclarense,14 registrano le numerose spedizioni dei re contro queste popolazioni, le stesse elencate da Isidoro, insediate nelle regioni del nord ovest: Cantabria, Asturie, Galizia; zone per lo più montagnose, dove le popolazioni sono in prevalenza di tipo celtico se non anche, talvolta, di fondo etnico più antico. Così, ad esempio, capita nel 575, contro i “devastatori” della Cantabria, forse bande di predoni montanari, probabilmente gli stessi di cui Isidoro ricorderà la ferocia; così accade nel 581 quando, spintosi nel territorio dei Baschi (Vascones), Leovigildo vi fonda pure una città, Victoriacum, piazzaforte dal nome piuttosto esplicito che dovrebbe servire a meglio controllarli. La cosa, si sa, servirà invece a poco: i re successivi avranno ancora a che fare con i Baschi, i quali dal canto loro non si risparmieranno, dando filo da torcere anche dall’altra parte dei Pirenei ai Merovingi, prima, e ancora ai Carolingi, come sembra rammentare, favoleggiando, ...

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