1. L’inferiorità delle donne: una credenza di lunga durata
1. Nel mondo degli uomini: gli antefatti
In queste pagine faremo un salto temporale ardito, rispetto alla cronologia di questo libro, portando l’attenzione sul mondo antico, per rintracciarvi i presupposti ideologici della svalorizzazione delle donne e del lavoro che giunge all’età contemporanea. Le convinzioni e le credenze nate in questo contesto storico sono infatti riferimenti significativi per la comprensione della posizione sociale e politica femminile in una prospettiva lunga, che giunge alla seconda metà dell’Ottocento. Riordinando le tracce materiali e le scritture tramandate secondo un ordine temporale e una prospettiva dotata di senso, gli studi storici hanno fatto emergere dal passato frammenti coerenti della realtà antica, sottraendoli al mondo delle fantasie e dei miti. Una breve ricognizione di questi risultati ci consentirà di individuare una linea di continuità fra il retaggio culturale e normativo del mondo antico e gli ordinamenti giuridici che, nell’Italia di metà Ottocento, regolavano le relazioni di genere e la posizione sociale dei lavoratori.
Guardando anche più indietro, al passato preistorico, Margaret Ehrenberg, un’archeologa femminista, ha collegato la nascita del potere patriarcale al depotenziamento delle funzioni produttive delle donne, adottando una prospettiva “materialista”. Pur maneggiando con cautela l’ipotesi della formazione di società matriarcali, la studiosa ha sostenuto che nel periodo paleolitico si formarono in Asia e nel Sud Europa organizzazioni sociali che, pur senza esserne dominate, attribuirono alle donne un riconoscimento importante per il loro contributo alla sussistenza alimentare del gruppo. Queste comunità si sarebbero trasformate da nomadi a sedentarie in epoca neolitica, intorno al VII millennio: da un’agricoltura itinerante, combinata con coltivazioni orticole condotte dalle donne con strumenti leggeri, come la zappa, a una basata sul lavoro all’aratro degli uomini, sull’uso di carri trainati da animali, sull’irrigazione artificiale.
Proprio questo passaggio, combinandosi con altri processi, avrebbe condotto allo sviluppo di un potere gerarchico maschile. La riduzione dei tempi di allattamento al seno dei bambini, lunghi fra le raccoglitrici e funzionali al contenimento delle nascite, il conseguente aumento del numero dei figli, la specializzazione in una gamma crescente di lavori segreganti svolti all’interno della casa, dalla cura dei bambini alla produzione tessile, cancellarono la centralità delle donne nel lavoro agricolo. Il declino del protagonismo nelle attività rurali, dunque, sarebbe stato un’importante causa della sottomissione agli uomini, che, grazie al nuovo ruolo esercitato nell’agricoltura stanziale, avrebbero acquisito il possesso della ricchezza accumulata, con il potere che ne derivava.
Ma in epoca storica, nelle società antiche, l’importanza del lavoro nella distribuzione del prestigio e del potere appare offuscata: Atene e Roma, nelle ricostruzioni degli storici, si presentano come società gerarchizzate dal punto di vista delle posizioni di potere, sia per quanto riguarda la relazione fra uomini e donne, sia per quanto riguarda la collocazione sociale dei lavoratori e delle lavoratrici. In che misura, in queste organizzazioni sociali, la subalternità del lavoro e quella delle donne si collegavano e si sovrapponevano? L’immagine di inferiorità delle donne aveva una connessione con l’idea di una minore capacità nella sfera del lavoro? E il lavoro era una risorsa utile per migliorare il proprio status sociale?
Atene completò fra VI e V secolo a.C. la sua evoluzione democratica, ma i commerci e il lavoro non raggiunsero, nella creazione della ricchezza e del prestigio, uno statuto paragonabile a quello dell’attività bellica, che consentiva di ampliare l’estensione delle terre possedute dallo Stato e dai cittadini: solo gli ateniesi di sesso maschile che avevano completato l’addestramento militare godevano del diritto di voto nell’assemblea. Gli schiavi rimasero i protagonisti del mondo del lavoro, anche se erano i cittadini liberi ad amministrare i commerci e le terre. Le manifatture fiorirono a Roma intorno alla fine del I secolo a.C., grazie all’attività di liberi e di schiavi, ma il lavoro non permeava il sistema di valori costruito dalle classi dirigenti. Come scrive Paul Veyne «L’antichità è stata l’epoca dell’ozio considerato un merito».
Nell’Atene antica la distinzione fra spazi interni, femminili, e spazi esterni, maschili, era in teoria rigida. Il valore attribuito ai lavori di filatura e tessitura svolti dalle donne fra le mura domestiche variava fra le città doriche, come Gortina e Sparta, e quelle di lingua attica, che vivevano nell’orbita politica di Atene, divenuta progressivamente egemone nel mondo greco. Una chiave di lettura significativa per la comprensione del mondo ateniese emerge dal pensiero di Senofonte; in un immaginario dialogo fra Socrate e Critobulo, lo storico ateniese inseriva le riflessioni di Isomaco, suo alter ego, sulla divisione sessuale degli spazi esterni e interni alla casa:
Siccome ambedue le attività, quelle di dentro e quelle di fuori, hanno bisogno di lavoro e di attenzione, il dio, fin da principio, a me pare, ha adattato anche le nature […]. Dispose il corpo e l’anima maschile a sapere sopportare meglio il freddo e il caldo, le marce e le spedizioni militari […]. Generò invece il corpo femminile meno adatto a queste cose, e mi pare che il dio abbia affidato a lei le attività che si fanno all’interno. Sapendo poi di avere ispirato naturalmente alla donna la cura dei piccoli appena nati ed averla affidata a lei, stabilì che essa amasse i figli più dell’uomo […]. È più bello per la donna rimanere in casa piuttosto che andarsene in giro, invece per l’uomo rimanere a casa è più vergognoso che aver cura delle cose di fuori.
Questa demarcazione, spiazzante per la nostra lettura del mondo storico contemporaneo, era per l’autore invalicabile; vivere e lavorare in un ambiente chiuso avrebbe indebolito gli uomini rendendoli simili alle donne. Senofonte affermava infatti, in un altro passo, che gli stessi artigiani rischiavano di divenire effeminati con la loro attività, «perché li costringe a restar seduti all’ombra e talvolta persino a passare la giornata davanti al fuoco». La distanza dal modello del guerriero, abbronzato, forte, vitale, accomunava dunque gli artigiani e le donne. L’opposizione fra spazi chiusi e aperti, luce e ombra, mobilità e stasi del corpo, vigore o timore delle intemperie presiedeva, in questa costruzione discorsiva, alla gerarchizzazione delle figure sociali, ponendo da una parte le figure che si muovevano nelle arene pubbliche, come i guerrieri e i retori, dall’altra chi viveva nell’ombra e nel buio delle case: gli artigiani, i plebei, le donne. L’associazione fra l’identità maschile e gli spazi aperti si è persa con la mode...