Capitolo 1
Il giornalismo scientifico
Il futuro degli Stati Uniti è seriamente in pericolo. È il 1997. Jim Hartz, giornalista scientifico con 40 anni di carriera alle spalle, e Rick Chappell, fisico della NASA con un passato da consigliere di Al Gore, non hanno dubbi: il crepuscolo dell’America sarà segnato dalle cattive relazioni tra scienziati e giornalisti. Con il senno di poi delle Torri gemelle e dei mutui subprime, l’analisi di Hartz e Chappell può far sorridere. Ma solo a una lettura superficiale. I due, dichiaratamente di parte, innamorati della ricerca e dell’innovazione tecnologica, scrivono un documento con i presupposti di chi vede la scienza continuamente sotto attacco. Colgono però un punto su cui sarebbero convenuti insigni studiosi degli anni a venire: nella società e nell’economia basate sulla conoscenza chiunque assuma la leadership mondiale scientifica e tecnologica deterrà il predominio politico ed economico. Non sbagliavano. Basta guardare a Obama e alla Cina. Cioè ai soldi in ricerca e sviluppo che le due vere e uniche superpotenze rimaste in cirolazione stanno investendo per uscire dalle secche della recessione globale. Hartz e Chappell non si sbagliavano neanche riguardo alle relazioni con i media. Che piaccia o no, gli scienziati devono fare i conti con i giornalisti, con cui i rapporti sono tesi. O almeno sono percepiti come tali.
Tensioni
Paul Adrien Maurice Dirac è stato un grande scienziato. Vincitore del premio Nobel per la fisica nel 1933, viene ricordato per i contributi alla formalizzazione della meccanica quantistica e per aver teorizzato l’antimateria. Meno note sono le sue raccomandazioni riguardo ai giornalisti. Poche parole – Dirac era un tipo schivo e riservato – ma chiare: starne alla larga. La diffidenza non era del tutto ricambiata. Il primo corrispondente scientifico britannico, James Gerald Crowther, per convincere un redattore del “Manchester Guardian” a pubblicare un articolo di Dirac uscito sulla rivista specialistica “Future of Atomic Physics”, usava queste parole: «È un genio assoluto, […] ha solo 27 anni ed è probabilmente la più straordinaria figura della fisica inglese in circolazione». L’enfasi non basta a convincere William Crozier, il caporedattore del “Guardian”. L’argomento è «di sicuro interessante, – dice Crozier – ma non possiamo permetterci di pubblicare articoli che vengano letti solo da pochi altri accademici».
Sono passati più di 70 anni dai tempi di Dirac e i conflitti tra scienziati e giornalisti non sembrano essersi risolti. È da più di 30 anni, ad esempio, che la American Association for the Advancement of Science (AAAS), la più grande associazione scientifica generalista del mondo, finanzia seminari, corsi e work-shop per aiutare giovani ricercatori a interagire meglio con radio, televisione e giornali. In questa direzione è seguita a ruota da fondazioni di beneficenza e istituzioni di ricerca, come la CIBA Foundation o l’European Molecular Biology Laboratory. Sull’argomento vengono periodicamente prodotti manuali e guide pratiche. In rete esistono social network come il Research and Media Networkrealizzati per far condividere esperienze, idee, informazioni sulle migliori strategie mediatiche per diffondere al meglio i risultati della ricerca. Sono anche nate imprese private specializzate nel formare scienziati-comunicatori. Il progetto ESConet, finanziato dall’Unione europea nell’ambito del Settimo programma quadro, ha coinvolto per tre anni, fino al 2008, una rete di 17 istituzioni di 12 diversi paesi con l’obiettivo di costruire moduli d’insegnamento in comunicazione indirizzati agli scienziati. Lo scopo era fornire, soprattutto ai ricercatori più giovani, le competenze per comunicare più efficacemente con pubblici diversi, sottolineando l’importanza dei temi di scienza e società. Nel 2007, nell’Europa a 27, si contavano più di 80 scuole di giornalismo scientifico o di comunicazione della scienza. A queste iniziative vanno aggiunti innumerevoli workshop ad hoc, moduli specifici all’interno di insegnamenti più generali, scuole estive, corsi interdisciplinari.
Esiste insomma una grande ricchezza di insegnamenti formali e informali in comunicazione della scienza e uno sforzo a livello mondiale per migliorare le interazioni fra scienziati e giornalisti. Il presupposto è che ci sia qualcosa che non va, un qualche tipo di deficit.
E come dare torto a chi la pensa così quando si legge sui quotidiani di OGM e cellulari che uccidono le api, di acceleratori di particelle spacciati per “bombe fine di mondo”, di ragni giganti che invadono l’Europa o quando in televisione si continuano a vedere complottisti che negano l’allunaggio umano e strade magiche in cui le automobili in discesa invece di andare in giù vanno in su.
Sulla scorta di esperienze maturate inizialmente negli Stati Uniti, anche in Italia associazioni come il Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sul paranormale (CICAP), nato per iniziativa di Piero Angela e di scienziati come Silvio Garattini, Margherita Hack e Rita Levi Montalcini, si battono attivamente per denunciare le “bufale”, le superstizioni e le leggende che vengono diffuse in maniera crescente dai mass media in chiave antiscientifica.
Tra chi si occupa di rapporti fra scienza e società c’è la tendenza a ridurre gli episodi denunciati ad aneddoti poco significativi o a circoscriverli entro un conflitto dai contorni precisi e dalla storia antica, cioè quello che vede gli scettici razionalisti fronteggiarsi con guaritori, astrologi e oscurantisti di varia natura.
Ma come giudicare il dibattito messo in scena sui media quando si parla di temi dalle vaste implicazioni politico-sociali come fecondazione assisitita, cambiamenti climatici, evoluzione, rifiuti, energia nucleare? Gli scienziati, mediamente, lo giudicano male. Accusano i giornalisti di inaccuratezza, imprecisione, sensazionalismo, ignoranza, mancanza di obiettività, distorsione, pigrizia, malafede, di fornire un’immagine negativa della scienza, di dare ascolto a fonti poco attendibili, di alimentare paure irrazionali, di creare false aspettative di cura. Dal canto loro, i giornalisti ribattono che gli scienziati sono incapaci di spiegarsi in termini chiari, di parlare senza gerghi e tecnicismi, di comprendere le logiche dei media, li accusano di essere spesso arroganti, autoreferenziali e distanti dalle preoccupazioni delle persone comuni.
Mondi a parte, insomma, come recitava il titolo del rapporto di Hartz e Chappell già citato. Un divario culturale incolmabile separa il mondo della ricerca e i mezzi di comunicazione perché scienziati e giornalisti guardano al mondo in modo diverso e lavorano secondo logiche differenti.
Per i primi, almeno in tempi di scienza “normale”, ogni scoperta è un piccolo tassello di un mosaico molto più ampio alla cui realizzazione contribuisce l’intera comunità disciplinare: le discontinuità ci sono, ma per la maggior parte dei casi la scienza è un’impresa cumulativa e cooperativa. I giornalisti, all’opposto, amano le storie di geni romantici, incompresi e isolati o di svolte rivoluzionarie.
I tempi di lavoro sono un’altra differenza profonda. I comunicatori hanno poche ore per scrivere un articolo o realizzare un servizio. Lavorano sotto pressione. Devono prendere decisioni in tempi rapidi magari su argomenti controversi in cui non è possibile sentire tutte le campane. Gli scienziati viceversa possono impiegare anni per portare a termine una ricerca. Nella peer-review, il processo di revisione tra pari che garantisce la qualità della letteratura scientifica, dal momento della sottomissione a una rivista specialistica alla pubblicazione finale, le revisioni di un lavoro portano via molto tempo e mal si adattano alle esigenze dei media. Una scoperta non pubblicata che potrebbe essere in un certo momento d’interesse per il grande pubblico non lo è più mesi dopo, quando finalmente ha ricevuto tutti i crismi della pubblicazione scientifica.
Franz Ingelfinger (1910-1980), gastroenterologo di fama mondiale di origine tedesca, fu un importante editor della rivista “New England Journal of Medicine”. Nel 1977 enunciò una regola che porta il suo nome e che ha avuto una grande influenza sull’editoria scientifica: non è consentita la pubblicazione di articoli il cui contenuto sia stato reso pubblico in contesti diversi da quello che l’ha accettato per la pubblicazione.
Dai tempi di Ingelfinger, le violazioni della norma sono diventate in realtà sempre più frequenti. Ciò non vuol dire però che la mancata osservazione della regola non susciti polemiche anche feroci.
Per struttura, stile e linguaggio, gli articoli scientifici sono poi agli antipodi di quelli giornalistici. I primi esprimono oggettività e disinteresse, e raccontano (o dovrebbero raccontare) passo passo quello che è successo in laboratorio per consentire, almeno idealmente, al resto della comunità di riprodurre risultati analoghi. Il linguaggio delle notizie è viceversa immediato, attivo, con concessioni narrative lontane dalla prosa misurata e passiva dell’articolo specialistico.
Gli scienziati vorrebbero infine essere i garanti dell’accuratezza con cui vengono riportate le notizie scientifiche. La pretesa di controllo sul processo comunicativo è uno dei maggiori terreni di scontro con i giornalisti, i quali si considerano responsabili di ciò che scrivono e ritengono gli scienziati delle fonti da trattare con lealtà, citandoli correttamente ma niente di più. L’intervento esterno è percepito come una censura inaccettabile.
I primi studi sulla copertura della scienza da parte dei mass media, iniziati alla fine degli anni Sessanta del Novecento, muovono dai problemi descritti e giungono tutti a conclusioni simili. I media spettacolarizzano la scienza, la distorcono per vendere di più e non assolvono una cruciale funzione educativa. Un fatto grave poiché, visto il ruolo crescente della scienza nella società, un trattamento non adeguato può essere deleterio per il funzionamento di una democrazia matura, che ha bisogno di cittadini e politici scientificamente alfabetizzati per fare le scelte più opportune allo sviluppo economico e sociale.
L’interesse accademico nei confronti del rapporto tra scienza e mezzi di comunicazione di massa nasce dalla convinzione che ci sia bisogno di una “migliore” comprensione pubblica della scienza e di una stampa diligente, informata e responsabile nei confronti della scienza, in grado di spiegare in termini chiari ma corretti gli avanzamenti della ricerca, capace di stimolare l’interesse, l’apprezzamento e il supporto pubblico nei confronti dell’impresa scientifica. Il raggiungimento di questi obiettivi passa per la capacità, da parte del giornalista, di trasmettere con la massima fedeltà possibile l’informazione che arriva dalle fonti scientifiche.
Nei disegni di ricerca di alcuni studi è previsto che gli scienziati diano i voti agli articoli giornalistici. Vengono giudicati diversi tipi di errori, dalle omissioni di informazioni rilevanti ai titoli fuorvianti, fino ai refusi. Inutile dire che questi lavori registrano percentuali d’insoddisfazione molto elevate.
Agli scienziati piace comunicare?
«Sette o otto anni fa, se uno avesse preso un libro di scienza famoso e l’avesse venduto a un editore universitario per 5000 dollari, sarebbe rimasto a dir poco stupefatto. Oggi puoi prendere uno scienziato famoso che non sa scrivere e in 12 ore ti danno 250 000 dollari. Alla fine della settimana con altre vendite all’estero sarai riuscito a raccogliere 750 000 dollari». È il 1991. Siamo nel pieno del popular science boom. È dai tempi di Galileo che i filosofi naturali (prima) e gli scienziati (poi) espongono pubblicamente esperimenti, teorie e concetti sul mondo naturale, ma quello che succede a partire dagli anni Ottanta del Novecento non ha precedenti. Nel mercato dei libri di divulgazione scientifica c’è un salto quantico. L’indiscusso protagonista dell’impresa, il personaggio più geniale e controverso, quello che più di ogni altro ha trasformato la comunicazione della scienza in un affare milionario è l’agente letterario americano John Brockman: l’inventore della “terza cultura”, un impresario intellettuale e «un tipo di pensatore che non esiste in Europa», secondo la definizione che ne diede “La Stampa” di Torino. Nelle sue mani, ricercatori molto affermati ma sconosciuti ai più diventano star mediaticoletterarie con ingaggi a sei-sette cifre. Il suo portafoglio di clienti include i fisici Murray Gell-Mann (con un clamoroso anticipo di due milioni di dollari sul libro Il quark e il giaguaro), Roger Penrose e Martin Rees, gli informatici Marvin Minsky e Roger Schank, i biologi evoluzionisti Richard Dawkins e Stephen Jay Gould.
Brockman è la punta dell’iceberg di un fenomeno molto più ampio. L’astrofisico inglese Stephen Hawking, titolare all’Univerità di Cambridge della cattedra lucasiana che fu di Newton, nel 1988 pubblica Dal Big Bang ai buchi neri e sbanca le classifiche e le vendite di libri di divulgazione scientifica di ogni tempo. Il saggio vende più di nove milioni di copie in tutto il mondo, viene tradotto in 30 lingue e rimane nella lista dei bestseller per più di quattro anni.
Ma non ci sono solo i libri. La serie televisiva Cosmos, ad esempio, iniziata nel 1980 e condotta dall’astronomo americano Carl Sagan, tra i fondatori del progetto SETI per la ricerca delle intelligenze extraterrestri, in tre anni raggiunge un’audience stimata intorno ai 140 milioni di telespettatori: «Il 3% della popolazione umana del pianeta Terra», affermava orgogliosamente Sagan.
Anche oggi ci sono scienziati la cui carriera scientifica è collegata al sistema dei media. Uno di questi è Craig Venter, noto sia per aver sfidato il Progetto genoma umano nella corsa al sequenziamento del codice genetico, sia per la spregiudicatezza con cui usa i mezzi di comunicazione per promuovere la sua immagine e la sua visione della biologia del XXI secolo. Tra le sue ultime imprese c’è la nave da ricerca Sorcerer II, che tra il 2003 e il 2005 ha circumnavigato la Terra alla ricerca di genomi batterici marini sconosciuti. La vicenda, presentata come un viaggio di scoperta simile a quella di Charles Darwin a bordo del Beagle, è stata ampiamente coperta da “The New York Times”, “Wired” e “The Economist”. Per descrivere l’impresa, Discovery Channel ha prodotto un documentario intitolato Cracking the Ocean Code.
La lista potrebbe continuare a lungo, ma il messaggio è chiaro: quando comunicano al grande pubblico, gli scienziati fanno parlare di sé, possono vendere molto e addirittura diventare delle star mediatiche. Si è dunque realizzato l’invito di coloro che, soprattutto a partire dalla metà degli anni Ottanta col movimento Public Understanding of Science (PUS), auspicavano una mobilitazione massiccia dei ricercatori a favore della comunicazione pubblica soprattutto attraverso i media, pena la sopravvivenza della scienza in una società democratica moderna?.
Agli scienziati piace interagire con i giornalisti nonostante le profonde differenze culturali? Le barriere che la comunità scientifica ha tradizionalmente eretto per limitare un coinvolgimento maggiore nelle attività di comunicazione sono state rimosse?
Bisogna innanzitutto notare che gli scienziati citati sono personalità fuori dall’ordinario. Carl Sagan o Stephen Jay Gould, oltre ai milioni di libri venduti per il grande pubblico in tutto il mondo, hanno pubblicato continuamente ricerche su riviste come “Science” e “Nature” (circa uno al mese per tutta la loro lunga carriera), articoli su magazine di scienza popolare come “Scientific American”, “The Scientist” e “Discover”, hanno partecipato a numerose e importanti conferenze stampa, hanno presentato trasmissioni televisive e scritto editoriali per il “The New York Times”.
I loro straordinari curricula vitae rientrano nella categoria degli «scienziati visibili», secondo la definizione che nel 1977 la studiosa Rae Goodell diede delle figure pubbliche del mondo della ricerca che comunicano tramite i mass media. Goodell metteva in evidenza che i media, quando interpellano gli esperti, si focalizzano su poche figure chiamate a pronunciarsi su argomenti di cui non sono necessariamente competenti. Questi personaggi vengono selezionati non solo per la produttività o per la reputazione scientifica, ma anche per le loro attività «nel tumultuoso mondo della politica e delle controversie».
L’elenco della Goodell includeva il già citato Sagan, il biochimico Paul Erlich e l’antropologa Margaret Mead. Tutti personaggi che dalle attività di comunicazione hanno ricavato soldi e visibilità e la cui posizione accademica non è stata scalfita dall’impegno nella divulgazione.
Per un ricercatore qualsiasi le cose stanno diversamente. Già Goodell aveva mostrato che i pregiudizi negativi condizionano, e non poco, l’impegno di uno scienziato ordinario a interagire con radio, giornali e televisione. Un’esposizione pubblica eccessiva è vista come una perdita di tempo e può mettere a rischio la carriera.
Alcuni osservatori sostengono che negli ultimi anni, diversamente dai tempi del classico studio della Goodell, la comunicazione si è imposta come una necessitàrispetto alla quale non si può derogare. Le risposte e gli atteggiamenti relativi a tale richiesta sono però molto diversificati e non è chiaro quanti siano gli scienziati a credere auspicabile o coniugabile con la produzione scientifica di qualità un dispendio di energie elevato nei confronti della comunicazione.
Ci sono segnali secondo cui le relazioni individuali tra scienziati e giornalisti sono molto più frequenti e positive di quanto c...