Ripensare la smart city
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Ripensare la smart city

Francesca Bria, Evgeny Morozov, Flavio Iannelli

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Ripensare la smart city

Francesca Bria, Evgeny Morozov, Flavio Iannelli

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L'aggettivo "smart" è la quintessenza dell'era digitale in cui viviamo, che ha promesso così tanto ma mantenuto così poco. Tutto sembra essere "intelligente", dagli spazzolini da denti fino alle città, quelle smart cities che nell'ultimo decennio hanno conquistato l'immaginario collettivo e plasmato il lavoro di urbanisti, funzionari, politici e interi settori industriali. Sono però molte anche le critiche: lo scollegamento con i problemi reali della gente, la ricerca tecnocratica del dominio sulla nostra vita urbana, l'ossessione per la sorveglianza e il controllo, l'incapacità di pensare a strategie che mettano i cittadini – non le aziende o gli urbanisti – al centro del processo di sviluppo. Questo saggio analizza alcune delle critiche alle smart cities, e studia le connessioni tra le infrastrutture digitali che hanno riplasmato il paesaggio tecnologico delle città e i programmi politici ed economici che queste hanno intrapreso o potrebbero intraprendere a breve.

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Parte II

di Francesca Bria

Capitolo 6

Interventi strategici e potenziali alleanze

La battaglia per riformulare il programma politico delle smart cities non può essere vinta senza creare un legame solido con i movimenti sociali urbani e con una nuova generazione di politici che si facciano carico di governare le “città ribelli” e di respingere una visione altamente finanziarizzata delle città, che attualmente appare come l’unica possibile. Le lotte per il diritto alla città e le politiche per la rimunicipalizzazione dei servizi fondamentali e delle infrastrutture urbane sono un chiaro esempio da cui partire per creare nuove piattaforme di attivismo sociale e consolidare la volontà politica di mettere in discussione l’egemonia della smart city.
Tuttavia, anche in seguito a un cambio di prospettiva basato su tali linee guida, rimarrebbero ampi vuoti politici che andrebbero riempiti in fretta. Per esempio, cosa significa diritto alla città nel contesto di una città digitale, gestita dalle aziende tecnologiche e governata dal diritto privato, in cui i cittadini e i gruppi sociali non siano messi in condizione di avere libero accesso a quelle risorse chiave (connettività, dati e reti) che gli permetterebbero di amministrarsi in maniera autonoma? E fino a che punto la perdita di controllo sui servizi alimentati dai flussi di dati minerebbe il successo delle campagne di rimunicipalizzazione, siano queste per la riappropriazione di infrastrutture idriche o energetiche, consentendo così a tali servizi di passare a un proprio modello di consumo “smart” con un una nuova serie di intermediari privati?
Spiegare il concetto di “smartness” come la continuazione naturale degli stessi programmi neoliberisti di privatizzazione ed esternalizzazione rinforzati e ampliati dalla tecnologia sarebbe un passo nella giusta direzione. Questo è un campo in cui i movimenti sociali urbani hanno fatto enormi progressi, almeno per quanto riguarda l’identificazione delle tipologie di interventi pratici in grado di fare la differenza. Per esempio: verificare i contratti esistenti e gli accordi sul debito della città in esame (spesso con l’aiuto di meccanismi quali il citizen audit, ovvero la revisione contabile sui cittadini); richiedere un certo livello di trasparenza e impegno nelle gare d’appalto pubbliche; indagare sul ruolo delle società di consulenza e di altri appaltatori privati nella gestione delle partnership tra pubblico e privato e nelle iniziative di finanza privata; e infine “fare i nomi” e additare pubblicamente le società di private equity e gli altri fondi di gestione patrimoniale che sono riusciti a impossessarsi di infrastrutture importanti per poi trascurare gli investimenti a lungo termine legati alla loro manutenzione.
Anche gli interventi pratici mirati possono avere un effetto notevole. Dal momento che firmare contratti nell’ambito di una smart city comporta l’acquisto di licenze software, bisognerebbe compiere ogni sforzo possibile per ottenere software liberi e alternative open source (una misura che molte città farebbero bene a tradurre in legge). Da questo punto di vista, la promessa di Mosca di eliminare i prodotti Microsoft dai propri sistemi ne ha fatto una capitale all’avanguardia.
In ultima analisi, i tentativi di opporsi al dominio del paradigma neoliberista delle smart cities dipenderanno dall’abilità delle città che oseranno sfidarlo per mettere in luce diverse cose allo stesso tempo.
In primo luogo, dovranno dimostrare che i modelli economici proposti da aziende come Uber, Google e Airbnb non permettono di raggiungere i risultati sperati, non senza causare al contempo gravi danni alle città (a partire dall’ascesa dell’economia speculativa fino all’imponente barriera eretta tra l’innovazione sociale e tutti quelli che non hanno accesso ai dati).
In secondo luogo, dovranno fornire le prove che le risorse e le infrastrutture critiche che attualmente definiamo smart possono essere impiegate anche nell’ambito di un modello economico e normativo differente, il quale produrrebbe risultati che, lungi dall’opporsi al progresso tecnologico, andrebbero a utilizzare la tecnologia per beneficiare i cittadini e il sistema industriale locale anziché le multinazionali. Una strategia basata sul trinceramento nella tecnofobia e sulla minaccia di maggiori normative, senza offrire al contempo alternative costruttive, non incontrerebbe grandi favori in una cittadinanza le cui aspettative circa un’innovazione dirompente sono già state modellate dalle loro esperienze col settore privato.
In terzo luogo, saranno necessari costanti esperimenti e progetti pilota su scala ridotta per mettere a fuoco programmi capaci di generare valore per la cittadinanza, scartando gli esperimenti che non portano benefici positivi concreti. Tali programmi non possono esimersi dal prendere alcune delle idee più radicali associate all’ideologia neoliberista della smart city (per esempio il concetto di city data marketplace) e ribaltarle in modo da liberare la creatività delle comunità locali, sebbene all’interno di un modello non mercantilista. Le città devono appropriarsi e gestire i dati riguardanti le persone, l’ambiente, gli oggetti interconnessi, il trasporto pubblico e i sistemi energetici considerandoli un bene comune. Le infrastrutture di raccolta, visualizzazione e analisi dei dati che alimentano le centrali operative di proprietà delle grandi aziende del settore tecnologico (come il già citato IOC della IBM a Rio de Janeiro) possono essere sfruttate dai cittadini per sollevare questioni relative alla corruzione, all’equità della distribuzione delle risorse municipali e ad altri temi riguardanti il potere e il libero accesso, e contribuire così a una maggiore autonomia e all’autogoverno della comunità.
I progetti più ambiziosi di riappropriazione della sovranità tecnologica a livello cittadino comporterebbero, naturalmente, un tentativo di rivendicare, o almeno di replicare, tutti gli elementi chiave dei metaservizi informativi emergenti (a partire dai sensori e dalla potenza di calcolo fino all’IA e ai dati). Realisticamente parlando, perfino le città con bilanci solidissimi potrebbero rivelarsi incapaci di rispettare un programma del genere punto per punto, ed è verosimile che sarebbero costrette a scegliere tra l’uno e l’altro, quantomeno per ragioni politiche. Molti dei punti in questione, tra i quali, per esempio, l’elaborazione di un sistema di IA alternativo, sarebbero irrealizzabili senza la partecipazione di altre città che seguano la stessa linea di pensiero.
A ogni modo, modificare i regimi di proprietà dei dati potrebbe rivelarsi l’opzione più accessibile, se non altro perché non richiederebbe un impegno economico troppo gravoso e rappresenterebbe un’istanza politica che avrebbe facile presa sulla popolazione. Tale istanza prevede che le città e i cittadini, e non le aziende, siano proprietari dei dati prodotti all’interno dei loro ambienti urbani e inoltre istruiti su come condividerli e utilizzarli per migliorare i servizi pubblici e mettere in atto le proprie politiche. Adottare una posizione risoluta sui regimi di proprietà dei dati potrebbe portare a diversi risultati in un colpo solo.
In primo luogo, renderebbe decisamente più difficili le dilaganti speculazioni immobiliari facilitate da aziende come Airbnb: le città e i cittadini sarebbero in grado di verificare se le frequenti difese d’ufficio da parte dell’azienda, tutte incentrate sul fatto che il servizio vada principalmente a beneficiare gli utenti, siano empiricamente verificabili.
In secondo luogo, affidare alle città la gestione dei propri dati toglierebbe dal tavolo una delle principali monete di scambio che aziende come Uber utilizzano quando negoziano con gli enti di controllo. A Boston, per esempio, Uber ha offerto alle autorità l’accesso al traffico dei propri dati aspettandosi in cambio normative meno stringenti.
In terzo luogo, appare altamente improbabile che le città possano stimolare la crescita di un’economia digitale alternativa, che fornisca cioè soluzioni sostenibili, solide e decentrate rispetto a Uber e Airbnb, senza mettere in campo un regime alternativo di proprietà dei dati come quello dei data commons, che favorisce la sovranità e la condivisione. Senza il patrimonio di dati che questi giganti hanno a disposizione, i contendenti più piccoli potrebbero ritrovarsi nell’incapacità di competere, e le città non sarebbero in grado di indirizzare l’innovazione tecnologica verso le reali necessità dei cittadini e delle imprese locali.

Capitolo 7

Oltre la smart city: alternative pubbliche e democratiche

In una città propriamente democratica, i cittadini devono poter accedere alla conoscenza come bene comune, agli open data e alle infrastrutture digitali pubbliche della città in modo da godere di servizi più equi e innovativi, e dunque di una migliore qualità della vita.
Questo implica la riappropriazione della conoscenza, dei dati e delle infrastrutture digitali critiche che troppo spesso sono e rimangono nelle mani di uno sparuto gruppo di multinazionali tecnologiche.
Inoltre, se si vogliono elaborare un programma e una politica tecnologica genuinamente democratici, che siano in grado di generare nuove economie produttive e di facilitare la condivisione della conoscenza tra città, nazioni e movimenti, è necessario che la sovranità tecnologica, nella quale rientrano i software liberi, gli open standard, il controllo dei dati e le architetture digitali aperte, venga considerata un prerequisito.
Cosa possono fare le città per favorire la transizione verso un modello di smart city non neoliberista? Come rilevato da Paul Mason1 durante il lancio di BITS2, le città hanno bisogno di adottare un approccio nuovo e olistico alle politiche tecnologiche. Suggeriamo qui una lista di azioni essenziali di politica pubblica per trasformare la smart city neoliberale in una città digitale democratica:
Creare un programma per la città dei beni comuni e la produzione cooperativa, e farne un punto di riferimento globale.
Mettere fine al processo di privatizzazione e al passaggio in mani private delle risorse pubbliche, promuovendo al contempo la rimunicipalizzazione di servizi e infrastrutture fondamentali.
Ridurre drasticamente i costi di servizi di base come il diritto alla casa, i trasporti, l’istruzione e la sanità per andare incontro alle fasce più deboli della popolazione.
Costruire modelli economici basati su l’analisi di dati in tempo reale e modelli computazionali che consentono di elaborare decisioni complesse attraverso meccanismi di democrazia partecipativa digitale.
Promuovere le organizzazioni cooperative e dare loro la precedenza sia sullo Stato centrale sia sulle soluzioni di mercato.
Istituire un reddito di base universale mirato a combattere la povertà, l’emarginazione sociale e l’automazione del lavoro.
Creare i city data commons, ovvero stabilire che i dati generati e condivisi dalla popolazione nel contesto dei servizi pubblici non possano essere di proprietà di operatori privati.
Per mettere in campo questo tipo di politiche pubbliche, un esempio innovativo da seguire è quello dell’agenda digitale dell’amministrazione di Barcellona, che fissa standard etici e democratici per una transizione verso la sovranità tecnologica e verso una città digitale basata sui beni comuni.
IL CASO STUDIO DI BARCELONA DIGITAL CITY (BARCELONA.CAT/DIGITAL)
Dal 2013 Barcellona sta vivendo una rivoluzione cittadina dal basso con l’intento di favorire la creazione di una rete di città “ribelli” che ha come obiettivo l’innovazione delle politiche pubbliche per mettere al centro i bisogni dei cittadini, a partire dalla messa in discussione dello status quo. Ada Colau, sindaca di Barcellona, è considerata uno dei sindaci più radicali al mondo. Ex attivista antisfratto e per il diritto alla casa, ha vinto le elezioni municipali sostenuta da una fortissima mobilitazione antiausterità, ovvero la principale forma di opposizione alle classi dirigenti economiche e politiche che hanno condotto la Spagna nel baratro di una crisi sociale e finanziaria in cui centinaia di migliaia di famiglie sono rimaste senza casa e senza reddito.
Appena insediata, la nuova coalizione di governo Barcelona En Comú, finanziata tramite crowdfunding e organizzata attraverso una piattaforma basata sul contributo di migliaia di cittadini, ha intrapreso una serie di riforme sociali. Alcuni dei principali interventi strategici riguardano il blocco degli sfratti e l’ampliamento dell’edilizia popolare basata sul recupero di oltre cinquecentocinquanta immobili lasciati sfitti dalle grandi banche, nonché la regolamentazione di piattaforme di locazione temporanea come Airbnb, la quale favorisce un incremento insostenibile dei prezzi del mercato immobiliare.
Oltre alle iniziative mirate a porre un freno alla sharing economy precarizzata, Ada Colau ha dato il via a un processo di rimunicipalizzazione delle infrastrutture e di servizi pubblici come acqua ed energia. Tra i provvedimenti principali figura la lotta alla povertà energetica, un problema che in Spagna affligge più di tre milioni di nuclei famigliari, che non sono in grado di sostenere i costi delle bollette della luce. Per questo la città ha creato un’azienda elettrica municipale che produce energia rinnovabile. L’intenzione è quella di rimunicipalizzare anche l’azienda idrica e di modificare le normative pubbliche introducendo nuovi standard etici, lavorativi, ambientali, di genere e di tecnologie open source, nonché di consentire alle imprese sociali e alle cooperative un accesso facilitato alle gare di appalto pubbliche.
Queste nuove politiche comprendono anche un approccio critico verso la smart city neoliberista gestita dalle grandi multinazionali della tecnologia, nonché una spinta alla costruzione dal basso di nuove città digitali democratiche, open source e fondate sui beni comuni. La sindaca ha nominato un nuovo commissario alla tecnologia e all’innovazione digitale, cioè chi scrive, mettendolo a capo di un nuovo Dipartimento per l’Innovazione Digitale appositamente creato per definire le politiche cittadine in materia di dati e infrastrutture digitali, guidare la trasformazione digitale della città e avviare progetti di innovazione strategica in linea con le priorità politiche del comune. L’obiettivo è fare in modo che la città cominci a sperimentare nuove politiche e progetti concreti in cui la tecnologia sia davvero al servizio della cittadinanza.
Nell’ottobre 2017 Barcellona ha varato un Piano Digitale sviluppato con la partecipazione dei cittadini, delle comunità tecnologiche, dei makers e dell’ecosistema della ricerca e imprenditoriale. La città catalana sta cercando di porsi come faro della transizione verso una sovranità tecnologica che consenta al governo e ai propri cittadini di determinare le proprie priorità circa la direzione e l’utilizzo delle innovazioni tecnologiche, con chiari vantaggi sociali per il settore pubblico e ritorni economici per l’industria locale. Questo implica il riappropriarsi della conoscenza critica per quanto riguarda i dati e le infrastrutture tecnologiche che troppo spesso rimangono appannaggio delle grandi multinazionali dei servizi, coinvolgendo al contempo le piccole imprese locali, le start up e gli imprenditori sociali nello sviluppo di soluzioni e servizi digitali necessari alla cittadinanza.
Inoltre, il comune catalano ha disegnato una roadmap per la trasformazione digitale3 che contiene chiare linee guida e standard digitali democratici, tra cui:
un codice di condotta tecnologica;
la migrazione verso il software libero, le architetture aperte e gli standard aperti per oltre il 70 per cento dei nuovi investime...

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