Spaghetti robot. Il made in Italy che ci cambierà la vita
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Spaghetti robot. Il made in Italy che ci cambierà la vita

Riccardo Oldani

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Spaghetti robot. Il made in Italy che ci cambierà la vita

Riccardo Oldani

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Lontano dai riflettori, i robotici italiani, tra i più bravi e creativi al mondo, stanno sviluppando macchine intelligenti che presto potrebbero trasformare le nostre vite, rendendo realtà quello che fino a poco tempo fa era considerato fantascienza: robot domestici in grado di farci compagnia, di aiutarci nelle faccende di casa e di prendersi cura di noi; robot operai capaci di lavorare fianco a fianco con i loro colleghi umani; robot soccorritori che possono salvarci da incendi, alluvioni o terremoti; robot chirurghi per curarci o robot da indossare per darci forza e resistenza. Riccardo Oldani racconta le moltissime eccellenze italiane della robotica, all'avanguardia nel mondo e sconosciute ai più, e delinea un prossimo futuro in cui le macchine pensanti saranno sempre più a contatto con noi, nelle fabbriche come a casa, nelle scuole o in ufficio.[L'AUTORE]Riccardo Oldani è un giornalista e scrittore scientifico, che ha al suo attivo numerose collaborazioni con riviste di divulgazione italiane e internazionali. Ha visitato e conosciuto direttamente le realtà di molti istituti di ricerca dove nascono gli "spaghetti robot".

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Capitolo 1
Robot che lavorano
Baxter è tutto rosso, ha un paio di bracci molto lunghi e un monitor su cui compaiono due occhi e una bocca – un simulacro di viso che gli consente di esprimere una ristretta varietà di stati d’animo, dalla contentezza al disappunto. È un robot operaio, con pinze metalliche al posto delle mani, in grado di afferrare con precisione pezzi di ogni forma e dimensione, sceglierli, raccoglierli, inscatolarli o effettuare altre semplici operazioni. Avete presente Charlie Chaplin che stringe bulloni nella catena di montaggio di Tempi moderni? Ebbene, oggi Baxter è il suo omologo, non più in carne e ossa ma tutto viti, lamiera e schede elettroniche. Il suo costo si aggira intorno ai ventimila dollari, cosa che lo rende competitivo perfino rispetto alla manodopera di Cina o altri paesi in cui i salari sono assai più bassi dei nostri. Dal 2004, inoltre, le paghe dei lavoratori cinesi crescono del 14,3 per cento l’anno nel settore pubblico, e del 18,3 per cento in quello privato1; a questo si deve aggiungere, in alcuni settori produttivi, un turnover molto elevato di operai, pari al 5 per cento annuo. Tutto ciò si traduce in ulteriori costi per rimpiazzare i lavoratori già formati2.
Baxter non chiede aumenti di stipendio, né si ferma per andare in bagno, mangiare o fumarsi una sigaretta. Lavora sempre con il sorriso, tranne quando un guasto lo blocca: in tal caso la faccina allegra sul monitor piega in giù gli angoli della bocca, e il responsabile dell’impianto sa che deve chiamare la manutenzione.
Baxter è il prototipo del robot operaio di domani che, secondo alcuni, ci aiuterà a riportare l’industria manifatturiera a casa nostra. Le multinazionali sono andate a delocalizzare le produzioni in luoghi lontani dai reali luoghi di consumo solo perché lì trovano condizioni ideali per ridurre i costi al minimo: regimi fiscali favorevoli, salari ridotti, aspettative limitate. Ma presto i robot operai a basso costo potrebbero far tornare più economica la produzione in Occidente, anche perché il personale preposto al controllo delle macchine e degli stabilimenti robotizzati deve essere preparato, e possedere una competenza e una cultura che al momento sono più facili da trovare negli Stati Uniti o nella vecchia Europa. In California ha fatto scalpore il nuovo stabilimento di produzione della Tesla, il marchio che produce auto elettriche di lusso: collocato a Fremont, nel cuore della Silicon Valley, e acquisito dalla Toyota nel 2010, è stato in fretta riempito di robot (ben 160), che gestiscono tutto il processo produttivo con un minimo intervento umano. L’impianto è anche estremamente flessibile e può essere adattato alla produzione di altri tipi di auto oltre al Model S, oggi assemblato su un telaio disegnato dalla Lotus3.
Il primo robot operaio
Per il momento, chi ha visto Baxter in funzione è rimasto colpito dalla sicurezza e perizia con cui lavora: i sistemi di sensori e di telecamere di cui è dotato gli consentono di individuare con la massima precisione gli oggetti che manipola e di evitare contatti pericolosi con l’uomo, che può stare senza pericolo al suo fianco. Ma sembra anche che al momento Baxter sia ancora un po’ troppo lento in confronto a un suo omologo umano incaricato delle stesse mansioni. I suoi ideatori, i progettisti della società americana Rethink Robotics, forse hanno ancora un po’ di sviluppo da fare. La cosa non sembra preoccupare affatto Rodney Brooks, ex docente del MIT e direttore, sempre nell’ateneo del Massachussets, dello CSAIL, il laboratorio di computer science e intelligenza artificiale. Rod, come ama farsi chiamare, è stato uno dei fondatori di iRobot, la compagnia che per prima ha trasformato in prodotto di massa il concetto di robot di servizio. Gli aspirapolvere di iRobot, che scorrazzano nelle case di oltre due milioni di persone in tutto il mondo, sono l’esempio forse più noto di quel tipo di automi nati per collaborare con le persone, e condividere con loro lo stesso ambiente: i service-robot, appunto, conquista relativamente recente della robotica, comparsi tra la fine del secolo scorso e gli anni duemila.
Prima di loro c’erano soltanto i robot industriali, i predecessori di Baxter, concepiti per lavorare nelle fabbriche, in isole di produzione in cui l’uomo non può entrare per non correre pericoli; ecco, è proprio questa la grande distinzione nel mondo robotico. Le due linee genealogiche dei robot industriali e dei robot di servizio sono separate da un solco profondo, un po’ come è stato per l’uomo moderno, Homo sapiens, e l’uomo di Neanderthal, Homo neanderthalensis: due specie che vissero a lungo insieme sul pianeta condividendo tante affinità ma, in definitiva, molto diverse e in competizione tra loro, tanto da determinare l’estinzione di quella meno attrezzata. Forse la storia dei robot sarà diversa da quella degli umani, e gli automi di servizio si incroceranno con quelli industriali dando vita a qualcosa di nuovo, un po’ operaio un po’ assistente; Baxter potrebbe essere il primo esemplare di questa nuova generazione di robot ibridi, e Rod Brooks ha fondato la sua Rethink Robotics proprio con questa idea in testa. Ma non è l’unico a fare ragionamenti sull’evoluzione delle macchine: anche i maggiori produttori mondiali di robot industriali stanno pensando a una maggiore cooperazione tra automi e operai.
Italiani alla riscossa
Rethink Robotics è una pulce in un mercato dei robot industriali dominato, in realtà, da un manipolo di aziende nel mondo. Tra queste la Comau, società della galassia Fiat, è italiana ed è nata a Torino, anche se oggi, con 24 sedi in 13 paesi, è a tutti gli effetti una multinazionale. Grazie ad aziende come Comau e altre, che fanno del Piemonte un polo di eccellenza nella robotica industriale, l’Italia può a buon diritto considerarsi nell’élite mondiale dell’industria che automatizza l’industria; e si trova orgogliosamente alla guida del processo culturale che cambierà le fabbriche del futuro.
Noi italiani facciamo molta fatica a riconoscere le nostre capacità: per esempio, siamo la seconda potenza manifatturiera d’Europa (dopo la Germania, la quale può tra l’altro contare su una popolazione di oltre 80 milioni di persone contro i nostri 60, e quindi su un mercato interno più ampio, più manodopera, più bocche da sfamare e anche più lavoro). Siamo più creativi dei tedeschi in molte produzioni specializzate, e siamo più forti di Francia e Gran Bretagna dal punto di vista produttivo, con più industrie, più varietà nel tessuto manifatturiero, più export4; eppure la nostra esterofilia ci porta sempre a vedere nel prato dei vicini un’erba più verde. Molti, per esempio, pensano che l’elevatissimo numero di imprese in Italia sia un fatto negativo, da collegare a una polverizzazione in tante microattività dal basso livello tecnologico. Piccole dimensioni, nella testa di tanti (compresi anche alcuni capoccioni della Commissione Europea), è sinonimo di incapacità di competere con i più grossi, poche risorse per investire e fare ricerca, tecnologia di second’ordine. In alcuni casi forse è così, ma molto più spesso no: l’industria italiana è tra le più automatizzate del mondo, con un rapporto elevatissimo tra addetti e robot industriali. In altre parole abbiamo molti più automi nelle nostre aziende, anche in quelle piccole, di quanti ne usino gli americani, i francesi, gli spagnoli e gli inglesi. In quanto a densità di robot nell’industria siamo al quarto posto nel mondo, con 159 unità robotiche ogni 10.000 addetti. Una classifica in cui siamo preceduti solo da Corea del Sud, Giappone e Germania5. Per darvi un’idea, gli Stati Uniti stanno a meno di 90 robot per 10.000 addetti. Nelle fabbriche di automobili, che in genere sono più automatizzate rispetto alle altre produzioni, in Italia lavorano circa 1.060 robot ogni 10.000 operai.
Le ragioni di un successo
Che cosa significhi la robotizzazione dell’industria italiana in termini di occupazione lo vedremo dopo. Per ora concentriamoci su un fatto: perché siamo così tecnologicamente avanzati in questo settore? Che cosa ha determinato il fatto che, insieme ai giapponesi, siamo considerati i padri della moderna robotica industriale?
È Arturo Baroncelli ad aiutarmi a ricostruire una storia e uno scenario: Baroncelli lavora come dirigente alla business unit di Comau dedicata alla robotica, è un ingegnere meccanico che ha maturato un’esperienza di lunghi anni nel gruppo torinese e, ancora prima, in Olivetti. Nel corso della sua carriera ha ricevuto vari riconoscimenti internazionali ed è anche presidente della IFR (Federazione Internazionale della Robotica), che riunisce produttori, centri di ricerca e associazioni industriali del settore. «Negli anni sessanta» mi racconta «a dominare lo scenario erano gli americani, che producevano enormi robot idraulici. Negli anni settanta, però, ci fu la rivoluzione: un primo grande breakthrough tecnologico determinato dallo sviluppo dell’elettronica e, in particolare, da due importanti novità, la comparsa dei servomotori elettrici e lo sviluppo di microprocessori con una potenza di calcolo interessante, decisamente superiore rispetto al decennio precedente. Queste innovazioni consentirono molto presto di sviluppare robot a sei assi, servocontrollati e con motori elettrici, che si dimostrarono subito molto efficienti. Gli americani non seguirono questa innovazione tecnologica e sparirono dalla scena, tranne qualche eccezione. Il pallino passò in mano ai giapponesi e agli europei tra cui, in prima fila, gli italiani».
I bracci robotici antropomorfi, cioè sviluppati sul modello del braccio umano, diventarono il paradigma del robot industriale, uno schema costruttivo che nella sostanza non è più mutato. «Si è lavorato moltissimo per migliorare l’elettronica, i materiali, gli algoritmi di funzionamento» dice Baroncelli «ma quell’architettura di base sostanzialmente non è più cambiata, fino ai giorni nostri. Oggi, però, assistiamo agli inizi di una nuova rivoluzione, un nuovo breakthrough, destinato con ogni probabilità a cambiare i robot industriali».
Per scoprire in cosa consista questo cambiamento dobbiamo prima capire cosa abbia significato, per almeno quattro decenni, sviluppare il concetto di robot industriale antropomorfo a sei assi; questa macchina, concepita per lo più per l’industria delle automobili, si è rivelata particolarmente versatile e potente, in grado di effettuare operazioni come la saldatura delle lamiere o la movimentazione di pezzi pesanti. Ricordo che avevo iniziato a lavorare da poco, credo fosse il 1985 o giù di lì, quando andai in visita a un’azienda torinese, la Bisiach & Carrù, ben nota tuttora per i suoi robot altamente tecnologici. Aveva appena lanciato l’ultimo modello di robot per la saldatura, una macchina grande e molto agile, velocissima, capace di muoversi con abilità intorno a pezzi metallici, come portiere o scocche di auto, per effettuare la saldatura a punti. Questa veniva eseguita da una grande pinza metallica posta all’estremità del braccio. Una macchina impressionante, ma senza dubbio molto pericolosa: chiunque si fosse trovato nel raggio d’azione del braccio robotico avrebbe rischiato la pelle. E in effetti quei robot lavoravano, e i suoi discendenti lavorano tuttora, in isole automatizzate e recintate, dove gli addetti umani non possono accedere se non quando le macchine non sono in movimento. Se qualcuno ci provasse, i sistemi di sicurezza e i sensori posti sulle recinzioni dell’isola automatizzata fermerebbero i robot all’istante.
La Bisiach & Carrù è una tra le tante aziende piemontesi che lavorano nel settore. Baroncelli mi propone un facile esercizio, per farmi capire la densità tecnologica del territorio: «Se lei dovesse prendere una cartina del Piemonte e puntare un compasso del raggio di 30 chilometri, facendo centro su Torino, individuerebbe un cerchio all’interno del quale può contare almeno una ventina di aziende in grado di sviluppare un sofisticato sistema robotizzato di saldatura industriale, per le automobili o per qualsiasi altro tipo di produzione. Le assicuro che nel mondo non ci sono molte città in cui potrebbe ripetere l’operazione con risultati paragonabili». Insomma, tra gli anni settanta e ottanta in Piemonte, grazie al traino dell’industria automobilistica e alla genialità di un gruppo di imprenditori-artigiani, la robotica è fiorita in modo straordinario. E sempre in Piemonte si sta pensando a come cambiarla, secondo direzioni diverse da quelle preconizzate da Baxter.
La fabbrica destrutturata
«La tendenza che vedo prendere forma» dice Baroncelli «è quella di uno sviluppo massimo dell’interazione tra uomo e macchina. I robot industriali tendono a uscire dalle loro gabbie, e questo potrà succedere soltanto con modelli più sofisticati, con più assi di movimento e un massiccio uso di sensori, che consentiranno alla macchina di capire cosa le succede intorno e di avere contatti sempre più intensi con l’uomo. In ambito industriale, del resto, non troviamo i problemi che un robot di servizio deve affrontare in una casa, in uno spazio pubblico o, come diciamo noi, in un ambiente destrutturato». Avete figli? Bambini piccoli, magari di tre o quattro anni? Ecco, le loro camerette sono il classico esempio di ambiente destrutturato: lo scenario è in continua mutazione, tra dieci minuti saranno del tutto diverse rispetto a come sono ora. «In uno stabilimento abbiamo ambienti semistrutturati» osserva Baroncelli «quindi relativamente più semplici rispetto alla cameretta dei bimbi o agli scenari in cui si muovono i robot di servizio puri. È però fondamentale, in un sito produttivo, che oltre alla sicurezza vengano soddisfatti due requisiti basilari: flessibilità e velocità. In altre parole, quanti pezzi si fanno al minuto». Robot flessibili, capaci di svolgere diverse funzioni, di lavorare molto in fretta e di passare in modo istantaneo da una funzione all’altra. Questo faranno, con tutta probabilità, gli automi operai del futuro.
Di prototipi ne esistono già. La Kuka, per esempio, gruppo tedesco specializzato in robotica industriale, ha messo a punto un braccio robotico “leggero” (Leichtbauroboter) con sette gradi di libertà, ispirato al braccio umano e facilissimo da programmare. Non solo, è dotato di un sistema che gli consente di prevenire incidenti: appena percepisce la presenza umana blocca subito il suo movimento, anche se l’ostacolo gli si presenta all’improvviso e a pochi centimetri di distanza. Pensato soprattutto per la ricerca e per piccole produzioni, il braccio leggero è stato scelto anche dall’ente aerospaziale tedesco, il DLR, per realizzare Justin, un robot umanoide progettato con vari obiettivi, tra cui lavorare nello spazio alla manutenzione della Stazione Spaziale Internazionale. Le braccia e le gambe di Justin sono realizzate con i robot Kuka.
Anche ABB, la multinazionale dell’elettronica e dell’energia, con solide tradizioni in Italia (controllava la Tecnomasio, a cui si deve l’elettrificazione di buona parte della penisola), ha prodotto un braccio robotico che, montato in coppia su un torso, ha dato vita al prototipo Frida. Frida è uno dei risultati di un progetto europeo, chiamato Rosetta, iniziato nel 2009 e concluso nella primavera del 2013, per la realizzazione di un sistema robotico in grado di interagire con l’uomo, lavorare con lui nello stesso ambiente, fianco a fianco, e prevenire ogni rischio di incidente. Al progetto ha contribuito attivamente il Politecnico di Milano e, in particolare, il dipartimento di elettronica e informazione, sotto il coordinamento di un brillante studioso italiano, Paolo Rocco. Tra i sistemi testati su Frida c’è anche un algoritmo in grado di interpretare le informazioni fornite dai sensori del robot e le immagini di un sistema di visione artificiale, il quale registra il passaggio e i movimenti di tutti gli addetti, che siano fermi o in transito nell’area di lavoro; l’algoritmo non solo verifica se le persone stazionino nel raggio d’azione del robot ma, sulla base dei dati registrati, è in grado di costruirsi un’esperienza e prevederne gli spostamenti. Equipaggiata con questo strumento, quindi, Frida ha la capacità non solo di acquisire piena consapevolezza di ciò che fanno le persone nelle sue vicinanze, ma anche di anticiparle, regolando di conseguenza i propri movimenti: quando percepisce la presenza di una persona il robot cambia il proprio modo di muoversi e operare, rallentando e adottando movimenti simili a quelli delle braccia umane. In questo modo anche per le persone presenti è più facile capire, in modo istintivo, cosa farà la macchina, perché i suoi movimenti sono modellati su quelli umani.
Altri sensori sul braccio del robot lo bloccano e lo inducono, se necessario, ad assumere una posizione di stop in caso di contatto con un oggetto o una persona. Un video pubblicato da ABB su YouTube ne mostra la straordinaria velocità e la precisione dei movimenti. In un’inquadratura si vede Frida ripetere un movimento simile a quello che facciamo quando picchiamo il pugno destro sul palmo della mano sinistra. All’improvviso entra in scena la mano di un coraggioso volontario (non robotico, ma umano) che si va a interporre tra i due bracci del robot: quest’ultimo, proprio mentre sta completando il gesto descritto, si arresta, in pratica a contatto con la mano umana, senza procurarle alcun danno6.
Il progetto Rosetta ha sviluppato, e applicato su Frida, anche un innovativo sistema di programmazione dei movimenti del robot, che può essere facilmente reimpostato per eseguire nuovi tipi di lavorazioni, nel caso si verifichi un cambio della linea di produzione o delle mansioni affidate alla macchina. Per “insegnare” al robot i movimenti da fare non è necessaria nessuna conoscenza di programmazione, in quanto l’operatore incaricato ha a disposizione due strade: può disegnare sul computer di bordo un semplice diagramma di flusso, con gli step che la macchina deve compiere in sequenza (per esempio: afferra l’oggetto, ruotalo, mettilo in una scatola) oppure, cosa ancor più straordinaria, può limitarsi a dirgli cosa fare. Frida capisce il linguaggio, effettua il movimento, dopo averlo eseguito per la prima volta in modo completo lo memorizza, ed è poi in grado di svolgerlo alla velocità che desidera. Non solo: è anche in grado di correggere i movimenti per renderne più precisa l’esecuzione, mostrando quindi una cap...

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Oldani, R. (2015). Spaghetti robot. Il made in Italy che ci cambierà la vita ([edition unavailable]). Codice Edizioni. Retrieved from https://www.perlego.com/book/2433866/spaghetti-robot-il-made-in-italy-che-ci-cambier-la-vita-pdf (Original work published 2015)

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Oldani, Riccardo. (2015) 2015. Spaghetti Robot. Il Made in Italy Che Ci Cambierà La Vita. [Edition unavailable]. Codice Edizioni. https://www.perlego.com/book/2433866/spaghetti-robot-il-made-in-italy-che-ci-cambier-la-vita-pdf.

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Oldani, R. (2015) Spaghetti robot. Il made in Italy che ci cambierà la vita. [edition unavailable]. Codice Edizioni. Available at: https://www.perlego.com/book/2433866/spaghetti-robot-il-made-in-italy-che-ci-cambier-la-vita-pdf (Accessed: 15 October 2022).

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Oldani, Riccardo. Spaghetti Robot. Il Made in Italy Che Ci Cambierà La Vita. [edition unavailable]. Codice Edizioni, 2015. Web. 15 Oct. 2022.