White Trash
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Storia segreta delle classi sociali in America

Nancy Isenberg, Pietro Cecioni

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Storia segreta delle classi sociali in America

Nancy Isenberg, Pietro Cecioni

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La storia degli Stati Uniti, fin dalle origini, è segnata non solo dal tema della razza, ma anche dalle divisioni di classe. Accanto ai puritani del New England e al loro sogno di una «città sulla collina», o ai grandi proprietari schiavisti del Sud, la colonizzazione del Nordamerica è stata scandita sin dal Seicento dall'arrivo di masse di poveri e derelitti, servi a contratto chiamati a riconquistare la propria libertà attraverso il lavoro, ma destinati a rimanere senza terra o case di proprietà per tutta la vita, trasmettendo ai propri discendenti un retaggio di miseria e risentimento.Spaziando dalla retorica alle azioni politiche, dalla letteratura popolare alle teorie scientifiche e ripercorrendo quattrocento anni di storia americana, Nancy Isenberg mette in discussione l'immagine degli Stati Uniti come società senza classi – nella quale la libertà e il duro lavoro garantirebbero la mobilità sociale – e racconta dalla prospettiva dei white trash i grandi eventi che hanno segnato l'America: dalla Guerra di Secessione alla segregazione razziale; dal New Deal a Donald Trump.

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1
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PORTARE FUORI LA SPAZZATURA
RIFIUTI UMANI NEL NUOVO MONDO

Le colonie dovrebbero essere gli emuntori o gli scoli degli Stati; per drenare la sporcizia.
John White, The Planter’s Plea, 1630
Nelle menti degli inglesi istruiti, all’inizio del periodo coloniale nel 1500, il Nord America era un mondo sconosciuto abitato da creature mostruose, un territorio vuoto attorniato da montagne d’oro. Dato che era una terra strana, che pochi avrebbero mai visto di persona, i racconti spettacolari avevano molta più presa delle osservazioni pratiche. I due maggiori promotori in Inghilterra dell’esplorazione americana non misero mai piede sul nuovo continente. Richard Hakluyt il vecchio (1530-1591) era un avvocato della Middle Temple, il vibrante centro della vita intellettuale e della politica di corte nella metropoli londinese. Il suo omonimo e molto più giovane cugino (1552-1616) studiò al Christ Church, a Oxford, e non si avventurò mai oltre le coste francesi.1
Il vecchio Hakluyt era un avvocato intellettualoide con ottime entrature tra coloro che desideravano ottenere un profitto dalle imprese oltreoceano. La sua cerchia includeva mercanti, ufficiali della corona, e uomini del calibro di Sir Walter Raleigh, Sir Humphrey Gilbert, e Martin Frobisher, ciascuno dei quali voleva ottenere fama e gloria attraverso l’esplorazione. Questi uomini d’azione erano dotati di ego smisurati, erano una nuova razza di avventurieri, conosciuti per il loro eroismo ma anche per il loro comportamento pubblico spericolato.
Il giovane Richard Hakluyt era un membro del collegio di Oxford e del clero, che dedicò la sua vita a catalogare le storie dei viaggi degli esploratori. Nel 1589, pubblicò il suo lavoro più ambizioso, Principall Navigations, un catalogo esaustivo di tutte le testimonianze che riuscì a raccogliere dai viaggiatori inglesi, riguardanti l’Est, il Nord e, ovviamente, l’America. Nell’epoca di Shakespeare, tutte le persone di una certa importanza leggevano Hakluyt. L’inarrestabile John Smith citava generosamente dai suoi scritti, provando di essere più che un brutale soldato di ventura. Anche prima di pubblicare Principall Navigations, Hakluyt il giovane aveva cercato di ottenere il favore della corona. Preparò un trattato per la regina Elisabetta I e i suoi principali consiglieri, dove presentava la sua teoria sulla colonizzazione britannica. Discourse of Western Planting (1584) era un testo di pura propaganda, progettato per persuadere la regina dei benefici della colonizzazione americana. Sir Walter Raleigh aveva commissionato il testo, sperando in un finanziamento statale che non ricevette mai, al momento del lancio della spedizione che portò alla breve vita della colonia di Roanoke, sulle coste della Carolina.
Nella visione coloniale inglese di Hakluyt, la lontana America era una terra selvaggia di incommensurabili dimensioni. Per l’intellettuale francese Michel de Montaigne, nel 1580, era l’habitat di un popolo semplice e puro, che egli eccentricamente chiamò «cannibali», mettendo astutamente in discussione l’immagine popolare di bruti che s’ingozzavano di carne umana. Come Hakluyt, non aveva mai visto persone appartenenti al popolo dei Nativi, ovviamente. Hakluyt era perlomeno più pratico (e più anglicano) di Montaigne nella sua analisi degli aborigeni. Credeva che non fossero né pericolosi né innocenti, ma contenitori vuoti pronti a essere riempiti con le verità del Cristianesimo e, non meno, del mercato. Immaginava gli indiani come utili alleati nel portare a buon fine le aspirazioni inglesi, possibili partner commerciali e subordinati, va da sé, ma soprattutto come una risorsa naturale da sfruttare per il bene superiore.
Usare «vuota» come metafora per una terra misteriosa aveva uno scopo legale per lo Stato inglese. Senza padroni riconosciuti, il territorio era disponibile e pronto per essere acquisito. Anche nel caso del colto chierico Hakluyt, il tropo con il quale descrisse la conquista rappresentava l’America come una stupenda donna che aspettava di essere corteggiata e sposata dagli inglesi. Sarebbero diventati i suoi legittimi proprietari e degni custodi. Era tutta una finzione, ovviamente, dato che la terra non era realmente inane ac vacuum – vuota e vacante. Nella concezione inglese, d’altro canto, tutte le terre dovevano essere tolte dal loro stato naturale affinché generassero profitto – solo allora sarebbero state realmente possedute.2
Ovviamente, gli indiani che la occupavano vennero considerati incapaci di possedere un vero titolo. Spulciando tra le antiche leggi alla ricerca di analogie convincenti, i colonizzatori inglesi classificarono i Nativi come selvaggi, e a volte barbari. Gli Indiani non costruivano quelle che gli inglesi riconoscevano come case e città permanenti; non delimitavano il terreno lavorabile con siepi e recinti. Sotto il loro controllo, il territorio appariva selvaggio e indomito – John Smith, nei suoi resoconti sulla Virginia e poi sul New England, lo definì «estremamente rivoltante» e pieno d’erbacce. Questi Indiani vivevano sfruttando la terra come nomadi passivi. I piantatori alla ricerca di profitto e i coltivatori industriosi, d’altro canto, erano necessari per lavorare il suolo ed estrarne ricchezze, e imporre la loro mano ferma affinché ciò venisse fatto.
Questa potente concezione dell’uso della terra avrebbe giocato un ruolo chiave nelle future categorizzazioni di razza e classe sul continente in fase sperimentale. Prima ancora di stabilire nuove e laboriose società, i coloni indicarono alcune persone come amministratori imprenditoriali delle terre sfruttabili, dichiarando gli altri (la vasta maggioranza) semplici occupanti, un popolo con nessun investimento tangibile nella produttività o nel commercio.
Brulla o vuota, incolta o rancida, la terra acquisì un significato fondamentalmente inglese. Gli inglesi erano ossessionati dallo spreco, ed era la ragione per la quale l’America per loro era sopra ogni altra cosa una wasteland. Ovvero una terra non sviluppata, fuori dai flussi dello scambio commerciale e separata dalle regole non scritte della produzione agricola. Giacere nello spreco, nel linguaggio biblico, significava vivere in uno stato di desolazione e abbandono; in termini agrari, significava essere lasciato incolto e non sviluppato.
La terra vuota era terra inutilizzata. Tratti arabili di appetibili proprietà potevano essere associati solo a campi solcati, filari di colture e di alberi da frutta, onde dorate di grano, e pascoli per vacche e pecore. John Smith sottoscrisse quest’ideologia con un’allusione semplice, anche se poco elegante: il diritto alla terra degli inglesi era basato sulla loro volontà di tappezzare il suolo di concime. Un elisir inglese a base di letame avrebbe magicamente trasformato la selva della Virginia, mutando la terra desolata e non zappata in ricco territorio inglese. Tutto quello spreco esisteva per essere trattato, e poi sfruttato. Era ricchezza non ancora realizzata.3
Nei suoi Discorsi sulle piantagioni occidentali (Discourse of Western Planting), Hakluyt descrisse apertamente l’intero continente come «quella fabbrica di niente che è l’America». Non terra firma, ma cantiere fermo. Ai suoi occhi le risorse naturali erano materiale grezzo che poteva essere convertito in merce di valore. Come altri inglesi del suo tempo, equiparava le terre vuote con i terreni comuni, le foreste e le paludi – quelle terre che gli imprenditori agricoli del sedicesimo secolo adocchiavano per i futuri profitti. Le terre vuote servivano gli interessi dei proprietari privati nel mercato commerciale, una volta che i terreni comuni erano delimitati e pecore e bestiame vi pascolavano; le foreste potevano essere abbattute per il legname e per far spazio agli insediamenti, le paludi potevano essere drenate e convertite in terreno ricco e arabile.
Non era solo la terra a poter essere considerata lerciume; la stessa sorte toccava anche alle persone. È da qui che parte il nostro ragionamento: l’America di Hakluyt aveva bisogno di quelli che lui definiva «rifiuti umani»: la massa di lavoratori che servivano a tagliare gli alberi, battere la canapa (per farne delle corde), raccogliere il miele, salare e disseccare il pesce, trattare le pelli degli animali, scavare la terra per estrarre i minerali, coltivare olive e seta, suddividere e imballare le penne degli uccelli.4
Si figurò che questi lavori sarebbero stati svolti da poveri, vagabondi, debitori, criminali e vigorosi giovani senza lavoro. «I fry (figli piccoli) di mendicanti vagabondi che crescono oziosamente, recando danno e pesando sul reame, potrebbero essere scaricati e cresciuti meglio». I mercanti sarebbero stati inviati a commerciare con gli indiani, vendendo gingilli, mostrando tessuti e raccogliendo informazioni sull’entroterra del continente. Erano necessari degli artigiani: falegnami per processare il legname, carpentieri, mattonai e imbianchini per costruire gli insediamenti; cuochi, lavandaie, panettieri, sarti e calzolai per servire la giovane colonia.
Da dove sarebbero arrivati questi lavoratori? Gli artigiani, pensava, potevano essere inviati senza indebolire l’economia inglese. Ma il grosso della forza lavoro doveva provenire dai crescenti ranghi dei poveri e dei senzatetto. Costoro erano, nell’allusione inquietante di Hakluyt, «pronti a mangiarsi l’un l’altro», cannibalizzando l’economia inglese. Oziosi e senza scopo, aspettavano di essere trapiantati in America per essere sfruttati meglio, seppur non più umanamente.
Questa visione della povertà era largamente condivisa. Un progetto a lungo portato avanti, proposto per la prima volta nel 1580 ma mai realizzato, prevedeva la creazione di una flotta di pescherecci da cento tonnellate, con una ciurma complessiva di diecimila uomini, metà dei quali dovevano essere reclutati tra i vagabondi. Il progetto di lavoro delle galee era stato concepito allo scopo di battere i notoriamente industriosi olandesi nella pesca commerciale. Il matematico e geografo allora in voga John Dee immaginò un’altra soluzione marittima alla povertà. Nel 1577, con l’espansione della marina britannica, propose di convertire i poveri in marinai. Altri volevano semplicemente rimuovere gli indigenti dalle strade, in un modo o nell’altro, inquadrandoli come lavoratori forzati per costruire strade e fortificazioni o ammassandoli nelle prigioni e nelle case di correzione. La prigione di Bridewell, fondata a Londra nel 1553, fu la prima di queste istituzioni a proporsi di riformare i vagabondi. Entro il 1570, erano state edificate altre case di correzione. I loro fondatori si offrivano di educare i figli dei poveri perché venissero «cresciuti tra fatica e lavoro», cosicché non seguissero le orme dei genitori e non diventassero «oziosi malviventi».
In questo senso, Hakluyt immaginava l’America coloniale come una gigantesca casa di correzione. Questo fatto dev’essere adeguatamente sottolineato. Via via che «la fabbrica di niente che è l’America» veniva colonizzata, sarebbe divenuta un luogo dove i poveri in eccesso, i rifiuti umani d’Inghilterra, potevano essere convertiti in una risorsa economica. La terra e i poveri potevano essere mietuti insieme, per aggiungere qualcosa, invece che sottrarla continuamente, alla ricchezza nazionale. Tra i primi gruppi di deportati c’erano i detenuti ai quali erano assegnati i lavori più duri: abbattere e bruciare gli alberi per ottenere carbone, catrame e lisciva; altri venivano impiegati per l’estrazione di oro, argento, ferro e rame. Ai detenuti non era corrisposto un salario. Come schiavi debitori, erano obbligati a ripagare il Commonwealth britannico per i loro crimini, producendo beni di consumo per l’esportazione. In cambio, sarebbero stati salvati da una vita da criminali, evitando, come scrisse Hakluyt, di essere «miseramente impiccati» o ammassati nelle prigioni a «languire penosamente» e morire.5
Secondo Hakluyt, la ricompensa maggiore sarebbe stata ottenuta dalla generazione successiva. Importando le materie prime dal nuovo mondo ed esportando tessuti e altri beni necessari, i poveri in madrepatria avrebbero trovato lavoro, in modo che «nessuna povera creatura» si trovasse costretta a «rubare, affamarsi, e mendicare come suo solito». Avrebbero prosperato proporzionalmente alla crescita del commercio coloniale. I figli dei «mendicanti vagabondi», che «saranno risparmiati dall’oziosità, e resi abili dal loro stesso lavoro semplice e onesto», sarebbero cresciuti responsabilmente, «senza oberare gli altri». I bambini che sfuggivano alla povertà, non più pesi per lo Stato, avrebbero potuto reinserirsi onestamente nella forza lavoro. I figli dei poveri spediti oltreoceano sarebbero «cresciuti meglio», rendendo il popolo britannico migliore, e i lavoratori più industriosi. Sembrava tutto perfettamente logico e realizzabile.
Considerare gli indigenti dei perdigiorno, la feccia della società, non era certo qualcosa di nuovo. Per generazioni gli inglesi avevano portato avanti una guerra contro i poveri, specialmente i senzatetto e i vagabondi. Nel quattordicesimo secolo una serie di leggi aveva inaugurato una campagna concentrata sull’estirpare questa dannata «madre di tutti i vizi». Entro il sedicesimo secolo, dure leggi e punizioni furono messe in atto. Pubbliche gogne venivano erette nelle città per i servi fuggitivi, insieme a pali per la fustigazione e gabbie poste in tutta Londra. Marchiature a ferro e taglio delle orecchie identificavano questa sottoclasse e la separavano dal resto della società in quanto criminale. Una legge del 1547 permise di marchiare i vagabondi con una V sul petto e di ridurli in schiavitù. Anche se quest’inusuale pratica pare non essere mai stata messa in pratica, si può considerare un’ovvia conseguenza dell’odio generalizzato verso i poveri.
Nel 1584, quando Hakluyt scrisse i suoi Discorsi sulle piantagioni occidentali, i poveri erano ormai costantemente condannati come «sperperatori» e «oziosi», una popolazione malata, pericolosamente mobile e senza radici, a zonzo «in lungo e in largo per tutto il regno». Equiparati a sciami d’insetti, etichettati come «una moltitudine strabordante», ci si riferiva a loro come a una corrente fluviale, che inquinava e danneggiava la salute economica inglese.
I bassifondi avviluppavano Londra. Come notò un osservatore nel 1608, l’alta concentrazione di poveri creava una colonia sotterranea di «mostri» sporchi e sfigurati, che vivevano in «caverne». Venivano accusati di riprodursi rapidamente e di infettare la città con la «piaga» della povertà, associando in questo modo la disoccupazione a una malattia contagiosa. Le lontane colonie americane venivano presentate come una cura. I poveri potevano essere purificati. Nel 1662, il famoso poeta e pastore John Donne scrisse della Virginia, descrivendola come il fegato e la milza della nazione, che filtrava «i cattivi umori del corpo... per creare buon sangue», rimuovendo i rifiuti umani dal corpo politico. Richard Hakluyt il vecchio, senza farsi particolari problemi, chiamò i poveri destinati all’espatrio «le interiora del nostro popolo».6
I poveri erano rifiuti umani. Spazzatura. Quelli robusti tra loro, senza difetti fisici, suscitavano sdegno per la loro oziosità. Ma come potevano i vagabondi, che in media percorrevano dalle venti alle ottanta miglia al mese, essere chiamati oziosi? William Harrison, nella sua popolare Descrizione dell’Inghilterra (1577), offrì una spiegazione. L’oziosità era energia sprecata. I continui spostamenti dei vagabondi non portavano a nulla. Il nomadismo non permetteva loro di mettere radici sane (stessa cosa valeva per gli indiani) o di unirsi alla forza lavoro stanziale di servi, fattori e artigiani. Harrison considerava l’oziosità come noi oggi considereremmo una macchina in folle: il motore è acceso ma la vettura è ferma. I poveri oziosi erano intrappolati in una stasi economica. Al pari delle lande desolate, i poveri della classe più bassa erano stagnanti. La loro energia non produceva nulla che avesse valore, erano come erbacce infestanti che rovinavano un giardino.7
Le lande desolate, quindi, erano un obbrobrio, o come le chiamavano gli inglesi, «una voragine». I poveri venivano equiparati alle erbacce o a bestiame malato che pascolava su di un letamaio. Ma a differenza delle docili mandrie, che venivano allevate con cura e confinate in recinti, i poveri potevano diventare dannosi e rissosi. Occasionalmente si ribellavano. La crema della società non poteva essere protetta dal fastidio pubblico rappresentato dai poveri, dato che sembrava fossero ovunque: ai funerali, alle messe, sulle strade e sui sentieri, nelle taverne, e si attardavano intorno al parlamento, persino alla corte del re. Giacomo I era talmente infastidito dai vagabondi che infestavano il suo palazzo di Newmarket che nel 1619 scrisse alla Virginia Company, con sede a Londra, per chiedere loro aiuto nel rimuovere questa sgradevole gentaglia dalla sua vista, spedendola oltreoceano.8 Uomini senza padrone, alienati e improduttivi, i poveri vagabondi avrebbero acquisito un padrone coloniale. Per Hakluyt e altri, questo modello semimilitare aveva un suo senso. Era già stato impiegato in Irlanda. Nel nuovo mondo, per sottomettere i nativi o nella contesa con le altre nazioni europee con ambizioni coloniali, si sarebbero dovute erigere fortificazioni, scavare trincee, produrre polvere da sparo e addestrare uomini all’uso dell’arco. La militarizzazione aveva anche altri scopi cruciali. Gli ex soldati formavano uno dei sottogruppi più grandi dei vagabondi inglesi. I marinai erano vagabondi del mare, e spesso erano attratti dalla pirateria. Le guerre del sedicesimo secolo si basavano sull’assaltare fortificazioni inespugnabili, e richiedevano assedi prolungati e grandi quantità di fanti. Ogni volta che scoppiava una guerra, i poveri venivano reclutati, diventando quella che uno studioso chiamò «l’armata di riserva dei disoccupati».
La vita di un soldato all’inizio dell’era moderna era dura e imprevedibile. Le truppe smobilitate spesso si abbandonavano a saccheggi sulla via di casa. Nella letteratura popolare dell’epoca, i soldati diventati ladri erano i protagonisti di una serie di racconti piccanti. La confraternita dei Vagabondi (1561), di John Awdeley, e altri testi di questo genere dipingevano i poveri vagabondi come un vasto network di bande rapaci. Ex soldati ne riempivano i ranghi, in qualità di uprightmen, o leader dei banditi. I con...

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